Girolamo De Simone
MUSICHE PER OGNI CONSUMO
Consumo di oggetti esposti, esposizione del
consumo, consumo dell’esposizione del consumo, consumo dei segni, segni del
consumo.
Henry Lefebvre, 1971
In fin dei conti, l’opera è un oggetto che ‘può’
essere commercializzato, venduto, consumato. La qualità di quest’opera musicale
prescinde dal suo veicolo, inteso estensivamente come le caratteristiche e le
precondizioni che ne consentono il consumo, e non ha nulla a che vedere con la
effettività di ciò che la rende ‘cosa da vendere’.
Questa semplice premessa ha conseguenze di
straordinarie importanza, poiché a causa dei teorici della seconda scuola di
Vienna, e degli epigoni di Darmstadt, fino a poco tempo fa l’estetica non era
riuscita a spiegare e ad assimilare la musica commerciale, e la sua validità,
cioè la capacità dell’opera di mantenere una effettiva capacità di creare
relazioni, rimandare ad altro, possedere un senso (inteso sempre come vettore
di significato capace di rinviare a qualcosa di differente, il cosiddetto
‘eteroriferimento’ dell’opera).
Per essere più espliciti, la
qualità e il veicolo hanno certamente una qualche relazione, ma la qualità prescinde tanto dal veicolo
quanto dalla comunicazione e dall’influenza dell’industria culturale: solo così
può esistere un’opera di valore anche nel caso delle più becere canzoni pop.
Questo valore, in sé, può risiedere ad esempio nella funzione sociale o
politica svolta, nella sua struttura, nel contributo di evoluzione delle forme
musicali e dei linguaggi, e in generale nella capacità di senso del brano.
L’opera è anche
rappresentazione di un’idea. Come tale viene tutelata, con alcuni eccessi (tipo
società degli autori)[1].
Senza arrivare ad un’abolizione del copyright dovrebbe invece esistere
la possibilità di un’opera collettiva., e di un’opera frutto del cosiddetto
‘dono unilaterale gratuito’. Queste forme caratteristiche sembrano essere
quelle che potrebbero dare all’opera musicale il suo significato[2].
Anche se viene generalmente
trascurato in un’epoca incapace di riferimenti storici men che prossimi (ciò
avviene nelle università, nelle accademie, nei conservatori più retrivi, ed è
tipica di luoghi istituzionali che hanno perso qualsiasi capacità di produrre
cultura), dal punto di vista delle macrostrutture estetiche la linea che unisce
la materialità dell’opera e la sua capacità di significato è stata rintracciata
nella dissertazione dottorale di Marx, e nella critica della Ragion pratica di
Kant, come dimostrato altrove[3].
L’ intuizione del problema, non la soluzione, è invece riconducibile
sorprendentemente ad Otto Weininger. La qualità dell’opera ed il suo consumo di
massa non possono prescindere da entrambe le stringhe:
-materia / potere / industria culturale / commercializzazione / vendita
/ consumo
-idea / resistenza / memoria / intenzionalità / utilizzazione
consapevole.
I criteri per analizzare e
per produrre appaiono plurimi; gli insiemi che girano attorno all’opera
risultano estremamente complessi. Ad esempio, un fenomeno (o una corrente)
potrà apparire anche interessante se studiato con finalità sociologiche, ma
andrà subito stigmatizzato dal punto di vista delle strutture musicali in senso
stretto. Alla sponda opposta, opere estremamente stratificate andranno
ugualmente combattute, al contrario, per la loro incapacità di comunicare con
il pubblico, e condannate per una ricerca fine a sé stessa (è il caso della
produzione extracolta di moda fino a un decennio fa e di derivazione
darmstadtiana: di recente tutti hanno velocemente cambiato pelle, adottando di
fatto quanto teorizzato nel lontano 1984)[4].
L’opera può essere consumata
senza per questo perdere qualità estetica. La questione, posta in relazione al
problema dei consumi giovanili, potrebbe creare qualche malinteso. Invece anche
qui ci si trova né più né meno che di fronte al problema che riguarda tutte le
tipologie di consumo. Mi chiedo se esista un consumo ‘adulto’, o se si possa
parlare propriamente di ‘consumi per soli adulti’… Un consumo ‘adulto’ infatti prescinde evidentemente dall’età del
consumatore, e coincide con quel consumo che riesce a mantenersi il più
possibile consapevole, ad indirizzarsi verso questo o quel prodotto
musicale assecondando la tasca del fruitore, propensione e volontà di ascolto -
orientamento, differenziazione tra prodotti ed esigenze del momento, tra motivi
di studio o di svago, intrattenimento o ascolti ‘d’arredamento’. Questa
consapevolezza nella capacità di scegliere non ha nulla a che vedere con l’età
del consumatore perché la capacità d’individuazione, la selettività, e
soprattutto la lucidità non sono certo variabili dell’età. Esse anzi vengono
offuscate per consuetudini, lotte di sopravvivenza e resistenza, tutte cose che
caratterizzano l’attuale fase della storia occidentale, anche per le
inevitabili e parziali ‘compromissioni’ che oggi qualsiasi agire comporta.
Allora bisogna individuare
le tipologie generali di consumo, valutare quanto queste siano applicabili
all’universo giovanile, stabilire la convenienza di un intervento e la sua
‘effettività’ (possibilità di riuscita in relazione alle condizioni del
mercato, il quale sembra presentare poche brecce tra monopoli consolidati).
Se la tipologia del consumo
giovanile ha un carattere di generalità, questo non ci esonera dal tentare un
intervento. Esso non avrà un carattere ‘correttivo’, né surrogherà o si
sovrapporrà a quello delle industrie culturali, ma concernerà l’offerta più
variegata di opere/merci. E, soprattutto, considererà lo studio dei flussi di
mercato con la stessa serietà e competenza degli analisti di vendita degli
ipermercati reali o virtuali, ma con finalità differenti dal mero utile,
finalità ad esempio di conservazione della memoria (onde evitare facili
revisionismi), di lucidità nelle scelte, di capacità di orientare il mercato
anche dal basso attraverso forme di resistenza o di contropotere (come avrebbe
scritto Foucault). Sembrerebbe così almeno necessario ampliare la scelta della
mercanzia sugli scaffali degli ipermercati della cultura, intendendo con questo
auspicio l’arricchimento e la diversificazione dell’offerta musicale, e
comprendendovi anche le tipologie ritenute oggi erroneamente ‘ostiche’.
Infatti, da un lato è vero che il mercato sceglie, che viene orientato almeno
quanto orienta, che distribuzioni su larga scala diventano antieconomiche per
chi produce. Ma è pur vero che nella possibilità di dischi ‘collettanei’ frutto
del lavoro di più autori, o attraverso opere con tracce estremamente
diversificate, potrebbe sia garantirsi il ritorno economico delle major,
sia non escludere la possibilità di una scelta a priori. Nella mancanza di
capacità di suggerire tali strategie alle case di produzione, una enorme
responsabilità ricade sulla critica giornalistica, di sempre minore qualità, e
sullo snobismo selettivo ed acido della musicologia specializzata. Invece,
ampliando la scelta, o considerando la possibilità di consentire maggiori
opzioni all’interno dei dischi più venduti (cosa accadrebbe se ogni cantautore
di successo consentisse all’inserimento di un brano ‘altro da sé’ nel suo disco
di successo?), o nelle liste gratuite di file Mp3, le possibilità di riuscita
potrebbero essere interessanti, anche se percentualmente poco significative, o
corrispondere alla resistenza che s’impunta sulla soglia esterna del potere
diventandone la ruga inaspettata. Non escluderei anche colpi di scena e
capovolgimenti temporanei tra le forze in campo. Un brano frutto di
un’operazione intelligente, acuta, strategica, potrebbe sorprendentemente
occupare il mercato, ritagliarsi una nicchia di sussistenza, svolgere (fino
alla sua inevitabile assimilazione) una funzione di salutare, temporanea, icona
di progresso.
Le opere frutto di nuove
consapevolezze estetiche, e potenzialmente in grado di occupare una nicchia di
mercato e di incunearsi come piccola resistenza presentano caratteri che stanno
definendosi abbastanza velocemente, ma che vanno considerati in progress, a causa della straordinaria
velocità delle innovazioni tecnologiche, e dei gusti dei fruitori/consumatori.
Ne elenco alcuni.
1- Molti brani non sono
congelati all’interno dei confini di genere.
2- Essi hanno accesso e
utilizzano le tecniche della contaminazione, la quale non è affatto quella che
ci propinano i giornali (mettere in una canzone pop una tabla o un sitar per
renderla world o etno[5],
oppure minimizzare la portata del fenomeno asserendo che “tanto la
contaminazione c’è sempre stata”[6]).
Come tali sono con/fusi, frutto dell’ibridazione, meticci.
3- Le opere/merce utilizzano
le nuove tecnologie e spesso ne sono condizionate (vedi il caso del già citato
formato di compressione audio denominato Mp3, e all’opposto, sul versante della
eccellenza qualitativa, i nuovi supporti audio-video DVD e soprattutto SACD).
Tale condizionamento non ne inficia il valore estetico.
In particolare, tutta una
serie di modalità e tecniche sono collegate allo sviluppo informatico. Occorre
però fare dei distinguo. Sarà
opportuno, ad esempio, rifuggire dalla sorda aspirazione d’appartenenza al
repertorio cristallizzato ed evitare il crisma della novità per la novità,
agitato come bilancino di validità estetica e a mo’ di spauracchio dai teorici
di Darmstadt.
Dal punto di vista delle
nuove tecnologie, appare importantissimo l’uso dei recenti registratori
multitraccia, o la possibilità ormai alla portata delle tasche di chiunque, di
lavorare in audio digitale anche a casa propria. L’aspetto che riguarda
l’arricchimento della creatività, e pertanto la cura e lo sviluppo delle
immagini sonore, è stato reso straordinariamente facile dallo sviluppo dello standard
Midi, che consente da anni di colmare lacune dell’immaginazione con strepitose
sonorità di tutti i tipi, alla faccia dei benpensanti e dei guru della musica
elettronica. Tale sviluppo e tale ‘massificazione’ hanno dato fastidio a quanti
ritenevano di detenere un potere-sapere nell’esercizio esclusivo delle
tecnologie, e nella trasmissione di questo sapere ad una ristretta cerchia di
allievi (a tutto vantaggio dell’altra chimera della musica veterosperimentale,
quella della ‘scuola’ compositiva di riferimento: per valutare il tasso di
accademia di un compositore basterà considerarlo equivalente al processo di
identificazione che nutre per i suoi allievi…)[7].
4- Le nuove opere sfruttano
naturalmente inedite modalità di comunicazione: in rete, opere collettive
scritte e diffuse a più mani, divulgazione via fanzine, passaparola informatico, reti alternative di diffusione
autogestita, divulgazione di software i
cui molteplici autori hanno lavorato a titolo gratuito (esempio tipico quello
del sistema operativo Linux). Quello che è in gioco, insomma, è il pregiudizio
d’autore[8]
5- Le opere tengono spesso
conto del mutare degli standard di attenzione dei fruitori: essi sono ormai
abituati dal genere ‘canzone’ a fruire di lavori che non superino i quattro
minuti; la loro attenzione cala a causa dell’abitudine a percepire entro pochi
secondi i messaggi pubblicitari; il loro consumo va differenziandosi in relazione
alle occupazioni quotidiane e va orientandosi secondo un criterio per il quale ad ogni istante della giornata, e a ciascuna
esigenza di lavoro, svago, riposo, rilassamento, sessualità, corrisponde una
determinata musica. Pertanto, non una generale omologazione della
produzione, ma una differenziazione che tenga conto dei parametri estetici
della nostra quotidianità, e che riaffermi la validità estetica di ogni
produzione.
Il plagio e le sue estetiche[9],
la possibilità di alterare, invertire, in fondo saccheggiare qualsiasi aspetto
della cultura ufficiale[10],
gli jinglemakers e la musica da spot, le compilation dei dj e le loro
estetiche scratch[11],
le nuove musiche metropolitane, quelle usate nei megastore per favorire la
vendita, o nelle aziende per aumentare la produzione, le siglette di attesa
telefonica, il proliferare del protocollo Midi tra i sedicenni, delle
musichette personalizzate dei cellulari, di quelle rigorosamente pirata dei
siti Web, delle segreterie telefoniche e dei videogames, le musiche/icona
pensate direttamente o esclusivamente per un supporto multimediale, le tecniche
del morphing acustico[12]
creano un reticolo di nuove musiche per il quale gli strumenti di analisi
consueti risultano non solo inadeguati, ma addirittura fuorvianti.
Come si può constatare nelle
prassi quotidiane dei musicisti che si mantengono al di fuori delle accademie,
la straordinaria ‘massificazione’ temuta e combattuta da Adorno ha invece fatto
sì che la musica arrivasse, nella sua valenza di gioco creativo o di puro
intrattenimento e passatempo, ad una gran quantità di non addetti ai lavori.
Peò anche molti compositori professionisti hanno ampliato le loro possibilità
notazionali utilizzando a profusione i nuovi mezzi, oggi finalmente diffusi
perfino nelle scuole e messi in rete grazie a normative che consentono la
creazione di laboratori musicali informatizzati[13].
Alle pratiche dell’agire
solo in parte hanno corrisposto adeguate formulazioni teoriche. Tra gli autori
più consapevoli, nel 1990 Fredric Jameson ha ipotizzato una insufficienza
adorniana sulla questione dell’opera d’arte e della sua massificazione. Il suo
libro, tradotto in italiano soltanto nel 1994, mette in luce la distanza tra le
esperienze di fruizione di massa ed i codici tradizionali usati per
rivisitarle. Dopo averla posta, lascia la questione in modo interlocutorio:
«(…) bisogna allora escogitare una definizione e un’analisi dei surrogati
dell’arte per tutti quegli spettatori e ascoltatori che, pur credendosi
impegnati in un’esperienza culturale, non sembrano tuttavia sapere cosa sia
l’arte né aver mai raggiunto una ‘genuina esperienza artistica’, né infine aver
saputo d’essere stati fin dall’inizio privati di essa»[14].
Finalmente Jameson ipotizza che la perfezione tecnologica della cultura di
massa «sembra infatti rendere più plausibile la nuova dignità di tutti questi
oggetti d’arte commerciali, in cui una specie di caricatura della concezione
adorniana dell’arte come innovazione tecnica si sposa ora con il riconoscimento
della più profonda saggezza utopica inconscia propria di quelle masse di
consumatori il cui ‘gusto’ la convalida»[15].
Si colgono tra le righe sia ironia che auspici, subito illustrati: «(…) forse
oggi, in un tempo in cui il trionfo delle teorie più utopiche della cultura di
massa sembra completo ed egemonico, abbiamo bisogno del correttivo di una
qualche nuova teoria della manipolazione e della mercificazione»[16].
Sempre del 1990, anch’esso tradotto in italiano nel 1994, è
il lavoro di Richard Middleton. Quest’ultimo, con maggiore acutezza di Jameson
individua nella popular music i caratteri della eventualità di opere
collettive o gratuite, grazie alla quale si potrebbe sfuggire dalla vendita
delle opere «come se fossero oggetti di consumo»[17].
Egli descrive bene il controllo solo parziale delle case discografiche sul
mercato: «le case discografiche cercano certamente di controllare la domanda,
di incanalarla in direzioni conosciute, ma non sono mai sicure del loro mercato; il massimo che possono fare è offrire un ‘repertorio
culturale’ per coprire un ventaglio di probabilità in modo da minimizzare i
rischi – ed è proprio questo che dà una spiegazione alla colossale
sovrapproduzione di dischi, gran parte dei quali è in perdita». Middleton
prosegue spiegando come la musica non possa, ancorché prodotto di massa,
«essere solamente un prodotto, un
valore di scambio, anche nella sua forma consumistica più rozza»[18].
In definitiva Middleton sottopone le tesi adorniane ad una critica giusta
quanto spietata, e si ricollega a Benjamin per ridefinire i termini dei
prodotti culturali in relazione al loro consumo di massa. Molti temi sono
toccati e portati a buon esito, anche se talvolta se ne sottovaluta la portata,
come nel caso della nozione di ‘massificazione’. Avevo espresso la medesima
necessità di un allontanamento da Adorno e dai teorici di Darmstadt in un
pamphlet del 1993, ed in numerosi altri luoghi[19].
Altri due autori sono
interessanti, John Walker e Dick Hebdige, anche se appaiono piuttosto confinati
all’ambito pop. Per il primo la consapevolezza che «la passione
dell’avanguardia per la sperimentazione formale, la ricerca di originalità e il
continuo esercizio critico non sono affatto incompatibili con le richieste del
mercato della musica»[20],
può consentire ad alcuni musicisti pop di sperimentare, purché mantengano entro
certi limiti la trasgressione. Walker sottovaluta e semplifica le relazioni e
le compromissioni tra potere e contropotere, e li considera vettori rigidamente
contrapposti. Eppure lo stesso Walker, citando da Simon Frith segnala che:
«imparare ad essere artista significa imparare a giocare con il senso della
differenza, diventare una pop star implica vendere tale differenza alle masse.
Qui non si tratta di una contrapposizione tra arte e commercio, ma del commercio
come arte, come spazio da riempire con la creatività, la personalità e lo stile
dell’artista»[21]. Dick
Hebdige si spinge notevolmente più avanti, anche se non sta occupandosi dello
specifico musicale. In relazione a Barthes: «lungi dall’essere silenziose, il
numero delle voci che parlano attraverso e in vece delle cose mute è
sterminato. L’enigma dell’oggetto non è tanto nel suo silenzio, nella sua
supposta essenza, quanto piuttosto nel brusìo che cresce intorno ad esso»[22]. Egli è consapevole della funzione di resistenza espressa anche attraverso
l’appropriazione e la trasformazione di beni di consumo: «La nuova economia -
un’economia di consumo, di significanti, di sostituibilità e avvicendamenti
infiniti, di flussi e manovre - a sua volta produsse un nuovo linguaggio del
dissenso. I termini che erano stati definiti in negativo dalle èlite culturali
dominanti furono rovesciati e adattati a dare significati oppositivi in quanto
assunti (nel modo suggerito da Marcuse) dai difensori (esponenti della controcultura)
del cambiamento e convertiti in valori positivi (edonismo, piacere, futilità,
disponibilità e così via)»[23].
Musiche per il consumo di massa, che non abdichino
alla qualità, perché il valore estetico è nell’eteroriferimento dell’opera,
cominciano ad affacciarsi soltanto da qualche anno in un ambito che non sia
esclusivamente quello pop. Vengono fuori con stupore da qualche spot di
successo, o dalla colonna sonora di un film-spazzatura, o creano fenomeni
stravaganti come le migliaia di copie vendute da un pezzo sacro di Pärt o da
una sinfonia di Gòrecki. Questi fenomeni, gli autori, i meccanismi di
produzione automatica di musica (siglette, musiche libere dal copyright,
compilation alla John Zorn, etc.) vengono combattuti sia dall’accademia che
dalla veteroleografia consolatoria, come lo sono stati Glass ed altri
minimalisti americani ed europei che avevano dato voce nell’ambito colto alla
cultura esclusivamente pop della riproduzione di serie.
Ma con questi brani e queste tecniche,
probabilmente, gli studiosi devono ancora fare i conti per comprendere dove
stia andando la musica, e soprattutto quale possa essere la sua funzione
comunitaria.
In questa prospettiva, certo complessa, si pone il
lavoro di alcuni musicisti, per i quali si era cercato a lungo un nome. Essi
appaiono sul confine, lo oltrepassano, propongono l’abbattimento delle barriere
di genere. Qualificati fino a qualche anno fa come ‘musicisti di frontiera’,
oggi confluiscono naturalmente nella ‘border music’, neologismo inventato per
la mia rubrica su “il manifesto”[24].
Non si tratta quindi di una nuova etichetta, ma di un modo molto semplice per
qualificare una produzione che, pur apparendo in continuità con quanto accaduto
fino ad oggi dal punto di vista dello sviluppo naturale della storia della
musica, si oppone invece (risultando talvolta in aperto conflitto), ai teoremi
ed ai veti imposti dal credo di Darmstadt. Per questo la musica di frontiera
viene ostacolata da quanti professano ancor oggi il culto veterosperimentale:
teorici degli anni Settanta (cui pure va riconosciuto il merito di aver
costruito una teoria della postavanguardia, e averla conservata attraverso la
memoria, ma che poi non dovrebbe però essere oppressiva, benché reazionaria),
compositori che hanno trasformato l’avanguardia in accademia, enti lirici e ‘fondazioni’, che pensano di
difendere i repertori uccidendo il contemporaneo, o che il contemporaneo arrivi
solo ai primi del Novecento, con l’unica eccezione di Boulez. Ecco la necessità
di stabilire una linearità con la storia della musica, in particolare
attraverso l’aspetto della ‘contaminazione’ intragenerica/infrastilistica,
extragenerica (mescolando differenti discipline artistiche, come il cinema, la
diapittura, la video-art, etc.) ed infragenerica, e nello stesso tempo segnalare il differente ed il discontinuo tra
questa produzione contaminata e la più recente espressione di una
contemporaneità che è apparsa spesso decisamente formalistica ed
alessandrinistica, con la conseguenza, ormai riconosciuta perfino dai
compositori di penna più snob, della divaricazione e della frattura quasi
insanabile tra compositore e pubblico nella fruizione dell’opera.
La ‘musica di frontiera’ o
‘border music’ può alludere alla world o global music, alla ambient, in parte
alla fusion, e, solo in casi circoscritti, ad alcune atmosfere della new
age più evoluta. Ma si tratta di riferimenti sempre temperati dalla nostra
rilettura, che dà a queste ‘etichette’ un connotato di grande novità rispetto a
tutto quello che era stato fatto alla fine del Novecento. In particolare
bisogna precisare la vicinanza con la ambient (al capostipite Brian Eno, in
accoppiata con Harold Budd e Jon Hassell), e la distanza dalla new age, perché
altrimenti la pubblicistica non specializzata tende a banalizzare ed a
collocare i musicisti di frontiera nell’alveo della semplificazione esasperata
tipica di quest’ultimo filone. Nella ‘border’ c’è maggiore consapevolezza di
cosa possa significare proporre una musica che sia figlia del nostro tempo,
riuscendo tuttavia molto più comunicativa rispetto alla cosiddetta produzione
‘colta sperimentale’, cosa che per la verità, in sé sola, non c’è voluto molto
a realizzare, considerata l’asfitticità e la totale assenza di ‘senso come
significato’, purtroppo tipiche di molta produzione meramente retorica,
speculativa e autoreferenziale.
La musica di frontiera
utilizza stilemi appartenenti a diversi generi ed a diverse zone geografiche.
Potrà usare la tecnica dei clusters pianistici o quella del respiro
circolare, e poi accostarle ad una progressione modale jazz. Può utilizzare
voci etniche e miscelarle ad un formicolante quartetto d’archi che funge da
tappeto sonoro con il live elettronics.
Può affiancare tecnologie avanzatissime a strumenti tradizionali, orientando la
ricerca di senso verso i contenuti piuttosto che verso il vuoto formalismo dei
linguaggi. Per questo la musica di frontiera si lascia alle spalle molti
presupposti ‘accademici’, infrangendo i ruoli tra esecutore e compositore (come
realizzato in alcuni brani da: Balanescu Quartet, Adams, il vecchio Glass, e
tra gli italiani l’Harmonia Ensemble e il gruppo Sentieri Selvaggi, per citare solo alcune formazioni), dando
spazio all’improvvisazione e pari dignità estetica alla produzione di musicisti
provenienti da settori non convenzionali (dal rock, ad esempio, come Frank
Zappa; o dal jazz, come John Zorn). Quelli che parlano questo linguaggio
provengono spesso dalla popular (che poco ha a che vedere col nostro
concetto di ‘popolare’, mantenendo intatta ed integra la valenza semantica
tipicamente anglosassone, e riconducibile a Richard Middleton) o dalla minimal,
specialmente europea. Alcuni sono lettoni o polacchi. Altri ‘pendono’ verso le
proprie radici di genere, e cioè appaiono sbilanciati verso il jazz o verso la
new age, pur restando capaci di operazioni di estrema sensibilità commerciale.
I nomi sono noti: Adams, Bryars, Rannap, nelle forme ‘minimal’ più evolute.
Pärt, Gorecki, in quelle mistico-evocative. Sakamoto, Zappa, Jarrett (nelle
loro produzioni più inconsuete, ovviamente) in quelle pendenti verso generi già
definiti. Ma il fenomeno della border music, ancorché attestato
inconsapevolmente ma saldamente in tutto il mondo, conosce una sua
teorizzazione e definizione soprattutto in Italia, perché qui ha trovato la sua
codificazione e consapevolezza estetica (non soltanto pratiche dell’agire,
quindi, ma prassi), e quegli elementi tipicamente meticci, di
con/fusione, che le hanno permesso di svilupparsi e di arrivare a coprire, non solo
sul versante etnico, le richieste di alcune major, come ad esempio la ECM di
Manfred Eicher. Una particolare mescolanza di etnico ‘popolare’ (come la nostra
eccellenza melodico-tematica) e di tentazione meticcia o ‘meridiana’, per
richiamare l’opera di un sociologo (si pensi ad esempio al melting-pot
che si realizza in città come Napoli, con fenomeni come il rap metropolitano,
una scuola di elettronica, l’ emergenza di musicisti di frontiera…). Gli
italiani che, oltre all’autore di questa nota, ritengo possano inserirsi a
pieno titolo in questo filone musicale (che è anche un filone di consapevolezza
estetica), sono certamente Luciano Cilio, precursore fin dagli anni Settanta
delle nostre atmosfere, Ludovico Einaudi, Arturo Stalteri, Eugenio Fels. Molto
interessante l’opera di Giovanni Sollima, col quale però non ho mai avuto
occasione di confronto diretto[25].
Nei lavori di questi autori
la musica si avvale di amplificazioni, uso di tecnologie e supporti Cdr,
muovendosi tuttavia sempre all’insegna della comunicazione e della gradevolezza
di fruizione. Non si tratta naturalmente di una scatola vuota: coniughiamo la
nuova essenzialità stilistica alla completa assimilazione dei linguaggi
musicali contemporanei. Il favore del pubblico, per il momento, sembra darci
ragione. E non è poco.
Piccolo
catalogo dei suoni-accessorio
Contra Barthes
“Lungi dall’essere silenziose, il numero delle voci
che parlano attraverso e in vece delle cose mute è sterminato. L’enigma
dell’oggetto non è tanto nel suo silenzio, nella sua supposta essenza, quanto
piuttosto nel brusìo che cresce intorno ad esso”: è Dick Hebdige, che ha
scritto La lambretta e il videoclip.
Please wait
music
Analogie di percorso, ma utilizzazioni contrapposte,
tra la Ambient (e la sua antenata musique
d’ameublement) e le pervasive sonorizzazioni dell’etere. Le musichette
d’attesa telefonica possono indurre, più che a placide considerazioni
estetiche, ad allontanamenti coatti dalla cornetta, per il fastidio di songs
imposte per gratificare l’assenza dell’interlocutore umano. E pensare che
proprio gli esperimenti di trasmissione via telefono hanno aperto più di una
strada allo sviluppo della musica elettronica! Nel ramo telefonico, di recente
alla ribalta di sentenze e leggi sul diritto d’autore, imperversano sui portali
Internet anche squilli personalizzati. Da sigle televisive di successo a spot
cult, dal beethoveniano destino che bussa alla porta al celeberrimo ultimo
grido di Paola e Chiara. Il suono del modem, infine, è pure entrato nell’immaginario collettivo, visto che fa da
sfondo ad infinite pubblicità sull’e-commerce, e-trading,
enciclopedie a fascicoli settimanali, gadget del quotidiano (che come in uno
specchio diventa inessenziale rispetto all’oggetto donato, il giornale che a
sua volta si fa ‘aggeggio’ del gadget).
Megastore
player
Quando si è scoperto che le famose mucche producevano
di più grazie ai suoni di sottofondo ed al libro di Baricco, nei supermercati e
negli store si è moltiplicata la
scelta di motivi induttivi. Il clima che si vuole riprodurre è quello dei clip
in cui adolescenti agghindati ballano e si avvinghiano nello stile dei ragazzi
della tale o talaltra consorteria. Le song in oggetto risultano assai
gradevoli, e la percezione estetica del megastore
è senz’altro enfatizzata dall’accoppiamento suono-colore. L’architettura,
ambienti larghi, la spazialità dello sguardo sui piani rialzati, il movimento
delle scale mobili e delle luci fanno il resto.
Bim Bum Bam Dumbo Song.
Musica per infanti disegnata per accompagnare i
consumi musicali dei più piccoli quando la loro attenzione è a mille: sulle
giostre. Ogni ‘postazione’, l’elefante Dumbo, la macchina dei pompieri, perfino
la piccola Volkswagen prevede un pulsante colorato che aziona la musica pensata
ad hoc. Essa orienta e facilita il consumo successivo di video, cartoons, album
di figurine, zaini e diari scolastici griffati.
La Pimpa, Alice ed il supermercato
Già da anni una catena cooperativa di supermercati ha
rivolto attenzione al mondo dei bambini. Trasformano i parcheggi in arene
cinematografiche, campi di calcio. Alcune sale diventano ludoteche infantili.
Laboratori per infanti, prove tecniche sul consumo di pargoli, per “consumare
senza essere consumati”. Anche per chi commercia, il consumatore “può educare
il consumo”, e non viceversa. Un consumo di cose necessarie, un consumo da
alternative solidali, ad esempio, o che rispetti la natura. Un consumo
consapevole, e quindi la consapevolezza che il consumo debba essere studiato, e
non escluso.
La catena di supermercati sta studiando da anni una
alfabetizzazione multimediale da introdurre nelle scuole: “si pensi alle
implicazioni che potrà avere l’alfabetizzazione multimediale nel campo dei
consumi, quando l’e-communication (dall’e-market all’e-information)
esploderà, in un tempo non più tanto remoto come sembrava solo qualche mese
fa”. Sono parole scritte l’anno scorso da Luca Toschi.
Home
computing
Tecniche di uso domestico del computer per inventarsi
dal nulla brani musicali ‘personalizzati’, ad uso e consumo quotidiano e per
arricchire le proprie pagine web.
Home
recording
Dal punto di vista delle nuove tecnologie, appare
importantissimo l’uso dei recenti registratori multitraccia, e la possibilità
ormai alla portata delle tasche di chiunque, di lavorare in audio digitale anche
a casa propria. L’aspetto che riguarda l’arricchimento della creatività, e
pertanto la cura e lo sviluppo delle immagini sonore, è stato reso
straordinariamente facile dallo sviluppo dello standard Midi, che consente da
anni di colmare lacune dell’immaginazione con strepitose sonorità di tutti i
tipi, alla faccia dei benpensanti e dei guru della musica elettronica. Tale
sviluppo e tale ‘massificazione’ hanno dato fastidio a quanti ritenevano di
detenere un potere-sapere nell’esercizio esclusivo delle tecnologie, e nella
trasmissione di questo sapere ad una ristretta cerchia di allievi.
Campioni di suoni
Sul CD-Rom venduto in edicola, un corso di “musica e
computer”, campeggia la seguente frase: “musica composta da semplici esempi di
sonorità, non riconducibile ad autori, tantomeno iscritti a SIAE”. Grande! Di
cosa si tratta? Sono campioni di suono, loop,
pattern, che possono liberamente
essere utilizati per ‘creare’ dal nulla le proprie musiche preferite, anche
senza saper suonare uno strumento o conoscere la musica. Certo, questa prassi
fa storcere il naso ai puristi ed ai più retrivi musicisti colti. Infatti,
anche gli ‘incolti’ possono fare una sorta di mosaico, giocando al riempimento,
mettendo alcune tracce in ripetizione (loop)
o utilizzando incisi, modelli ripetitivi, piccole frasi che fungono da tasselli
di base (pattern), e costruire
dapprincipio facili insiemi sonori. Poi però possono ‘effettare’ e ‘filtrare’
quello che hanno ottenuto, e stravolgere completamente il brano,
personalizzandolo con centomila e una possibilità combinatorie.
Si tratta certamente di un effetto della
massificazione, del consumo genericizzato verso fasce ‘basse’: ma è una prassi
che ha fatto dilagare la creatività, e che fa conoscere tecniche di
permutazione del suono anche ai non addetti ai lavori: un effetto secondario
non previsto dalle teorie della mercificazione. Se questo non è popolare,
sfugge cosa altro oggi possa esserlo con altrettanta efficacia.
“Il Mercato è il Messaggio”
E’ il titolo di un convegno che ha riunito a Roma gli
operatori del settore immobiliare italiano ed europeo. Trasforma il più noto
“il medium è il messaggio”, perché in effetti il mercato è una sorta di medium
privilegiato, in grado di enfatizzare i desideri, come già largamente
dimostrato a Francoforte, ma pure oggettivamente di anticiparli, interpretando
il flusso, il trend, e di appagarli
attraverso oggetti, che sono certo reificazioni del desiderio. Il gioco tra
contenente e contenuto che si scambiano potrebbe procedere all’infinito, come
usano fare i francesi: qui basta certificare che se il messaggio è “ciò che da
una parte va a finire all’altra”, il mercato, i consumi, la proprietà, attuano
strategie delle quali non ci siamo ancora impossessati, e che invece sarebbe
opportuno conoscere approfonditamente per trasformare gli oggetti d’uso in doni
unilaterali gratuiti. Cosa altro sarebbe un file Mp3 scaraventato in rete, a
quale categoria di leicità potremmo ricondurlo se non a questa?
Mouse-Musique
Ludovic Navarre-St. Germain, Moby, Dj Krush: sono
stati definiti “musicisti del mouse”, perché con tecniche differenti procedono
alla creazione di pezzi ibridi, fatti di frammenti ‘campionati’ (trasformando
suoni ripresi altrove in frammenti numerici utilizzabili nuovamente), o di
sequenze trasformate in modo originale. La decontestualizzazione fa sì che ci
si trovi di fronte ad opere nuove, di assonanza jazz (Ludovic Navarre), Lo-fi (Moby), più propriamente vicine
alla musica da discoteca, senza interruzioni del flusso ritmico (Dj Krush). Il
genere ha rifatto persino una delle Gymnopédies
di Erik Satie, e possiede cose mirabili, come la Intro a “Code4109” di Dj Krush, o Machete e Run on in
“MobyPlay”. Navarre, dal canto suo, nel suo disco per la Blue Note “Tourist”,
ammette opportunamente di aver usato alcuni “complices”, musicisti che suonano
davvero. La loro presenza è... accessoria.
Scratch
Lo scratch è una tecnica usata dai dj per alterare i suoni dei dischi nata nel Bronx agli inizi degli anni Settanta. Per John Walker «Lo scratch rappresenta chiaramente una forma di intervento del consumatore che trasforma e personalizza i prodotti del music business». Purtroppo però aggiunge: «Per chi lo pratica, lo scratch costituisce una maniera per controbilanciare la passività che caratterizza altrimenti la fruizione di beni di consumo».
Morphing
Con le tecniche del morphing si procede di alterazione in alterazione da suoni preesistenti, accostandoli liberamente. La ‘composizione’ sta in questa giustapposizione creativa (vogliamo chiamarlo sviluppo o variazione?), più che nella creazione di algoritmi che esprimano nuove sonorità. In ciò risiede la maggior possibilità di successo della nuova musica elettronica, che si differenzia dal mero sperimentalismo e dalla ricerca di suoni inediti che ha paralizzato la creatività dei compositori per decenni.
Consumi per soli adulti
L’opera può essere consumata senza per questo perdere qualità estetica. La faccenda, posta in relazione ai consumi giovanili, potrebbe creare qualche malinteso. Invece anche qui ci si trova né più né meno che di fronte al problema che riguarda tutte le tipologie di consumo. Ci si chiede se esista un consumo ‘adulto’, o se si possa parlare propriamente di “consumi per soli adulti”… Un consumo ‘adulto’ infatti prescinde evidentemente dall’età del consumatore, e coincide con quel consumo che riesce a mantenersi il più possibile consapevole, ad indirizzarsi verso questo o quel prodotto musicale assecondando la tasca del fruitore, la propensione e la volontà di ascolto - orientamento, differenziazione tra prodotti ed esigenze del momento, tra motivi di studio o di svago, intrattenimento o ascolti ‘d’arredamento’. Questa consapevolezza nella capacità di scegliere non ha nulla a che vedere con l’età del consumatore perché la capacità d’individuazione, la selettività, e soprattutto la lucidità non sono certo variabili dell’età, anzi.
Ultime Resistenze?
La resistenza si esprime anche attraverso l’appropriazione e la trasformazione
di beni di consumo: “La nuova economia - un’economia di consumo, di significanti,
di sostituibilità e avvicendamenti infiniti, di flussi e manovre - a sua volta
produce un nuovo linguaggio del dissenso. I termini che erano stati definiti in
negativo dalle èlite culturali dominanti furono rovesciati e adattati a dare
significati oppositivi in quanto assunti (nel modo suggerito da Marcuse) dai
difensori (esponenti della controcultura) del cambiamento e convertiti in
valori positivi (edonismo, piacere, futilità, disponibilità e così via)” (D.
Hebdige).
[1] Cfr. B. R. TUCKER, Copia pure, Viterbo 2000, Stampa alternativa.
[2]G. DE SIMONE, “Come da copione”, piccola storia del plagio, in “il manifesto/Alias” del 25 marzo 2000.
[3] G. DE SIMONE, “Le ali di pietra. Il potere, i soggetti, le tecnologie del senso”, in “Konsequenz”, prima serie, numero 2/97, Napoli 1997, Edizioni Scientifiche Italiane.
[4] G. DE SIMONE, “L’alchimia del suono. L’antiestetica”, manifesto della nuova avanguardia partenopea apparso sul quotidiano “Napolinotte” del 3 marzo 1984. Tra l’altro vi si legge: «Non v’è discriminatorietà, in termini di giudizio di valore assoluto, tra le diverse produzioni di un’espressione artistica». Altre tesi sono nel volume G. DE SIMONE, Le parole sospese o del silenzio in arte, Napoli 1988, Edizioni Scientifiche Italiane. Molti aspetti di queste nuove consapevolezze estetiche sono stati divulgati in numerosi articoli e recensioni apparsi sul quotidiano “il manifesto” e sulla rivista specializzata “CD Classica”.
[5] Sulla corretta distinzione tra opzioni della world music, cfr. G. DE SIMONE, “Speciale world music”, in “CD Classica”, n. 78, anno 9, Firenze, Febbraio 1995, pp. 32-38.
[6] Cfr. G. DE SIMONE, “Come da copione”, cit., p. 11.
[7] Cfr. G. DE SIMONE, “Macchine da primati”, speciale dedicato alla musica elettronica apparso su “il manifesto/Alias” del 6 maggio 2000.
[8] Cfr. G. DE SIMONE, “Come da copione”, cit, p. 13.
[9] Cfr. G. DE SIMONE, “Come da copione”, cit, p. 11.
[10]
Cfr. D. DE GAETANO, postfazione a J.A. WALKER, L’immagine pop, trad. it., Torino 1994, EDT, p. 170: «(...) ogni
aspetto della cultura e della sotto-cultura occidentale o extraeuropea può
essere saccheggiato» (titolo e data dell’op. originale: Cross-overs. Art Into Pop/Pop Into Art, London 1987).
[11] Lo scratch è una tecnica usata dai dj per alterare i suoni dei dischin nata nel Bronx agli inizi degli anni Settanta. Per J. A. WALKER, L’immagine pop, cit., p. 155: «Lo scratch rappresenta chiaramente una forma di intervento del consumatore che trasforma e personalizza i prodotti del music business». Purtroppo Walker aggiunge: «Per chi lo pratica, lo scratch costituisce una maniera per controbilanciare la passività che caratterizza altrimenti la fruizione di beni di consumo» (oluc).
[12] Con le tecniche del morphing si procede di alterazione in alterazione di suoni preesistenti, accostandoli liberamente. La ‘composizione’ sta in questa giustapposizione creativa (vogliamo chiamarlo sviluppo o variazione?), più che nella creazione di algoritmi che esprimano nuove sonorità. In ciò risiede la maggior possibilità di successo della nuova musica elettronica, che si differenzia dal mero sperimentalismo e dalla ricerca di suoni inediti che ha paralizzato la creatività dei compositori per decenni.
[13] A Napoli e dintorni se ne contano almeno otto. Uno di essi ha prodotto nell’ambito di un progetto plurifondo europeo il Cd-Rom Caro Iqbal (EU 20001).
[14] F. JAMESON, Tardo marxismo, Roma 1990, Manifestolibri, p. 156.
[15] Ouc, p. 160.
[16] Op. cit, p. 161.
[17] R. MIDDLETON, Studiare la popular music, trad; it. Milano1994, Feltrinelli, p. 21 (edizione e data dell’originale: Studying popular music, 1990) .
[18] Ouc, p. 64.
[19] Cfr. G. DE SIMONE, Manuale del mancato virtuoso. Lasciate i pianisti nelle gabbie, Napoli 1983, Edizioni Scientifiche Italiane.
[20] J.A. WALKER, L’immagine pop, cit., p. 23.
[21] In ouc, Walker cita da S. FRITH e H. HORNE, Welcome to Bohemia! , Coventry 1984, University of Warwick, Departement of Sociology. Cfr. anche il volume: S. FRITH, Il rock è finito. Miti giovanili e seduzioni commerciali nella musica pop, trad. it., Torino 1990, EDT (titolo e data dell’edizione originale: Music for pleasure, 1988)
[22]
D. HEBDIGE, La lambretta e il videoclip.
Cose & consumi dell’immaginario contemporaneo, Torino 1991, EDT (titolo
e data dell’opera originale: Hiding in
the light. On images and things, Londra 1988).
[23] D. HEBDIGE, ouc, p. 72.
[24] L’autore ha tenuto una rubrica per l’inserto culturale del quotidiano “il manifesto” fino al 2003.
[25] Tra i dischi che considero come punti di riferimento obbligato per inquadrare la border music italiana ritengo indispensabili, di Ludovico Einaudi : “Salgari” (Ricordi) che avvicina e forse anticipa il Glass operistico, “Stanze” (Ricordi) un indiscutibile capolavoro con l’esecuzione della Chailly, “Eden Roc” (BMG). Di Cecilia Chailly: “Anima” (Eastwest). Di Eugenio Fels: “Alkèmia” (Konsequenz). Il mio “Ice-tract” (Konsequenz 1998 - ristampato da Curci, Milano 2000). Di Arturo Stalteri: “André sulla luna” (MP Records) e “Flowers” (Materiali Sonori). Su tutti, e prima di tutti noi, lo straordinario ed anticipatore “Dialoghi del presente” di Luciano Cilio, ora reperibile in CILIO-DE SIMONE, “Dell’Universo assente” (Milano 2004, Die Schachtel).