Girolamo De Simone

ESTETICHE DEL PLAGIO

 

 

 

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            Michel Jackson copia (?) Al Bano. Patty Pravo copia (?) la band This Mortal Coil. Casi di plagio si susseguono sempre più frequentemente, quasi a dimostrare l’effettività di una tesi: quella della scomparsa dell’autore, e della compresenza di una collettività agente di fruitori-compositori che raccoglie e manipola idee già collocate nello spazio mediatico.

 

 

 

Antefatto

 

            Due idee angolari avevano dato una forte spinta reazionaria alla sperimentazione musicale dell’ultimo ventennio (almeno): quella di repertorio, che ancora opprimeva le opere con l’assillo di una collocazione ‘in linea’ con i capolavori del passato (e la musica tedesca l’aveva fatta da padrona), e quella di ‘novità’, per la quale il vero compositore poteva essere soltanto quello in grado di ‘dire’ qualcosa di rivoluzionario, cioè qualcosa che non fosse mai stato detto prima.

            Queste due caratteristiche, la cosiddetta linearità o conseguenzialità della produzione, e la pretesa di pronunciare  sempre parole ulteriori, avevano, come è noto a tutti, finito col cacciar via a pedate la gente dalle sale da concerto, sia da quelle che continuavano a propinare musica di repertorio ‘doc’ (con la conseguente crisi di programmazione tipica delle più retrive associazioni di melomani), sia da quelle che pretendevano creare nuovi classici presentando in sequenza le operine da camera dei quindicimila compositoruncoli sperimentali.

            Ma un altro effetto era decisamente più deleterio: il soffocamento progressivo patito dagli stessi compositori, per i quali la crisi del linguaggio, la ricerca di una ‘loro’ caratteristica riconoscibilità, erano diventati un luogo comune, spesso confinante col silenzio (il caso di Evangelisti è solo esemplare). Altri si arroccavano nella cittadella della rinuncia, portando ad estrema consunzione l’unica (saltuaria) invenzione della loro musica, quella per la quale sarebbe bastato un brano di tre minuti, e che invece occupava pagine e pagine, dischi e dischi, stagioni e stagioni.

            Intere esistenze di compositori ‘sperimentalistici’ si sono consumate nella ricerca della ‘novità per la novità’, ancorché quest’ultima nulla di sostanziale fosse in grado di aggiungere alla stessa riconoscibilità degli autori: uno sperimentalismo vale l’altro, perché non emoziona, non lancia messaggi o ponti al di fuori dell’opera.

 

 

 

Sconfitta

 

            Così, un larvato senso di insoddisfazione, di smarrimento, di fallimento, ha permeato la generazione di musicisti, pur di talento, che chiude questo millennio. Alla sensazione di svilimento ha fatto contrappeso la creazione di un ghetto, nel quale volontariamente gli stessi compositori si sono rinchiusi, assieme al loro pubblico (venti o trenta persone), alle loro operine fatte in serie, ai loro dischi e ai loro manoscritti inediti o fotocopiati dalla casa editrice di grido. Un ghetto dal quale tutti gli esclusi, vale a dire la maggior parte del pubblico, era ben felice di esserlo: la gente che volesse ascoltare musica viva avrebbe anche pagato pur di non  presenziare ad un concerto di musica contemporanea. 

            In questo mondo, in questo nostro mondo, è mancato chi gridasse consapevolmente ai quattro venti la sconfitta di un certo tipo di musica. E soprattutto è mancato chi lo facesse senza calare nella voce quel tanto di rimpianto per l’arte aurea del passato, quel tanto di commiserazione per le opere che incontravano il favore della gente, alludendo a quest’ultime come se si trattasse del  prodotto di una sottocultura necessaria. Della necessaria resa della complessità di fronte alle ragioni della semplicità e ai desiderata del popolino. Nulla di più falso.

 

 

 

 

Messa in parentesi

 

            Sarebbe più che opportuno abdicare temporaneamente al nostro pregiudizio d’autore, e all’attestazione forte delle ragioni dell’opera unitaria. Basterà lasciare tra parentesi la consapevolezza antica d’essere soggetti, e potremmo farlo facilmente, visto che per anni ci hanno insegnato tutto sui plurali delle verità, dei soggetti, dei saperi. Anche non condividendo la debolezza di queste tesi,  potremmo almeno tentare di collocarci in una zona neutra, come avviene nel test del vaso e dei visi: compaioni alternativamente l’uno o gli altri, ma si mantiene sempre la sensazione di una presenza ulteriore, non visibile.

            Nel gioco della comparsa e scomparsa per veli alternanti, di ri-velazione  e disvelamento, qualcosa potrebbe apparire o sparire, esserci al di là dello sguardo, o restare appena visibile al margine di occhi socchiusi, come le immagini di sconcertante bellezza alluse da Proust.

 

 

 

In linea. Fuori linea

 

            Cosa significherà andare oltre il margine del foglio? Questa semplicissima operazione potrà ancora scolvolgere chi ha fatto ricerca tra le corde di un pianoforte? Michaux aveva un bel parlare della sfera (quante volte la si è riferita a Scelsi), delle linee intrecciate e prolungate verso la follia. Ma a quanti è già chiaro cosa significhi sviluppo ‘lineare’ (ad esempio delle intuizioni di Schönberg) e sviluppo ‘extralineare’  (ad esempio di quelle di Stravinskij)? Qualcuno, ancora nel passato, già prese come motivo di ricchezza la citazione, la trascrizione, la permutazione, la contaminazione. Si trattava della non riconoscibilità dello stile come valore: non sarebbe un percorso da prendere in considerazione? Laddove lo stile scompare, l’autore si fa evanescente: siamo sufficientemente forti per rinunciare alle prerogative, tutte occidentali, che gli sono ancora riservate? Non è certo un caso  che  generalmente si sottovalutino l’importanza creativa dell’interprete, o la pratica dell’improvvisazione strumentale. Viviamo ancora all’ombra del segno; la scrittura ci soffoca, e le strutture silicee di Deleuze ci sono sconosciute. Di fronte allo scheletro di una canzone jazz ho visto impallidire grandissimi interpreti, fare la figura di neonati che balbettano sincopi per il timore della deriva.

            La deriva è ricchezza, ma siamo incapaci di coglierne lo spirito.

 

 

 

Sprazzi di luce

 

            Eppure, qualcosa s’è mosso: altrove, ma anche qui da noi. Tanta insoddisfazione doveva alla fine generare qualche dubbio. Si deve soprattutto al rock la capacità di sondare le nuove interfacce utente, rivificando perfino parte del jazz, e rendendo sempre più eclatante la distanza esistente tra la musica contemporanea che fu ed il suo possibile pubblico.

            Soprattutto nei garage e nei sottoscala s’è sviluppata una nuova sensibilità, collegata anche all’esigenza di gestire segnali Midi di piccola entità, creare basi musicali che facessero il giro dei piano bar, dei pub e delle piazze delle feste di provincia, allestire infine piccoli banchi mixer e addirittura antidiluviani revox o modernissimi registratori digitali. I più sofisticati viaggiano oggi su un TGV che si chiama CD-Rom; dischi interattivi che portano stampato grandissimo il nome dell’autore, ma che infine all’autore non lasciano che vuota vuotissima copertina, perché tutto il contenuto è variabile, personalizzabile, contaminabile a seconda delle esigenze del fruitore.

 

 

 

Confusione

 

            S’è diffusa in ambito londinese, e parigino, la musica africana. S’è creato un mercato sufficientemente florido per la musica del mondo, etnica, contaminata o globale.     Alcuni compositori, prima esclusi dal ghetto e dai canali di produzione, si sono affermati sorprendentemente con musica che ancora riesce addirittura a dire qualcosa, magari rinunziando alla prolissità, o affermando la sacralità di cori, oppure ancora elevando a sistema la fusione (quasi missaggio) tra rapidissimi sketch pubblicitari o fumettistici. Musica cinematografica ha fatto il successo di films e di compositori. Tutto questo riuscendo ad invadere il mercato, e alla faccia delle teorie di Adorno.

            L’opera è in grado di farsi merce senza privarci del godimento estetico, e senza passare necessariamente per i canali delle major, visto l’incredibile impatto urbano della musica e dei gruppi prodotti dai Centri Sociali. In realtà, la virtualità altera le tradizionali categorie politiche, e presto questa inevitabilità raggiungerà l’apoditticità del visibile.

            La concretezza dei software avrà la pesantezza dei mattoni. L’immagine sarà una protesi biologica del mentale. L’ipermercato sarà a venti centimetri dal nostro viso. I programmi televisivi ci vedranno tutti protagonisti, seduti nelle poltrone virtuali degli show intermediali. Internet è la pallida evanescenza di quello che sarà l’enorme spazio condiviso attraverso la tecnologia presente (e futura). Il controllo sociale avverrà attraverso le reti, la resistenza a questo controllo si chiamerà forse hackers. I prodotti culturali non avranno la rigidità di un foglio, l’impenetrabilità di un disco al vinile. Già il compact permette una maggiore ‘appropriazione’ e ‘personalizzazione’ delle tracks. I dischi laser garantiranno una totale e continua ‘entrata-uscita’ dal sistema: le musiche saranno sempre più mescolate, sempre più nostre. Il disco sarà un oggetto estetico confezionato a nostro uso e consumo.

            E lo faremo da noi.

 

 

 

Plagi?

 

            Un enorme terreno condiviso non riesce più a discriminare le terre di ciascuno. Ogni luogo allarga i propri confini e li sovrappone a quelli circostanti. Le incursioni pirata negli standards predisposti dall’ ‘autore’ saranno la ricchezza e la bellezza di un prodotto ipermediale. Queste varianti verranno anzi richieste, perché nella variazione e nella velocità aforistica della successione di immagini diverse è il futuro dell’arte.

            La nostra percezione è cambiata: la velocità degli spot ha modificato la sensibilità e la recettività. Ci annoiamo della lunghezza, della pedanteria, non conserviamo memoria dei discorsi troppo lunghi, delle architetture monumentali, delle forme ponderose ed affermative del vecchio modo di ‘comporre’. Una estetica del plagio ne presuppone una della scomposizione. Frammenti, stille, particelle di suoni e immagini. L’arte del futuro funzionerà per accensioni infinitesimali. Sarà simile al funzionamento del nostro cervello, e sarà probabilmente intuitiva, connettiva, extralineare: capace di seguire la velocità di pensiero, lo scatto d’intelligenza. Non saranno ammessi passi indietro.

            Avrà significato la nozione d’autore in scenari come quelli intravisti? Il patrimonio collettivo sarà sconnesso col reale, porterà le musiche dei territori alla dispersione o sparizione? Sarà ‘indotto’ da regie occulte?

            Sorgono nuove estetiche che rivoluzionano da cima a fondo le nostre abitudini di compositori. Sarebbe il caso di cogliere il senso (vettore) forte di queste stratigrafie, di lanciare le nostre opere in questa straordinaria avventura. Si tratta solo di rimuovere nomi, lasciar circolare virus, rinunciare a territori d’appartenenza.