Girolamo De Simone

STORIA ESTETICA DEL PLAGIO MUSICALE

 

 

Introduzione

 

La ‘contaminazione’, naturalmente, è sempre esistita. È  scritto in alcune storie della musica, ed è deducibile anche usando semplicemente la logica, in relazione alle modalità stesse della composizione musicale, la quale da un tema o una cellula sonora di qualsiasi tipo (tratta anche da altri autori) fa scaturire un intero brano. Da quando tuttavia l’ ‘imbastardimento’ della produzione musicale è diventato un fatto compiuto, e tutti i media parlano di contaminazione, si sono creati due partiti. Da un lato quelli che la propugnano ad ogni pie’ sospinto anche quando non di ‘contaminazione’ si può parlare, ma di semplice accostamento confusionale di stili; dall’altro quanti si atteggiano ad algidi difensori della purezza e denigrano un corso musicale che a loro dispetto percorre trasversalmente tutti i generi. Per questi ultimi, la contaminazione è esistita da sempre, quindi non ci sarebbe da gridare al miracolo oggi; si tratterebbe di un fenomeno alla moda, da minimizzare, usato dall’industria culturale a meri fini commerciali e quindi da portare ad esaurimento dopo averlo spolpato per bene. Lo confondono con il lavoro di quei musicisti colti (come ad esempio Bartòk) che in passato hanno rivalutato le tradizioni folcloriche dei loro paesi. Non distinguono, quindi, tra popular e popolare, e sfiorano anzi il populismo.

Date queste premesse potrà allora risultare utile rintracciare il tema conduttore del fenomeno del plagio all’interno della storia della musica, dimostrando che, effettivamente, la deriva della contaminazione si è affacciata con forza nel corso dei secoli e nel lavoro di musicisti anche importanti. Ma contestualmente ribadendo l’idea che oggi sta accadendo qualcosa di nuovo e di profondamente diverso. Qualcosa che marcia al passo con la globalizzazione dell’economia e che può essere usato bene o male, così come era già avvenuto quando ci si accorse della ‘riproducibilità’ tecnologica delle opere d’arte (Benjamin).  Queste nuove modalità di produzione di opere possono essere rivolte al mero discorso economico (e quindi da stigmatizzare, come ci insegna Ignacio Ramonet) o tendere a qualcosa di più, al melting-pot, alla proliferazione di linguaggi capaci di arricchire tutti attraverso la differenza di ciascuno: l’altra faccia della musica globale.

Il plagio e le estetiche nuove che ne derivano non sono altro che uno strumento di contaminazione, uno strumento ricco di implicazioni giuridiche, politiche e filosofiche. Il plagio artistico consiste nella veicolazione gratuita di idee e atmosfere musicali: non si tratta della mera copia, naturalmente. La diffusione di uno ‘stile’, infatti, non ha nulla a che vedere con una copia, e pertanto evita di pagare qualsiasi pedaggio. Dal punto di vista filosofico, attraverso la gratuità dell’offerta, il plagio artistico consente di sfuggire alla logica dello scambio, con la prassi del dono unilaterale gratuito. Io do una cosa a te, e basta: tu nemmeno sai chi sia a dartela, si tratta di un contributo alla storia del progresso comunitario.

Questa visione, che a tutta prima appare utopistica, oggi diventa pratica comune. Le idee circolano da sole, senza pregiudizio d’autore. Esse vengono sentite come proprie da ciascuno, ed anzi il fenomeno sembra ormai innescare un problema opposto, quello della conservazione della memoria storica. Vale a dire, almeno, della conservazione del nome di quanti abbiano introdotto innovazioni o nuove idee, esattamente come accade nel campo informatico per i software open source.

 

 

Profili storici

 

Origini del fenomeno

Già l’uso di modi ispirati a quelli greci è in qualche modo da considerarsi una sorta di grosso plagio stilistico. In realtà, mentre comunemente (ed erroneamente) si ritiene che la civiltà musicale abbia seguito un percorso lineare, genericamente ‘progressista’, e cioè di maggior complessità delle forme o di evoluzione gerarchica delle stesse (cioè dall’elementare allo strutturato, dal facile al difficile, e così via), proprio l’uso medioevale della modalità smentisce clamorosamente questo assunto. Nella Grecia antica, infatti, i modi potevano assumere forme anche assai più complesse: per esempio oltre ad essere diatonici (antenati delle nostre scale moderne), potevano diventare cromatici e addirittura enarmonici, utilizzando quindi rapporti tra suoni che noi occidentali abbiamo completamente dimenticato (eccettuato naturalmente i lavori microtonali contemporanei di qualche interesse, quelli di Harry Partch, Lou Harrison, Lamonte Young, John Cage...).

Prima dell’epurazione fatta da San Gregorio Magno, che ‘ripulisce’ i canti da più antiche e suadenti effusività orientali, il canto liturgico medioevale conosceva una estrema libertà geografica: da quello monodico basato su otto modi di derivazione bizantina, a quello ‘occidentale’, che presentava differenti tipologie, tra le quali anche quella mozarabica. In tempi di barricate come quelli presenti non farebbe male ricordare il contributo offerto dalla cultura araba alla musica occidentale.

Durante il Rinascimento, mentre in Germania Lutero rinnovava le fonti dei canti liturgici ed in Francia Calvino proibiva di usare la musica se non nelle sue espressioni più sobrie (vale a dire con melodie cantate all’unisono), in Spagna accadeva qualcosa di molto interessante. Si creava una sorta di melting-pot, di crogiolo capace di raccogliere elementi franco-fiamminghi ed italiani, e fin qui nulla di strano, perché i fiamminghi avevano rivoluzionato le forme vocali (anche con ardite composizioni: il Deo Gratias di Okeghem arriva fino a 36 voci!) e l’Italia aveva perfezionato l’arte strumentale.  Ma il bello era che in Spagna questi elementi si fondevano con stilemi gotici, celti, baschi, arabi e berberi. Bernard Champigneulle, nella sua piccola e provocatoria Storia della musica spiega la commistione con  gli arabi: istallati in Andalusia fino all’inizio del Rinascimento, essi avevano segnato nel profondo la civiltà spagnola. La straordinaria presenza di elementi tanto variegati fanno della cultura spagnola rinascimentale un meraviglioso precedente di commistioni e... plagi d’inestimabile valore artistico.

In Spagna pomposi oratori sostituiscono i villancicos d’ispirazione etnica locale. In Germania, Inghilterra, Fiandre ci si ispira alla scuola di Versailles, ma rifacendola alla maniera italiana: sono quelli che Couperin chiama i ‘gusti fusi’. Keiser ad Amburgo fa seguire in una stessa opera testi in francese, italiano e tedesco, a seconda dell’atmosfera della musica o della forma prescelta.

Il grande Georg Friederich Händel compone ispirandosi alle forme napoletane, ma ha la tecnica degli organisti tedeschi ed uno spirito tipicamente... inglese, specie nei brani di circostanza che lo fanno affermare in Inghilterra. Händel dichiarava tranquillamente di prendere spunto da temi di Stradella e Keiser. Ma gli addebitano prestiti da...  ventinove compositori! Nel solo Israele in Egitto compaiono ben diciassette ‘citazioni’.

Il grande codificatore delle prassi del sistema temperato (che solo apparentemente è un passo avanti nella storia della musica, contrariamente a quel che ritenne Schönberg), Johann Sebastian Bach, trascrive concerti barocchi di Marcello, Vivaldi, Johann Ernst; scrive corali su temi luterani, riscrive se stesso adattando numerosi brani a differenti strumenti. Ispirato dalla celebre Piango, gemo, sospiro e peno, di Vivaldi, Bach ne trae un Andante per il Concerto in si minore BWV 979 (trascritto da autore ‘sconosciuto’), e vi si ispirerà nel fugato del Preludio Fantasia BWV 922, quello poi trascritto dal pianista Egon Petri per la Busoni-Ausgabe. E così via: dai tre concerti per organo da Vivaldi (BWV 593,594,596) alla fuga per organo tratta da Legrenzi (BWV 574), Bach dimostra ben più che una passeggera infatuazione per la musica veneziana. Quest’ultima viene fagocitata, trascritta, completamente cambiata, oppure usata come modello sotterraneo. L’organista e musicologo Albert Schweitzer, in una biografia, rileva la presenza e l’importanza delle melodie luterane in tutta la produzione corale ed organistica bachiana (molte melodie usate da Lutero e Johann Walther erano poi a loro volta di origini medioevali). Evidentemente, non si trovava scandaloso servirsi di temi celebri, come se si trattasse di ‘citazioni’ implicite, di materiali sonori già assimilati, da riutilizzare proprio come fa l’artigiano quando assembla strutture eterogenee. Non a caso in alcune trascrizioni i nomi degli autori originali non vengono citati (o forse non giungono fino a noi...) come ad esempio nel già menzionato Concerto in si minore BWV 979, o come in alcune pagine del Clavier-Büchlein. Certo è che il codificatore del sistema musicale occidentale non si è sottratto al fascino del plagio artistico, così come altri grandi musicisti a lui contemporanei.

Il grande Mozart, amato dagli dei e filmicamente odiato da Salieri per il suo genio, si divertì a copiare temi di altri compositori. Nella Ouverture del Flauto magico vi sono temi di Cimarosa e di Clementi, considerato il “padre della musica pianistica”. Mozart, come ricorda Luciano Chailly, «ebbe molte accuse di plagio per ‘prestiti’ da Gluck, Haydn, Paisiello, J. Christian Bach, Sarti, ed altri». Giovanni Carlo Ballola scrisse che «se Mozart fosse vissuto ai nostri tempi, avrebbe dovuto passare molto tempo, per i suoi plagi, in un’aula di Pretura». Chailly riferisce che Clementi, ristampando una Sonata, dovette segnalarvi in calce con comprensibile stato d’animo il celebre «plagio di Mozart».

 

L’Ottocento

Nell’Ottocento, con l’imperversare di trascrizioni, parafrasi, adattamenti e facilitazioni per fanciulle, la pratica della citazione dilaga e si esplicita. Nasce contestualmente l’idea di ‘repertorio’ e si consolida quella di ‘autore’. Così, Wagner si sente in dovere di avvertire Liszt di aver ‘preso in prestito’ un tema che compare nella Walkiria, riconoscendo all’altro un diritto di proprietà su qualcosa di immateriale. Questo momento, benché fosse stato anticipato dalla denuncia di Clementi del plagio subito da Mozart, è di fondamentale importanza: il ‘pregiudizio d’autore’ (v. oltre) e cioè la sensazione di sentirsi legittimi proprietari dell’opera creativa, era ormai assimilato, e sarebbe stato rimesso in discussione solo nel Novecento, da Igor Stravinskij. Fino a quel momento, l’opera era considerata come un oggetto artigianale, e gli stessi artisti venivano trattati come artigiani. Non a caso Beethoven fu tra i primi ad avere la consapevolezza del valore economico delle sue composizioni, pur non restando a sua volta immune da ricadute nel plagio. E’ possibile, come caso limite, ricostruire il tema della famosa Pastorale  assemblando alcuni incisi mozartiani (Sonate K 332 e 135; Fuga della Fantasia K 394). Ma la sintesi di quel tema, come segnala Tito Aprea in un suo celebre libro sul plagio, compare addirittura in Bach, nella Cantata  “Dio tu guardi la Fede”, e si tratta di un caso limite, che può illustrare quanto fosse profonda nei musicisti l’introiezione del lavoro e delle opere dei loro predecessori e contemporanei. La nozione di ‘proprietà’ sull’opera e del rischio che altri possa in malafede appropriarsi di idee musicali considerate ‘originali’ e quindi ‘proprie’, è talmente già consolidato in Beethoven da fargli confessare ad Eleonora Breuning «...non avrei scritto in questo modo una cosa simile, ma ho notato che, quando improvvisavo la sera, c’era sempre qualcuno a Vienna che il giorno seguente trascriveva molte mie trovate e se ne faceva bello. Siccome ho previsto che presto saranno pubblicate cose simili mi sono deciso di prevenirle» (citato da Tito Aprea). Assieme alla nascita del concetto d’autore, si moltiplicano i casi di plagio. Donizetti viene accusato di plagio stilistico da alcuni critici, ed altri così lo difendono: [...] vogliamo spendere poche parole sul conto di taluni critici di professione che in qualsivoglia classico lavoro trovano sempre a ridire. Vi è chi sostiene incontrarsi nelle musiche di Donizetti talune cantilene che ad altre somigliano. Senza dir di tante sue teatrali produzioni, questi Zoili invidiosi potran sentire la Lucia, nella quale son tanti nuovi pensieri che lungo sarebbe ad enumerarli: e se vi à qualche cosa che a loro modo di vedere senta di reminiscenza, ciò nasce dal perché essi confondono ciò che può dirsi plagio musicale con lo stile del compositore. Ogni maestro di musica à il suo stile come ànno la lor maniera di dipingere i pittori («I curiosi», Napoli 15 ottobre 1835, citato in Le prime rappresentazioni delle opere di Donizetti nella stampa coeva, a cura di Annalisa Bini e Jeremy Commons 1652 pp., Skira, 1997).

Molteplici i plagi artistici: Wagner attinge da Schubert, Mendelssohn, Beethoven, Brahms, e perfino da una messa gregoriana. Brahms a sua volta prende da Beethoven, Verdi, Dittersdorf. Lo stesso  Liszt, avvertito da Wagner del già citato plagio del tema della Walkiria, gli risponde con filosofia: “Hai fatto bene: così avrà almeno la possibilità di essere ascoltato da qualcuno...”.

 

Il Novecento

Puccini ‘prende’ da Rachmaninov (un tema di Turandot del 1926, tratto dall’Elegia del 1892...), Rachmaninov da Chopin. Puccini a sua volta, nella Tosca, si ispira al celebre Capriccio sulla partenza del fratello dilettissimo di Bach ed alle Images di Debussy. Ma in cambio cede qualcosa dal Tabarro alle Fontane di Roma di Ottorino Respighi. Anche  Cilea prende da Debussy, e Debussy da Schumann, Prokofiev acquisisce un tema dal Trovatore di Verdi, e così via, in un gioco intrecciato di citazioni espresse, occulte, inconsce o consapevoli e colpevoli... fino a Berg, che nel Wozzeck non potendo plagiare un tema perché usa il sistema dodecafonico copia... un ritmo: precisamente quello della Pastorale di Beethoven. Tantissimi i casi di plagio o similitudine nella storia dell’Opera lirica,talora con riguardo ai libretti. Il musicologo Antonio Cassi Ramelli ne cita molteplici casi in un suo importante lavoro del 1973: «i cosiddetti plagi (...) sono in verità ancora meno percepibili in campo musicale e perseguibili di quelli letterari. Che Verdi abbia ripreso l’avvio della romanza del baritono pel Ballo in maschera, Boito quello del tenore del suo Mefistofele, Giordano quello della “donna russa che è femmina due volte”, molti si confidano ancor oggi strizzando astutamente l’occhio destro e scuotendo il capo, mentre molti arricciano il capo, non si sa perché, quando risentono gli squilli dell’inno americano nella Butterfly o la nenia dei battellieri del Volga ripresa in Siberia. Osiamo almeno sperare (...) che nessuno ricordi che lo spunto dell’intermezzo dell’Amico Fritz proviene da un notturno del Martucci e che nella Moldava di Smetana riappare la nostra collaudatissima Fenesta ca lucive.».

Più ci avviciniamo alla contemporaneità, più gli autori presentano elementi che confluiscono nella attuale modalità del plagio artistico. Nel Novecento, quelli che maggiormente hanno contribuito a dar corso a questa acquisizione sono stati Erik Satie, che prende in giro le Sonatine di Clementi con piglio ironico e spregiudicata abilità permutatoria, ed Igor Stravinskij, che fa della citazione la sua principale arma, a dispetto di Adorno che lo considerò inautentico con scarna preveggenza. Stravinskij era grado di sorprendere sistematicamente pubblico e critica con inaspettati prestiti stilistici, sia in direzione dei suoi contemporanei che verso il periodo classico ed il Settecento. In Pulcinella, ad esempio, si ispira a Pergolesi, ne ricrea le atmosfere a modo suo, e lo dichiara esplicitamente, affermando contestualmente la legittimità dell’operazione. In Colloqui con S. confessa: «Pulcinella fu la mia scoperta del passato, l’epifania attraverso la quale tutto il mio lavoro ulteriore divenne possibile. Fu uno sguardo all’indietro naturalmente, - la prima di molte avventure amorose in quella direzione - ma fu anche uno sguardo allo specchio. A quell’epoca nessun critico lo capì, e io fui attaccato di conseguenza per essere un pasticheur (...). Per tutta quella gente la mia risposta fu ed è ancora la stessa: Voi ‘rispettate’, io amo». Anche Massimo Mila riferisce di questa caratteristica.  Tanto che chiude il suo Compagno Strawinsky con la seguente riflessione: «anche la sorprendente piroetta finale, con la graduale conversione o piuttosto convergenza di S. verso il metodo di composizione dodecafonica, non è il recupero d’un contatto smarrito con l’avanguardia ma si inscrive sotto lo stesso segno di parodia creatrice che è il contrassegno del costume contemporaneo».  Mila attribuisce a S. una vera e propria «tecnica dell’appropriazione» verso «ogni fenomeno di natura musicale».  E lo stesso Stravinskij noterà, in Poetica della musica,  che «una vera tradizione non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa di sé il presente. In tal senso è vero il paradosso che tutto ciò che non è tradizione è plagio...».

 

La musica concreta

Pietro Grossi raccontava che negli anni Sessanta molti compositori sperimentavano tecniche analogiche di ‘collage’ sonoro e di ‘montaggio’ di materiali provenienti da fonti estremamente eterogenee. Quasi tutta la musica concreta fu costruita in questo modo; inventata da Pierre Schaeffer che firmò, assieme a Pierre Henry, diverse opere di musica concreta fin dagli anni Cinquanta, la definizione ‘musica concreta’ risale però all’anno precedente, forse addirittura al 1948. Grossi fu tra i primi italiani ad utilizzarne le tecniche con piena consapevolezza estetica - cioè immaginandone bene le conseguenze e(ste)tiche - (tecniche che anticipano quelle dei Dj odierni), ad insegnarle come caposcuola, mettendo il suo studio a disposizione dell’Istituzione statale. Tra gli altri italiani, anche il compositore Vittorio Gelmetti lavorò al suo studio negli anni Sessanta utilizzando tecniche simili, realizzando per la Rai (DSE) un ciclo di trasmissioni chiamato “Tutto è musica” e scrivendo diverse colonne sonore utilizzando la tecnica del ‘montaggio’. Altri antesignani furono Varèse, Gerhard, Davies, e quasi tutti gli autori di musica concreta.

Oltre a molteplici innovazioni e primati (l’uso del calcolo algoritmico nella musica elettronica), Pietro Grossi  dette notevole impulso, forte delle sue prassi, ad una visione etico-politica della produzione musicale partendo dall’acquisizione che la musica non fosse né dovesse essere ricollegata ad un concetto stringente di ‘proprietà’: realizzò un pezzo e lo intitolò Collage per dichiararne esplicitamente la ‘fabbricazione’ attraverso tecniche di assemblaggio, e cioè fondendo e sovrapponendo, alla fine radicalmente alterando, molti lavori di altri compositori elettronici. Ripeteva il motto “Tutto per tutti infaticato...”, di Renato Famea, ritenendo che fosse ridicolo nell’epoca della tecnologia, o, se si vuole, nell’epoca della riproducibilità tecnologica, perdere tempo con faticose operazioni ripetitive. Diceva che «non si può paragonare il modo di vivere prima della scoperta dell’energia a vapore con quello successivo: non si possono fare paragoni, però ha vinto lo strumento a vapore. Vince perché è più potente, non perché più bello o migliore. Vince la potenza. E se l’uomo si accorge che può ottenere tutto subito senza fare fatica si domanda per quale ragione non debba seguire la strada più comoda»: una osservazione politica, dedicare energia ad un impiego esclusivamente creativo, senza perder tempo con questioni meccaniche.

Le prassi compositive di Grossi, la sua produzione artistica (la cosiddetta “home-art”), gli statement estetici, sempre mutevoli e divulgati in copie uniche, naturalmente celano una più alta idealità presente nel suo lavoro, e legata al filo rosso Kant-Weininger, di rispetto per l’uomo, distinzione tra il dominio sugli oggetti da un lato e l’invadenza della proprietà dall’altro. Celano ancora il desiderio dell’anonimato a favore del lavoro di gruppo svolto nello studio elettronico, e la necessità di ridimensionare la funzione della proprietà privata sull’opera artistica e intellettuale, perché non c’è possesso sulle buone idee. Grossi risulta, così, uno di quei rari musicisti in grado di leggere trasversalmente le pratiche del fare motivandole con profonde certezze teoriche, etiche, estetiche. Un personaggio non ancora sufficientemente noto, ma che fu in grado di opporre una concreta resistenza politica, anche se emersa in modo saltuario e frammentato, attraverso le sue conoscenze tecnologiche. Si deve a pionieri come Grossi se l’uso del mezzo elettronico si è via via ‘addomesticato’, se oggi ci pare normale che il ‘computer’ possa avere molteplici usi ‘domestici’, e possa essere uno strumento che ci fa ‘risparmiare tempo’ quando nel comporre si improvvisa su tastiere collegate via Midi al calcolatore, che scrive scrupolosamente traccia su traccia, facendoci riascoltare il tutto con la freschezza di suoni campionati (rendering audio). Grandi pionieri quelli come lui, Teresa Rampazzi ed Enore Zaffiri, che hanno introdotto nelle scuole di musica queste tecniche, i primi sintetizzatori, i primi calcolatori. Non è un caso che sarebbe stato poi il mondo della musica ‘pop’ a massificarne l’uso.

 

Dalla Hausmusik alla Mouse musique

La ‘House music’ (che poi è un filone che affonda la sua ratio nella romantica Hausmusik o musica domestica) ha avuto larga diffusione negli anni Ottanta. Costruita con tecniche di campionamento restò prevalentemente musica da ballo o da discoteca (Michel Chion). Precedette, quindi, la cosiddetta ‘Mouse musique’, riferita principalmente al fenomeno commerciale dei St. Germain, che rappresenta una evoluzione del concetto di campionamento, perché viene creata attraverso colpi di mouse ed appositi software di gestione congiunta di file wave e Midi.

Anche per i campionamenti si pone il problema del plagio: quando i suoni o i break ritmici restano riconoscibili essi necessiterebbero di una liberatoria dell’autore. Per questo, in tempi recenti, si è pensato di risolvere il problema commissionando  sound-pool liberi da copyright, royalty-free. Oggi in qualsiasi messaggeria attrezzata si trovano cd-rom con campioni già pronti, intere librerie di suoni o di groove di batteria pronti ad essere messi in loop per essere utilizzati in molteplici applicazioni domestiche.

Quando la tecnica si diffuse negli anni Ottanta grazie al proliferare sul mercato di campionatori molto economici, essa si impose in ambito hip hop, estendendosi in breve anche ad altri generi musicali, dalla break music (dove per ‘break’ si intende ‘blocco ritmico’), al  funk. Tra jazz e funk si è mosso il pianista Wayne Horvitz, che ha lavorato sia con Zorn che con Marclay. Per Horvitz si parla più che di una ‘scomposizione’ di brani, di ‘ricomposizione’ di suoni eterogenei. Ha fondato il gruppo dei President. Marclay è più vicino al mondo dei Dj, i quali sempre con più creatività utilizzano e mixano utilizzando appositi programmi o mixer digitali che consentono lo scratch anche con i moderni compact disc. Ricadute della tecnica del campionamento avvengono oggi in molteplici generi, fino alla jungle.

La pervasività di queste tecniche nelle musiche di consumo è oggi un dato innegabile, dimostrato dalla presenza di musicisti ‘campionatori’ in quasi tutti i generi musicali, da Tom Jenkinson (drill’n’bass), Nigel Casey (house), Michael Reinboth (jazz), a Marco Passarani (tecno), Johnny Halk (braindance), fino ad arrivare a Moby (di provenienza tecno, usa però stilemi blues, ambient, un vero melting pot) ed a Ludovic Navarre alias St. Germain (lounge jazz, sorta di jazz da camera). Un altro esempio è dato dai romani Gabin, diventati celebri per aver ricreato in modo geniale  Doo Uap, Doo Uap, Doo Uap, da un originale di Ellington, e per questo considerati come i St. Germain italiani.

 

Contemporaneità

Non si può dar conto facilmente di quello che accade oggi, se non compilando un ponderoso elenco telefonico. Molti autori usano la citazione volontaria, o portano agli estremi l’espediente della trascrizione, reinventando o sporcando intenzionalmente con interventi estranei i brani del passato. In mente vengono subito le modalità compositive di Zorn, che accosta frammenti in un velocissimo gioco di rinvio concettuale, le operazioni di Garbarek, le allusioni dei neoromantici, le rivisitazioni dei brani di Hildegard Von Bingen.

Una vera svolta è rappresentata proprio da John Zorn, che scrive colonne sonore per cartoni animati (repentini cambiamenti tra rumori e musichette pensate ad hoc), ad esempio con Roadrunner, e lavora con il già citato Dj Christian Marclay, il quale utilizza il missaggio tra brani differenti in modo libero, e lo contamina con suoni e rumori estranei. Le due cose fanno nascere in Zorn l’idea di inanellare citazioni velocissime (Zorn le chiama “sketch”, v. il paragrafo sulle tecniche), in cui i frammenti originari sono quasi irriconoscibili, e dei quali non viene più dichiarata la paternità originaria. Tra un pattern e l’altro, il sassofonista propone ‘insert’ strumentali tecnicamente all’avanguardia. Il risultato è un universo polimorfo, una evoluzione delle intuizioni usate da John Cage in quei brani per radio e performer o per radio e televisione considerati scandalosi al loro apparire (si ricordi che all’elemento della casualità rispondeva l’utilizzazione di frammenti musicali trattati in modo oggettivo, benché prodotti da una semplice radio a modulazione di frequenza). Il filo rosso che è forse possibile tracciare parte da Satie (per le componenti dell’ironia e della musica d’ambiente) e Stravinskij (per la consapevolezza estetica del rifacimento stilistico), attraversa John Cage (indeterminatezza non solo dell’esecuzione ma anche dei materiali prodotti dalla fonte: alea controllata per l’esecutore, vera e propria indeterminatezza per le fonti) ed i tanti sperimentatori elettronici; arriva a John Zorn, ed ai musicisti che utilizzano campionamenti. Ognuno di questi passaggi è stato a suo modo rivoluzionario, e tuttavia in grado di conciliare l’innovazione e la creatività con la memoria e la conoscenza di quanto già avvenuto in sistemi contigui o (geograficamente) lontani, sempre nel presupposto della ‘contaminazione’. Sarà appena il caso di ricordare ancora una volta che questa nozione, oggi abusata, è stata fortemente osteggiata e combattuta dai sostenitori della novità dell’arte, della purezza, della ‘grandezza’ della musica colta o occidentale. Non bisognava essere visionari o veggenti per scorgere all’orizzonte quello che sarebbe accaduto nel mondo della cultura e della letteratura, e che oggi si stringe come un cappio attorno all’anelito della globalizzazione culturale. Il cappio è quello che separa artificialmente le culture, le religioni, erigendo nuovi muri e steccati attorno all’idea di un occidente pieno di progresso al quale si opporrebbe una cultura araba, islamica, da mettere alla gogna. Due concezioni opposte, dalle quali discendono alternativamente tolleranza oppure autoritarismo.

E invece la ‘contaminazione’ sopravvive, nella vecchia come nella recente musica concreta, che utilizza frammenti spuri provenienti da ogni dove (ad esempio lo fanno Andrea De Luca e Lorenzo Brusci); è ancora rintracciabile nelle molteplici utilizzazioni di musiche colte da parte di compositori jazz o anche semplicemente ad opera di jingle-makers (si pensi a Rava che si rivolge a Puccini, ed alle tante rivisitazioni di musica da spot); è individuabile in un corposo campionario di musiche di provenienza leggera da parte di interpreti classici, da Cardini che rilegge Bindi a Bayless che in “Bach meets the Beatles” rifà celebri brani del gruppo anglossassone, o Peter Breiner che ne riscrive le composizioni nello ..... stile del concerto grosso di Bach, Händel e Vivaldi! Ancora contaminazione e gran calderone citazionistico è quello del bravo Daniele Sepe (che talora eccede in enfasi bandistica quanto eccelle in impegno politico), e del gruppo Le Loup Garou, che fonde con grinta stilemi provenienti da disparati angoli del globo. E per ascoltare gli esiti migliori di musicisti collocati in ogni punto della geografia polimorfa disegnata dalle musiche contemporanee (senza esclusione del rock), si ascolti “Caged/Uncaged” della storica etichetta Cramps Records: Arto Lindsay, John Cale, David Byrne, Lou Reed, Elliott Sharp, David Weinstein & Shelly Hirsc (firmano insieme una bella divagazione sul capolavoro Cheap Imitation di Cage), Amy Denio e naturalmente John Zorn ed Eugene Chadbourne. Ancora è infinita la world music che mescola, contamina, plagia. Una quantità di autori e brani solo indicativa di quanto accade nella contemporaneità, a significare la molteplicità di assimilazione e attecchimento di tecniche, prassi, concetti mutuati dall’estetica del plagio. In tempi recenti, poi, le musiche ‘di frontiera’ (la cosiddetta Border music) hanno assimilato nel profondo le modalità compositive usate in stili e generi differenti, appropriandosene in modo originale, e facendone altro, qualcosa in grado di ri/suonare in modo indeterminato, nuovo, globale.

 

 

Tecniche

 

Alla contemporaneità della contaminazione, più o meno inconsapevolmente, appartengono, come si è detto,  le brevissime citazioni degli spot, i rifacimenti, i plagi musicali della musica leggera, i brani sottratti al diritto d’autore e modificati per essere immessi in rete (tagli nella frequenza di campionamento, e tagli operati dall’algoritmo usato dal formato Mp3 e dalle sue evoluzioni), ma anche brani e frammenti liberi da copyright (chiamati via via loops osoundpool) immessi sul mercato dalle ditte che vendono software utilizzabili per creare pagine Web, video promozionali, o musiche di consumo (vedere i cataloghi di campioni diffusi da Sonic Foundry per il noto software “Acid”; da Magix, che dispongono anche di immagini ‘free’ utili per costruirsi video con tasselli ‘prefabbricati’, etc. etc.). Molteplici tecniche sono state inventate, perfezionate, messe a disposizione di tutti, in un primo tempo solo con intenti commerciali. Questa ‘mercificazione’ ha invece sortito un effetto inaspettato: la divulgazione capillare, la massificazione, una sorta di popolarizzazione della creatività. Una creatività ‘a basso costo’, vale a dire ottenibile con pochissima spesa, benché talvolta di buona qualità. Tutto ciò ha fatto in modo che anche un metalmeccanico potesse essere prodotto dall’etichetta di Zorn, con risultati sorprendenti!

L’esposizione delle tecniche parte dalla ‘variazione’ e della ‘trascrizione’, fondative di ogni musica, ma superate nella loro applicazione accademica) e arriva a quelle tipiche del nostro secolo, patrimonio collettivo il cui debito va indirizzato alla straordinaria capillarità dei nuovi media elettronici.

 

Variazione

Uno dei più esaurienti studiosi di forme musicali, Andrè Hodeir, dedica ampio spazio alla variazione: «Come l’uomo, pur così vario nella sua struttura e nei suoi comportamenti nasce da una sola cellula, l’opera deve svilupparsi a partire da un elemento unico. Tutta l’arte di chi crea consiste nel ricavare da questa cellula iniziale il massimo della varietà: è ciò che si sforza di fare la tecnica della ‘variazione’, una delle forme più pure della musica occidentale». Aggiungendo, tuttavia, che: «secondo la prospettiva in cui la si considera, la variazione può essere una forma o un procedimento, o entrambi. Variare un tema significa trasformarlo senza alterarne l’essenziale, sia ornandolo, sia trasducendolo, sia dando preminenza ai disegni secondari che l’accompagnano» (Andrè Hodeir, Les formes de la musique). Indicazione più vicina allo studio delle tecniche compositive è fornita dall’inventore della dodecafonia: «Il termine ‘variazione’ ha diversi significati. La variazione crea le forme-motivo per la costruzione dei temi, produce contrasto nelle sezioni mediane e varietà nelle ripetizioni; ma nel tema con variazioni essa è il principio strutturale dell’intero pezzo» (Arnold Schönberg, Fundamentals of Musical Compositions, London 1967).

La ‘variazione’ si configura quindi come una delle più antiche tecniche usate per costruire un brano musicale. Nella tradizione musicale ‘colta’, al fianco all’invenzione del tema, valore molto sentito in un periodo successivo, da sempre ha contato il momento dello sviluppo, dell’organizzazione dei materiali, dell’invenzione ‘variata’ di cellule magari non originali o non troppo originali. Per questa ragione, come rileva Tito Aprea, moltissimi incisi tematici restano identici a cavallo di epoche e di stili (e, naturalmente, di generi): alcuni salti d’altezze, alcune direzioni dei temi obbligate da un prevedibile e raccomandato ‘buon andamento’ del basso che supporta le armonie, sono stati considerati come un patrimonio comune, come l’abc del linguaggio musicale, del quale tutti potevano servirsi a patto di sorprendere poi l’ascoltatore con inaspettate formule ‘variate’. La medesima forma del ‘tema con variazioni’, addirittura, è poi diventata un modello di scrittura, laddove certe varianti ritmiche, o modalità di divisione e spezzettamento del tema, o procedimenti come dilatazione e concentrazione venivano riutilizzati per richiamare alla memoria dell’ascoltatore le opere precedenti, o quelle dei grandi compositori contemporanei, come se l’intento fosse stato non solo quello di innovare, ma anche quello di riallacciarsi implicitamente ad un linguaggio e ad una tradizione. L’arte dell’implicito citare varia molto tra i differenti compositori, e non è detto che i più ‘grandi’ siano stati anche quelli più innovativi e radicali. E quasi tutti, inevitabilmente, hanno fatto ricorso alla variazione, spesso su temi popolari o di altri compositori.

 

Trascrizione

Anche la nozione di trascrizione ha diverse accezioni. La più interessante, ai fini di questo studio, è quella di ‘cambio di destinazione strumentale’. Attraverso la trascrizione, un brano composto originariamente per un determinato strumento viene trasformato ed adattato alle necessità di uno strumento differente, in modo più o meno fedele all’originale e assecondando problemi come l’estensione, il timbro, la possibilità di fraseggio dello strumento originario e di quello di destinazione. Esistono trascrizioni ‘da concerto’ (compositori come Liszt e Busoni amplificano in modo creativo l’originale con raddoppi, riempimento di armonie, etc.: si pensi all’amplissimo catalogo delle trascrizioni da concerto); e trascrizioni che diventano vere e proprie ‘reinvenzioni’: in tal caso musicisti come Rendano, Siloti, Petri sviluppano creativamente arpeggi appena enunciati, o completano linee di basso con temi inventati da loro. Il nuovo brano, spesso, pur mantenendo nella corretta sequenza i nomi del compositore e del trascrittore (ad esempio: Bach-Siloti), è quasi sempre stilisticamente più vicino al musicista trascrittore mostrando chiaramente quanto nella musica classica sia stato (e sia) molto comune sentire come propria l’idea musicale di un altro compositore.

 

Collage

La tecnica del ‘taglia e cuci’, già ampiamente abusata nella sua versione ‘manuale’, è oggi di facilissima attuazione grazie alla omonima modalità presente in qualsiasi calcolatore. Essa consente di ‘selezionare’ l’area di un testo o di una composizione codificata in formato Midi, oppure una qualsiasi porzione audio di un brano digitalizzato, e di servirsene in qualsiasi contesto. Usando appositi programmi, inventati inizialmente con finalità didattiche, è possibile fondere dati audio e Midi con testi ed immagini, visualizzando e ascoltando ogni frammento come se si trattasse di un ‘mattoncino’ o di una tessera di un puzzle, ricomponendo un contesto originale di proprio gradimento. E’ facilmente immaginabile che con tali software qualsiasi persona, anche se non musicista, può permettersi di ‘creare’, a vari livelli, opere più o meno inedite. Come nota un attento osservatore dei nuovi fenomeni musicali, Gino Castaldo, «esiste anche, ed è in vertiginosa espansione, una tendenza al mescolamento, al riciclaggio continuo e instancabile dell’esistente, che rende ardua ogni precisa distinzione sulla indipendenza dell’atto creativo dal rapporto con quanto è già stato creato».

È importante precisare che la tecnica del ‘collage’ fu utilizzata, in versioni molto meno edulcorate, da quasi tutti i compositori del filone della musica concreta. Naturalmente questi antesignani delle odierne tecnologie realizzavano e trattavano le porzioni audio in modo molto più sofisticato, ancorché distaccato dai desiderata del pubblico.

 

Scratching

I primi ad usare la tecnica dello scratch furono Hindemith e Toch nel 1930! Utilizzarono, naturalmente, vecchi dischi in vinile, e non la chiamarono in questo modo  (Cfr Aa. Vv., Konsequenz, n. 3-4). Lo scratching è stato definito da Michel Chion come quella tecnica che consente di utilizzare «dischi di vinile e piatti di grammofoni alla stregua di strumenti: si controlla il movimento del disco manualmente e si creano così ‘tracciati’ sonori simili a zebrature, come tracce pungenti» (M. Chion, Musica, media e tecnologie, p. 119). Sarà utile aggiungere che oggi è possibile fare scratching anche al computer a partire da formati compressi come Mp3, oppure utilizzando normali i compact disc con uno speciale mixer inventato apposta per le discoteche ed i Dj.

 

Sketching

Zorn nelle sue composizioni usa il termine ‘sketch’, ad esempio  per qualificare il suo brano Roadrunner (Ed. Theatre of Musical Optics). Il termine definisce la prassi di far susseguire velocissimi frammenti audio (‘schizzi’, appunto). Non tutte le composizioni di Zorn sono costruite così, ma lo sono quelle che utilizzano le tecniche del montaggio (che lui desume dal cinema). In sostanza, quella di Zorn è l’estetica del collage. In un suo articolo sul cinema illustra la tecnica del montaggio cinematografico che probabilmente è la stessa usata per costruire i suoi pezzi , visto che tra gli esempi riportati nell’articolo compaiono gli stessi rettangolini presenti nelle sue partiture. Per Zorn: «il montaggio crea una serie di problemi (...) dove la materia dell’esperimento è costituita dal tempo. Spesso il montatore non ha materiale sufficiente per creare un flusso continuo ed è costretto a scegliere altrove immagini per conservare l’illusione del tempo che passa a un ritmo regolare». E ancora: «all’aumento di velocità segue la riduzione della capacità di attenzione. Se in precedenza sembravano indispensabili blocchi di informazione di un minuto, ora bastano dieci secondi». Come si vede, la velocità, il cambiamento,  il flusso delle informazioni tra continuo e discontinuo hanno un ruolo centrale nell’uso della tecnica dell’assemblaggio.

 

Sampling

Secondo Pamela Samuelson «le tecniche di campionamento digitale permettono di ‘tagliare’ una registrazione sonora in parti, le quali possono essere rimescolate e combinate con altre provenienti da diverse registrazioni, producendo una nuova registrazione che non è più riconoscibile come derivata dagli originali». Purtroppo, però, talvolta la cosa non è così semplice, perché alcuni originali vengono dichiarati, magari a scopo pubblicitario, e riconosciuti dagli attentissimi produttori e dalle major discografiche...

Il sampling, o campionamento, è una tecnica che può effettivamente consentire, grazie all’uso dell’elettronica, la ‘cattura’ di qualsiasi suono da tracks di cd preesistenti,  la sua trasformazione in un dato numerico visibile al computer, un evento digitale che può essere utilizzato a piacimento, trattato, alterato, rivisitato fino a renderlo irriconoscibile. I primi ‘campionatori’ erano macchine costose ed ingombranti, che tuttavia permettevano di registrare i suoni, inserirli nella macchina e modificarli nei loro parametri fondamentali (altezza, timbro, intensità, durata). Il sistema del campionamento si diffuse alle tastiere, anche di tipo economico. Oggi, finalmente, si può lavorare sul campionamento con computer di basso costo, ma i risultati, la riconoscibilità dei campioni, la banalità o l’originalità del risultato finale dipendono esclusivamente dalla creatività e dall’abilità degli operatori.

 

Clearing

Il Tribunale Distrettuale degli Stati Uniti emette il primo verdetto inerente al campionamento musicale nel dicembre 1991, vietando al rapper Biz Markie di utilizzare nella canzone Alone Again inserita nell’album Need a Haircut (1991) alcune parti campionate tratte dalla omonima Alone Again (Naturally) di Gilbert O’Sullivan, un cantante noto negli anni Settanta. L’album fu ritirato dal commercio, e ripubblicato privo di Alone Again. Il caso ebbe una notevole risonanza anche per il fatto che dopo due anni Biz Markie diede al suo nuovo lavoro il titolo provocatorio di All Samples Creared. Da questo titolo nasce la pratica del ‘clearing’, che consiste nel dichiarare ai legittimi detentori dei diritti d’autore tutti i campionamenti prelevati dai loro brani (‘rubati’ dai compact disc grazie alle tecniche digitali oggi in uso) versando un corrispettivo in cambio del loro utilizzo.

 

Wall of noise

E’ una raffinata tecnica del collage sonoro, migliorata da Hank Schocklee, produttore dei Public Enemy (Sandro Ludovico, “Campionare, l’arte di attingere ai suoni”).

 

Campionamento libero

Il gruppo dei De La Soul ha dedicato uno spazio web dedicato ai campioni utilizzati nei loro dischi, rispondendo alle faq degli utenti sul loro uso. Altro organismo nato per contrastare il clearing e contestualmente favorire la libera utilizzazione dei campioni, è l’associazione no profit “Musicians against copyrighting of samples”. Uno dei suoi fondatori, il musicista Uwe Schmidt ha messo a disposizione i suoi campioni allegandoli agli album (1992, Cloned: binary, in edizione limitata) (S. Ludovico).

 

Internet

Nelle musiche di libera utilizzazione collegate a software di sviluppo di pagine Web, l’autore vende i brani al produttore del software una sola volta,  il quale ne liberalizza l’uso da parte dell’utente in cambio dell’acquisto del programma. Assai interessante la casistica relativa alle banche dati, per le quali si discute di libero utilizzo (e pertanto di scappatoia dalle maglie del diritto d’autore, v. il paragrafo sul copyleft) da parte dell’ ‘assemblatore’. Su Internet sembrerebbero implicitamente autorizzati i download di frammenti di bassa qualità audio, laddove l’Autore ne possa disporre e ne dia cautelativa informativa all’ ente di tutela.

Già da anni esistono programmi in grado di rilevare casualmente la musica presente in rete consentendo collage sonori più o meno automatizzati. Si va dall’evento live trasmesso via internet, alle musichette Midi, dalle siglette dei telefonini  alla cattura dei suoni trasmessi dalle net-radio. Tutte musiche trattate come veri e propri ‘oggetti sonori’, molto spesso non più riconducibili agli autori originari.

 

Metacomposizione

Tecniche di metacomposizione vengono utilizzate soprattutto in ambito colto. Tra gli autori spiccano il gruppo Timet ed il suo leader Lorenzo Brusci, che, con complesse motivazioni estetiche ed uno studio dei flussi sonori tra discreto e continuo, trasformano l’operazione ‘jazz’ di Zorn in sofisticata elaborazione colta (ma queste differenze tra generi sono solo indicative). Timet pubblica diversi dischi (Restituzioni, La via negativa, Shadows...), su ognuno dei quali è posta la scritta «Chiunque è libero di manipolare questo disco. Se potete ammettetelo». La tecnica usata è quella di considerare blocchi di suono come materiali oggettivi da giustapporre a piacimento. In alcuni lavori c’è l’elenco dei nomi dei compositori ‘sorgente’, senza però precisare il titolo del brano dal quale è stato tratto il tassello inserito nella metacomposizione.

 

 

 

Tipologie

 

Le tipologie di plagio musicale sono molteplici: può parlarsi di plagio tipico e atipico, involontario, stilistico e imitativo, parziale, ritmico, autoriferito, artistico o attenuato, popolare. La classe tipologica qualificata come plagio artistico o attenuato mira a mostrare quale sia stata l’evoluzione della nozione dal punto di vista delle tecniche musicali (negli studi classici di composizione la progressione storica coincide con la progressione dell’apprendimento e la padronanza delle tecniche compositive). Ogni categoria, naturalmente, non vuole essere esaustiva, si qualifica come classe tipologica suscettibile di ulteriori articolazioni, poiché spesso, nella realtà del caso specifico, ogni classe può mescolarsi o integrarsi con le altre classi.

E’ necessario ribadire che la nozione giuridica di plagio musicale va intesa in modo estensivo. Le tipologie giuridiche, difatti, sconfinano in fenomeno estetico nella misura in cui nell’evoluzione delle tecniche musicali si va via via facendo strada la convinzione dell’ineluttabilità del ricorso a temi, ritmi, atmosfere mutuate da opere di altri compositori. Tale consapevolezza, come si è già accennato nel delineare il percorso storico della nozione di plagio, assume in ogni epoca importanti differenze prospettiche, che vanno dal divertito omaggio ai grandi autori del passato alle furibonde accuse di vero e proprio furto di idee. Dire che la nozione giuridica sconfina in quella estetica significa che la vecchia definizione di plagio deve per forza di cosa tener conto delle acquisizioni che si sono accumulate nel tempo, nella storia delle opere, e nel tenerne conto deve uscirne ampliata, non nel senso di aggiungere nuove tipologie, ma in quello costitutivo di modifica della stessa percezione giuridica del termine plagio.

Per queste ragioni, non avrebbe avuto senso procedere ad un elenco delle tipologie di plagio se non precisando chiaramente che se da un lato si sta cercando di ‘incasellare’ e definire casi noti o poco noti, dall’altro si sta cercando di mostrare come sia già insita nel gesto compositivo, e data quasi per scontata nell’uso pratico delle tecniche, una modalità di uso dell’altro, e del rinvio all’altro, in cui appare legittima l’appropriazione creativa di frammenti altrui. Tali frammenti vengono considerati dal compositore alla stregua di materiali oggettivi (escludendo pertanto i casi di malafede).

A questa esigenza di chiarezza risponde la necessità di ipotizzare tra le classi anche quelle di plagio attenuato, artistico e popolare, che seguono un criterio di natura estetica più che di natura giuridica.

Quello che è in gioco, preme sottolinearlo, non è una mera questione musicologica, ma alcune importanti acquisizioni etiche: impossibilità di opere che possano considerarsi completamente ‘pure’; ineluttabilità della contaminazione dei linguaggi; importanza di questa contaminazione per l’avvicendamento delle forme e l’arricchimento delle culture. Due visioni del mondo evidentemente opposte: quella lineare, che respingiamo; quella che declina dalla linea, che accogliamo, perché non escludente a priori la possibilità di scatti in avanti dovuti ad una originalità che potrebbe dirsi ‘causata’.

 

Plagio tipico

Ipotesi di scuola, definisce la casistica tipo che può inquadrare il fenomeno dal punto di vista giuridico. Se «una persona si appropria degli elementi rappresentativi e creativi di un’opera per introdurli in un’altra opera sotto il proprio nome, ci troviamo in presenza di un ‘plagio’, cioè di una contraffazione qualificata e aggravata, ossia di una riproduzione abusiva di un’opera altrui con appropriazione di paternità» (l. 633/1941). Per legge, tuttavia, l’opera simile all’originale, per essere realmente definita plagio, deve suscitare nell’ascoltatore le stesse emozioni evocate dall’originale. Assecondando questa definizione, potrebbero sussistere senza incorrere nel plagio alcuni tipi di utilizzazione di tipo ‘citazionistico’, perché i frammenti usati, ad esempio, negli sketching di Zorn non hanno più nulla in comune con i brani iniziali.

 

Plagio atipico diretto e indiretto

Sono atipici  tutti quei casi che non rientrano nella definizione ‘di scuola’.

Con rilievo al profilo della titolarità del plagio, se un terzo plagia l’opera da una sorgente per conto dell’autore plagiante che si assumerà la titolarità dell’opera, si ha plagio atipico diretto. Se un terzo plagia l’opera a nome di un compositore ignaro si ha invece plagio atipico indiretto (riferito alla figura del compositore ignaro) o falso d’autore (riferito alla figura del terzo, reale autore del plagio).

Se uno studioso (o l’opinione comune) attribuisce l’opera ad un compositore che non ne è autore si ha plagio atipico o errore di attribuzione (la modalità ha rilievo per il fatto che nella pratica da concerto molte opere continuano ad essere eseguite con la falsa titolarità, attraverso la dizione ‘attribuita a...”). Se il plagio atipico viene ricondotto con certezza ad un terzo che volontariamente lo pone in essere a fine di lucro si è in presenza di una truffa (plagio atipico indiretto è quello del Requiem di Mozart, nelle parti completate dagli allievi su commissione della moglie, a danno di un committente il quale a sua volta intendeva assumere la paternità del Requiem - plagio tipico) o di uno scherzo (celebre in campo artistico il caso dei falsi Modigliani).

Si ha ancora plagio atipico nel caso in cui un compositore affidi ad un ghost writer la propria opera affinché questi la completi a pagamento (celebre e molto discusso il caso di Giacinto Scelsi, che però consegnava ad alcuni trascrittori dei supporti magnetici di sue improvvisazioni: il plagio avrà rilievo solo nel caso in cui possano essere documentate porzioni estese della composizione non concepite dal committente).

 

Plagio involontario

Tipologia squisitamente giuridica che inquadra il caso di similitudine fortuita o casuale. Apre una serie di problemi giuridici tra creatori di opera indipendenti

 

Plagio stilistico e imitativo

La diffusione di trattati di orchestrazione e analisi consentono oggi perfino agli studenti dei corsi di composizione di poter scrivere à la manière de..., formula usata dagli autori per esplicitare un rifacimento stilistico. Molti sono gli esempi di plagio di stile, esplicito o implicito, da Ravel che si rivolge a Couperin, a Debussy che ne La Cathédrale engloutie si appropria della tecnica della sospensione accordale usata quattro anni prima da Satie in un Corale, fino a Rossini che nel Petite Caprice per pianoforte fa il verso ad Offenbach, con uno sberleffo aggiuntivo: usa solo indice e mignolo della mano destra, nel gesto dello scongiuro, perché pare che Offenbach portasse male...

Il plagio imitativo è ‘esplicito’ nelle composizioni accademiche; ‘implicito’ nelle composizioni di corrente, ad esempio in alcune opere della scuola seriale; ‘attivo’ quando l’imitazione stilistica procede da consapevole volontà di attribuirsi un vantaggio economico o un vantaggio intangibile; ‘passivo’ se ci si limita a subire l’influenza di un caposcuola o di un autore che si è molto amato (ad esempio il caso di Sakamoto che da giovane, dopo aver molto ascoltato e amato il Terzo concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven scrisse un brano di natura didattica del tutto simile a quello di Beethoven).

Si ha plagio imitativo cinematografico quando nella musica da film si usano alcuni codici per suscitare reazioni convenzionali nel pubblico, una specie di codice inconscio: un collage di queste tipologie è raccolto in un celebre prontuario, l’Allgemeines Handbuch der Filmmusik di Becce-Erdmann-Brav, pubblicato a Berlino nel 1927. Basta comunque ascoltare la musica da film di un compositore come Sakamoto per rintracciare decine di citazioni stilistiche o tematiche. In Little Buddha un tema simile a quello del Dies irae viene orchestrato alla maniera della Pavane pour une enfante défunte di Ravel. Molti ritmi di El mar Mediterrani riportano al Sacre di Stravinskij o ad opere di Bartòk, e via di seguito...

Il plagio imitativo da spot ricorre nel caso dello jingle-maker che costruisce musiche per la pubblicità, e si adatta camaleonticamente a rifare Springsteen e Bach nell’ottica mobile dell’estetica del plagio..

 

Plagio parziale

Può riguardare una successione armonica inusuale ma identica a quella di un altro autore nella sequenza accordale, nelle posizioni e nei legami armonici. O solo una parte del tema di una composizione, intendendo per tema la frase compiuta che identifica il brano di provenienza. Plagio parziale può essere quello del controsoggetto o tema secondario o seconda voce della composizione. Infine può essere quello che riprende la tipicità di un timbro orchestrale, laddove questo sia palesemente ‘rubato’ da un brano preesistente.

Plagio ritmico. Laddove la ritmica sia identificativa di una composizione, essendo il ritmo la caratteristica musicale  che per prima consente l’dentificazione del pezzo, quella cioè che dal punto di vista psicoacustico risulta essere individuata dal fruitore molto prima dell’assorbimento di parti tematiche, timbriche o armoniche, sarà possibile parlare anche di plagio ritmico. Esperimento: una famosa mazurca di Chopin suonata con altezze differenti e resa politonale verrà individuata egualmente da un musicista esperto. Il famoso tema beethoveniano del destino che bussa alla porta verrà allo stesso modo riconosciuto da ascoltatori non musicisti anche con altezze dei suoni alterate. Sembrerebbe sorgere un problema teorico: nei brani di musica cosiddetta ‘pop’ le ritmiche vengono ripetute o considerate di pubblico dominio anche grazie alla loro divulgazione in appositi cd ed a programmi che ne rendono possibile la libera utilizzazione. Tuttavia, laddove un ritmo risulti riconoscibile per alcune caratteristiche tipiche si parlerà di plagio ritmico anche in caso di differente velocità di esecuzione? Ragionando per similitudine, se un ritmo di origine classica (danze e balli) viene usato tranquillamente senza incorrere in plagio, anche altri ritmi semplici o a cadenza regolare dovranno considerarsi di patrimonio comune, prescindendo dalla velocità di esecuzione. Invece, ritmi complessi o irregolari (si pensi ad alcune composizioni contemporanee o a quelle di Stravinskij) verranno generalmente ritenuti plagi ritmici, sempre a prescindere dalla loro velocità d’esecuzione. L’uso e la permutazione ritmica viene generalmente considerata lecita dai compositori. Gli studi etnomusicologici sul gamelan di Giava e Bali, e più in generale tutte le polimetrie arcaiche sono stati saccheggiati da quanti ne hanno tratto cellule da impiegare con procedimenti di inversione, retrogradazione, aggravamento, etc. In linea di principio non si comprende per quale ragione il plagio di un ritmo debba essere considerato meno riprovevole di quello di un tema o di una successione armonica. Per quale ragione, cioè, la componente ritmica, che pur individua per prima la specificità di un brano, possa essere considerata più ‘oggettiva’ della componente ‘melodica’ e quindi trattata come un materiale liberamente utilizzabile...

 

Autoplagio o plagio autoriferito

L’autoplagio è una categoria intermedia tra quelle di derivazione giuridica e quelle di derivazione estetica. Difatti, un compositore può plagiare se stesso per motivi contingenti - laddove non riuscendo a soddisfare una commissione si trovi costretto a riproporre un lavoro precedentemente composto - o per motivi artistici - laddove l’utilizzo di un tema o di una parte della fonte originaria scaturisca da esigenze esclusivamente creative. L’autoplagio può consistere in una autocitazione (di un tema proprio o di parte di un’opera precedente); in una trascrizione da catalogo proprio; in un rifacimento  (assemblaggio da parte dell’autore di parti o interi movimenti tratti da opere precedenti o addirittura parziale riscrittura di opere complete); può ridursi ad autorevisione (celebre il caso dell’Otello di Rossini) o ad una semplificazione di precedenti lavori a fini didattici o strumentali; può spiegarsi come lavoro svolto nel tempo, e intendersi come versione successiva e stratificata nel tempo (con importanti cambiamenti) del medesimo lavoro (si pensi alle molteplici versioni delle mazurche di Chopin o dei preludi di Gershwin).

Di tale casistica si è anche occupata la giurisprudenza, laddove l’autore risulta vincolato da un contratto di edizione che gli impedisca di riprodurre, anche parzialmente, l’opera, o di produrne e metterne in commercio una simile. Si parla, in tal caso, di ‘plagio di se stesso’ (cfr. Marco Fabiani, “Il plagio di se stesso”), caso che potrebbe ricorrere anche al di fuori della tipologia del contratto di edizione (nel caso di diritti di esecuzione o di registrazione di opera musicale). Si propende a cercare un bilanciamento tra la libertà dell’Autore di ricorrere ad espressioni stilistiche che lo caratterizzano (in caso contrario molti brani di Glass sarebbero da annoverarsi nella categoria dell’autoplagio!) e l’esigenza di buona fede richiesta dal codice civile e dalla correttezza dei comportamenti di chi si pone sul mercato.

 

Plagio artistico

Il plagio artistico è insito nelle tecniche e prassi compositive tipiche della musica classica, che come si è visto procede da un tema o da una cellula allo sviluppo della forma musicale prescelta. Si è dimostrato che nella musica colta è piuttosto frequente comporre un brano su tema altrui, oppure autocitare frammenti della propria opera in altre composizioni, o trascrivere lo stesso pezzo per uno strumento diverso dall’originario. Dall’espediente della ‘variazione’ (su/da tema altrui) ha forse origine il senso di liceità che accompagna il compositore quando si serve di idee altrui: un tema interessante poteva in un primo momento essere ripreso solo occasionalmente dagli esecutori, poi essere elaborato, abbellito, infiorettato, come era antica prassi comune, adattandolo alle possibilità offerte da strumenti diversi e piegandolo alle possibilità improvvisative degli esecutori solistici. Si comprende, dunque, come già una semplice ‘trascrizione’ fosse una rudimentale forma di contaminazione tra l’originale d’autore e la sua rielaborazione più o meno variata compiuta da un altro musicista. Si può ipotizzare che queste ‘rielaborazioni’ diventassero ‘trascrizioni’, poi vere e proprie ‘reinvenzioni’ nella misura in cui maggiormente si allontanavano dall’originale, ed infine plagi (atipici ) quando il nome del primo autore scompariva del tutto.

Il plagio artistico, che è quindi un plagio attenuato dal punto di vista giuridico, perché solitamente non si accompagna ad una malafede ma, al contrario, alla sensazione di utilizzare un materiale oggettivo, a disposizione del sentire comune, può essere di vari tipi. Può trattarsi di una citazione: viene riportata in una propria opera un frammento dell’opera di un altro compositore. Può essere una citazione in bella evidenza quando assume la formula di un omaggio esplicito alla sorgente oppure può essere una citazione mascherata quando attraverso piccole modifiche chi plagia cerca di ottenere un effetto del tutto simile a quello della pezzo originale, che non viene dichiarato. In epoca successiva si sviluppò la forma della parafrasi. Si ‘trascrive’ da una composizione per orchestra o si creano ‘parafrasi’ pianistiche dai brani d’opera, poi se ne fanno musiche differenti, vere e proprie reinvenzioni. E’ interessante, a questo proposito, segnalare che la Siae ha solo di recente risolto il problema della ‘trascrizione’ di opera di pubblico dominio, e non ha ancora risolto quello dell’opera trascritta da autore vivente o morto da meno di settant’anni.

Le tecniche odierne, già illustrate, utilizzano la digitalizzazione del suono, vale a dire la sua trasformazione in un parametro numerico, che davvero può considerarsi con facilità un ‘materiale oggettivo’, fatto proprio da chi mostri competenza nel raccoglierlo e alterarlo.  Le tecniche sono quelle già citate del sampling o campionamento, dello sketching (fusione/confusione creativa di frammenti altrui), del clearing o del prestito dichiarato, nel caso già descritto del campionamento in cui pur utilizzando frammenti o campioni di suoni tratti altrove, se ne dichiara la sorgente corrispondendo i relativi diritti.

 

Plagio popolare

Un lasciapassare al plagio è sempre stato costituito dalla musica popolare. Molti compositori si sono rivolti ai repertori tradizionali  (considerati di pubblico dominio) per trattarli liberamente. Da Liszt e Brahms fino alle scuole popolari, con in cima Béla Bartòk e Zoltan Kodàly, a volte con intenti perfino filologici, i musicisti classici hanno permutato modi e temi folclorici o noti trasferendoli in forme colte. Mahler riprende Fra’ Martino, la trasporta, la trasforma in re minore e la inserisce nel terzo movimento della sua Prima Sinfonia. Ma ‘popolare’ non va confuso con ‘popular’. Il termine ‘popular’ ha infatti una più vasta accezione. La migliore definizione è quella data da Richard Middleton, e riassunta da Franco Fabbri. Comprende la canzone, il pop, il rock, la musica da cinema, della televisione, della pubblicità e «gli altri generi che insieme formano il campo musicale definito ‘popular’ dagli anglosassoni». Quindi, ‘popular’ è termine molto vicino all’ambito che interessa la produzione contemporanea contaminata.

Il termine ‘popolare’ va invece riferito in modo più circostanziato alla produzione legata al folclore locale, all’etnico in senso stretto. Può usarsi ‘popolare’ anche nel caso di produzioni provenienti da segmenti sociali identificati con la massa (!). Il passo tra popolare e ‘populista’, in quest’ultimo caso, è quantomai breve: la musica da discoteca, la leggera più commerciale, non sono generi autenticamente ‘popolari’, perché discriminano in partenza i gusti della gente, dando per scontato che la massa non possa interessarsi di musiche differenti da quelle a loro prossime. In questa accezione, la musica extra-light non è nemmeno ‘popular’ (tranne che in alcuni casi, in cui si effettua realmente una contaminazione), ma è spesso ‘populistica’. Sovente i compositori, di ogni provenienza, si sono appropriati di temi e motivi ‘popolari’ in senso proprio, magari soltanto ipotizzando che lo fossero. Al punto che alcuni temi, diventati talmente famosi da essere considerati ‘popolari’, hanno perso la loro stretta riferibilità ad un autore specifico, e sono stati trattati come vero patrimonio comune.

 

 

Temi e problemi

 

Nascita della nozione di autore

Contrariamente a quanto si ritiene comunemente, la nozione di Diritto d’autore fu introdotta fin dal Settecento, visto che il primo atto di copyright viene varato nel 1709 in Inghilterra. Vi si stabiliscono come caratteri del plagio una congrua lunghezza, e l’identità di porzioni del brano ben caratteristiche ed individuabili. Ed alla fine del Settecento risale uno dei casi più noti e rilevanti di accusa di plagio di un autore nei confronti di un altro compositore: i due si chiamavano Clementi e Mozart. L’uso di semplici e brevi frammenti non era ritenuto plagio in senso proprio. In seguito si considerò che una lunghezza ‘accettabile’ per parlare di plagiocoincidesse con le quattro battute che servono ad articolare una frase musicale di senso compiuto, anche se, come argutamente rileva Tito Aprea, talvolta perfino un inciso risulta talmente caratteristico da essere immediatamente riconoscibile. Nella prassi compositiva, dunque, curiosamente, la musica veniva trattata un po’ alla stregua dei software open source di oggi, laddove è implicito nella mentalità di un programmatore Linux la possibilità di lavorare anche per una comunità più ampia che può utilizzare gratuitamente, in clima di reciprocità, il lavoro altrui.

Bach versus hacker ? Novecento che riproduce un sentire del Settecento, con antiche idee che ritornano? In effetti questa analogia è molto vicina alla realtà delle cose e del sentire: per farsene una ragione si può consultare il libro di Pekka Himanen sull’etica hacker, che non a caso comincia proprio con l’ analisi dell’etica protestante del lavoro, e con la similitudine tra sistema monastico e sistema autoritaristico.  Nel tentare un parallelo tra quanto accade da secoli nel mondo musicale e l’attuale evoluzione nel mondo della ricerca elettronica, va tenuta presente una distinzione importantissima: quella tra free software (libero utilizzo senza limiti) e open source (in cui è obbligatorio citare la fonte di ogni miglioramento dei software). Entrambi i modelli sono a struttura aperta, e contrastano con le strutture chiuse di tipo aziendale-economicistico. Per il modello open source, diversamente da quel che si pensa, il plagio è riprovevole, ed il rilascio di diritti si intende assolto a due condizioni: «che quegli stessi diritti devono essere trasmessi quando viene condivisa la soluzione originale o la sua versione perfezionata, e chi vi ha contribuito deve essere sempre citato ogni volta che una delle versioni viene condivisa» (P. Himanen).

 

Le utilizzazioni plurime

La Società italiana per la tutela dei diritti d’autore ritiene che le nuove tecnologie conducano a differenti tipi di “utilizzazione” dell’opera, e che tali utilizzazioni plurime possano e debbano essere egualmente tutelate, attraverso marcatori come Mmp, che consente la marcatura in filigrana, il watermark, attraverso algoritmi di cifratura. Numerosi gli altri standard  Secure Digital Music Initiative. Le operazioni indicate da Mario Fabiani come riconducibili ad una utilizzazione plurima di tipo diverso da quello tradizionale sono l’Uploading (si immette l’opera in rete), il Browsing utente (altri utenti accedono all’opera), il Client caching (consultazione dell’opera in rete), la registrazione dell’opera sul proprio computer, la riproduzione (attraverso i vari formati di compressione, Mp3, Real Audio, ed altri formati derivati o evoluti), e la trasmissione dell’opera ad un pubblico indeterminato.

Dal nostro punto di vista non sembra tuttavia che la ‘consultazione’ di un’opera, ad esempio, con qualità inferiore dovuta alla compressione oppure ad una resa ‘mono’ (privando il brano della sua efficacia stereofonica), possa essere considerata una ‘utilizzazione’. Altrimenti tutti i negozi di dischi, nel proporre  una titletrack al compratore dovrebbero pagare diritti di utilizzazione. E analogamente perfino i giornalai nell’esporre riviste alla consultazione per l’offerta di acquisto, dovrebbero pagare dei diritti per la ‘consultazione’!

Altro punto discusso della normativa è la possibilità concessa agli acquirenti di CD di trarne almeno una copia per un uso differente, ad esempio per ascoltare una compilation in auto, purché tale copia sia dotata di un codice che ne impedisce una ulteriore duplicazione. Ne esistono molti tipi differenti, il più conosciuto è il Serial Copy Management System. Alcuni sistemi di protezione digitale oggi adottati in prova per certi prodotti discografici impediscono anche tale copia, limitando la libertà di utilizzazione dell’acquirente ed inibendone il diritto di conservare in perfetto stato l’originale, e il diritto di ascoltarne solo una porzione, considerando la natura non unitaria del ‘prodotto cd’ (formato da differenti tracce, spesso molto differenti). Si ricorda che per motivi simili (differenti funzionalità implementate nel sistema operativo Microsoft Explorer) sono state intentate molteplici cause contro Bill Gates.

Qualcosa in più di una ipotesi è la possibilità di una protezione ‘attiva’ dei materiali musicali presenti in rete. Attraverso un virus immesso illegalmente in file musicali, alcune major sabotano i sistemi peer-to-peer (vale a dire quei programmi e siti che consentono lo scambio di file). L’utente crede di ‘scaricare’ un file musicale e si ritrova invece con un “MediaDecoy”, cioè con una sorta di ‘cavallo di troia’ che danneggia l’hard disc del computer. Altre proposte restrittive arrivano dagli Stati Uniti, dove diciannove membri del congresso hanno chiesto al segretario della giustizia John Aschcroft di rendere reato il semplice atto di ‘scaricare musica’ dalla rete. Non a caso la proposta ha tra i suoi firmatari alcuni esponenti dell’aria liberal. Iniziative del genere non colpiscono di certo la vera pirateria (che consiste nel duplicare centinaia e migliaia di copie contraffatte di interi dischi, creando un mercato parallelo ed illegale) e finisce invece con il limitare la libera circolazione delle idee e dei materiali. Ogni sistema di protezione digitale, infatti, viene tranquillamente aggirato dai ‘veri’ pirati semplicemente fabbricando una nuova copia digitale, attraverso le uscite analogiche di qualsiasi lettore cd. Dalla nuova copia i contraffattori riproducono digitalmente ed in tutta tranquillità la quantità di dischi desiderata.

Il problema della pirateria è collegato a quello del plagio musicale laddove si vada a colpire la libera circolazione di musiche in rete. Sarebbe come dire che Haendel, Bach e Mozart non avrebbero dovuto memorizzare temi altrui ed arricchire conseguentemente la propria opera e la storia della musica di capolavori. E che magari, per impedire questa assimilazione, fosse stato proibito l’ascolto di nuove opere nei teatri e nei salotti! L’argomentazione, esasperata e paradossale, mostra tuttavia abbastanza efficacemente l’effetto di limiti imposti alla circolazione delle musiche per scopi di conoscenza e studio. Ed implicitamente di assimilazione, rielaborazione, campionamento, metacomposizione, ...

 

Plagio e riproducibilità

La possibilità di replicare “enne” volte un’opera musicale attraverso dischi, video, e così via, la espone al rischio di manipolazione delle masse da parte dell’industria culturale. Ma d’altro lato tale replicazione può servire ad introdurre attraverso l’opera temi rivoluzionari nella politica culturale. Quest’intuizione di Benjamin lo rende il più lucido dei francofortesi. La tecnica della riproduzione, scrive Benjamin, «pone al posto di un evento unico una serie quantitativa d’eventi». Al di là delle implicazioni storiche ed estetiche, la novità della riproducibilità è che in ultima istanza non si può più eludere il confronto col pubblico «degli acquirenti che costituiscono il mercato». Ciò, indubbiamente, cambia il rapporto tra artisti, opere e massa. Definite infatti certe costanti come di sicuro successo, la tentazione forte è quella di cedere al fascino del già detto, dell’autocitazione, della fabbricazione di canzoni, brani, video fatti ad hoc, cioè pensando esclusivamente alle esigenze dell’industria culturale. Tecnicamente è piuttosto semplice ricreare le atmosfere o riutilizzare certe suggestioni armoniche oppure ‘arrangiamenti’ simili per ottenere un effetto di ‘trascinamento’ sulla scorta di un successo da hit. Tale prassi, però, espone l’autore ad un logoramento ed uno svuotamento che alla lunga gli sono fatali. La prassi della ‘citazione’ o del rifacimento (da un mambo, dalla colonna sonora di un film di successo, etc.) è tale che essa va raccolta per quello che è, senza escludere a priori che una qualità estetica, un valore, possa comunque esservi contenuta.

Alle epoche della duplicazione e della riproduzione sembra ora seguire l’era della ‘replicazione’. Le musiche sono simili ai replicanti di Blade Runner: benché clonate paiono vivere come corpi separati in rete, come se fossero dotate di vita propria.

 

Pregiudizio d’autore e plagiarismo

Il plagio dispone a piacimento i confini di appartenenza: distingue tra proprio e altrui solo per abbattere questa frontiera, e stabilire un terreno condiviso. Ogni luogo in comune allarga i propri confini originari, perché sopravanza quelli contigui. Le incursioni pirata negli standards predisposti dall’ ‘autore’ sono già la ricchezza e la bellezza del prodotto ipermediale. Queste ‘varianti’ dell’originale verranno anzi richieste, perché nella variazione e nella velocità aforistica della successione di immagini diverse vi è una via d’uscita dalla noia per il già ascoltato. Un’opera ‘idra’ potrebbe crearsi utilizzando la rete, e abdicando alla propria paternità d’autore, come già si fa attraverso esperimenti letterari. Ed in effetti, su quest’ipotesi lanciata in modo teorico diversi anni fa, oggi è possibile rintracciare molteplici movimenti ed artisti che utilizzando la tecnologia finalmente disponibile (e felicemente massificata) stanno procedendo a rendere evidente il fenomeno del plagio. È nato addirittura un “movimento plagiarista” che fa capo a John Oswald, conosciuto anche al grosso pubblico per aver composto Spectre, cavallo di battaglia del Kronos Quartet inserito anche nel cd del ‘93 intitolato “Short Stories” (i quattro archi fingono inizialmente di ‘accordarsi’ su di un bordone, quasi cercando il suono unico caro a Giacinto Scelsi). Oswald è l’inventore della ‘plunderfonia’, definita come «tecnica e filosofia dell’appropriazione» ovverossia dell’uso del campionatore e della tecnica del montaggio con finalità creative. Le fonti di Oswald sono eterogenee: da Beethoven e Liszt fino ai Beatles, attraversando il jazz. Il compositore canadese è diventato notissimo nell’ambito della musica sperimentale dopo aver prodotto nel 1989 un cd in soli mille esemplari intitolato proprio “Plunderphonic” sulla cui copertina campeggia un’immagine rimaneggiata di Michael Jackson. L’etichetta di Jackson, la CBS, ne chiese naturalmente subito il ritiro, scatenando la circolazione clandestina di cassette e provocando un effetto boomerang di notorietà intorno al lavoro di Oswald (V. Barone, in No@copyright). Come si può dedurre dalla lettura della sua biografia, reperibile facilmente in rete, l’atteggiamento semiserio e satirico del canadese ne fanno un personaggio certamente interessante, la cui produzione è tuttavia ancora considerata ‘di nicchia’.

L’altro aspetto del plagiarismo è l’invito a produrre in modo anonimo, rinunciando al pregiudizio di proprietà apposto dall’autore, alla paternità dell’opera, oppure liberalizzandone l’uso. Qui, ancora una volta, la musica presenta molteplici aspetti in comune con le tematiche dell’hackerismo. È  il caso, ad esempio, del Luther Blissett Project, formato da musicisti che in questo ambito mantengono l’anonimato sul loro apporto ai progetti musicali (come del resto accade anche per gli altri tronconi ‘made in Blissett’), che può essere definito come un situazionismo musicale, prevalentemente divulgato via internet nel formato di compressione Mp3. Il gruppo si colloca in ambito dance, elettronica, sperimentale e si dichiara vicino all’operato di Darko Maver, Evolution Control Committee, John Oswald, dei Negativland.

Tra questi musicisti, l’operato di Darko Maver (Krupanj, Slovenia) lo posiziona subito nelle pieghe della musica sperimentale e politica, rendendolo un riferimento obbligato. L’eclettico artista assume via via parecchi soprannomi, tra cui quelli di “Trax 0487” e “Jaroslav Supek”, e realizza copertine di dischi, istallazioni, sculture, frammenti di parlato (discorsi di natura politica) mescolati a suoni e rumori, finché non scompare prematuramente nel 1999.

Tra gli italiani seguaci del movimento plagiarista e della filosofia ‘plunderphonica’ di John Oswald c’è Giustino Di Gregorio, conosciuto nel ‘95 con lo pseudonimo ‘sprut’, che ha pubblicato per l’etichetta di Zorn, la Tzadik, un disco intitolato sempre  “Sprut”. Tra i gruppi, invece, vicini all’anonimato predicato dal Luther Blissett Project sono i FerrariStationWagon.

 

Copyleft

La linea teorica che ispira il movimento plagiarista ha alcuni tratti in comune con quella che proviene da BenjaminTucker. Partendo da presupposti anarchici, cioè libertari ed antistatalistici, Tucker  ipotizza che se la proprietà privata fosse stata godibile da più persone contemporaneamente, essa non sarebbe esistita in quanto tale, ma sarebbe stata percepita come senza alcun problema cosa in ‘comune’. Poiché nel caso di oggetti materiali ciò non era evidentemente possibile, fu instaurato un regime convenzionale di regole che difendessero la proprietà ed il suo godimento nella pienezza del possesso. Questo tipo di argomentazione (la consistenza oggettiva delle cose) non garantisce egualmente la proprietà sull’opera d’ingegno e sull’opera d’arte. Difatti queste ultime sono tranquillamente fungibili da più persone contemporaneamente senza danno per alcuno. Il regime del diritto d’autore, concepito a soli fini economici (tanto è vero che è un regime a durata limitata), finisce così per impedire la libera concorrenza. Il copyright si trasforma in un vincolo capace di impedire la libera circolazione delle idee ed il loro miglioramento a fini di pubblica utilizzazione.

La tesi di Tucker, affascinante, non impedisce tuttavia di rilevare che un regime completamente libertario finirebbe col favorire la scomparsa del professionismo musicale, cosa auspicata da Fluxus e da alcuni suoi esponenti come altamente liberatoria,  i cui esiti sarebbero tuttavia da verificare (una nuova capillare diffusione della musica, oppure una rinnovata barbarie in cui prevale soltanto l’aspetto più ‘divulgativo’ della ricerca e della produzione?).

Per tornare allo specifico del plagio, ulteriori argomentazioni teoriche a favore della liberalizzazione del diritto di utilizzo dei materiali, principio senza il quale verrebbe a mancare una spiegazione convicente del fenomeno, sono sia filosofiche che tecniche e giuridiche. Joost Smiers riporta l’opinione di Jacques Soulillou secondo il quale «“La ragione per la quale è difficile produrre la prova di plagio nel campo dell’arte e della letteratura sta nel fatto che non basta soltanto dimostrare che B si è inspirato ad A, senza citare eventualmente le sue fonti, ma bisogna anche provare che A non si è ispirato a nessuno. Il plagio suppone infatti che la regressione di B verso A si esaurisca lì, perché si arrivasse a dimostrare che A si è inspirato, e per così dire ha plagiato un X che cronologicamente lo precede, la denuncia di A ne risulterebbe indebolita”». Smiers continua immaginando un caso tipico di plagio: «Immaginiamo che una persona copi il lavoro di un altro artista, asserisca che è suo e lo firmi. Se non c’è né rielaborazione, né commento culturale, né aggiunta, né traccia di creatività, si tratta evidentemente di un vero e proprio furto che merita di essere sanzionato. A questo punto, l’obiettivo dovrebbe essere la creazione di un nuovo sistema che garantisca agli artisti dei paesi occidentali e del terzo mondo redditi migliori, che si apra in modo ampio a un dibattito pubblico sul valore della creazione artistica, che si preoccupi del miglioramento del livello culturale del pubblico, che spezzi il monopolio delle industrie della cultura, le quali vivono sul sistema dei diritti d’autore». La tesi Soulillou/Smiers condurrebbe alla creazione di un sistema più equo che garantisca la possibilità di utilizzazione a fini creativi, sanzionando la contraffazione ma tutelando le debolezze di ‘singolarità selvagge’’ nei confronti delle major discografiche.

Dal punto di vista delle tecniche musicali, il problema del plagio potrebbe in fondo essere risolto abbastanza facilmente; basterebbe infatti compilare una sorta di ‘prontuario’ che utilizzando gli strumenti messi a disposizione dalle più evolute teorie d’analisi musicali consenta di individuare i cosiddetti ‘materiali oggettivi’ (e ‘comuni’) e di discriminare tra plagio tipico e artistico.

Come abbiamo visto, l’evoluzione dello stile, delle forme e dei generi musicali, se guardata al microscopio con gli strumenti dell’analisi, rivela una infinità di concordanze sospette, tanto da farci pensare che sia possibile individuare alcuni tratti e procedimenti comuni nell’uso delle melodie e delle armonie. Queste formule vengono sentite come un essere-in-comune, al quale accedere liberamente. Il problema giuridico potrebbe essere risolto proprio facendo ricorso al prontuario delle ‘figure musicali ripetute’, che apparterrebbero a tutti. L’elenco andrebbe a costituirsi, quindi, come termine di comparazione oggettiva.

Un contributo fondamentale e di indirizzo ad un eventuale lavoro del genere è stato offerto dai ricercatori della Stanford University che hanno pubblicato per il MIT un ponderoso studio sulle cosiddette “similarità melodiche”. Molte altre forme e figure vengono poi già considerate ‘libere’ da secoli, e cioè quelle che diventano modi identificativi di un genere o di una scuola, il Basso Albertino, il “Sospiro di Mannheim” (Diciottesimo secolo); e ancora: salti tematici frequenti (che individuano tipi di armonizzazione melodica); modulazioni convenzionali;  imitazioni e progressioni di scuola; formule cadenzali ...

Altre vie di fuga per un diritto di libera utilizzazione si creano grazie ad alcuni vuoti legislativi, oppure a causa di alcuni casi fortuiti che nascono dal rapporto tra diritti, laddove sia possibile gerarchizzarli. Alcune figure giuridiche che non individuano violazione ricorrono in caso di plagio involontario, quando quest’ultimo riguarda elementi tecnici dell’opera (passaggi obbligati) oppure elementi che appartengono al patrimonio intellettuale comune. Altro aspetto giuridico che offre una possibilità di libero utilizzo di frammenti musicali è di tipo squisitamente tecnico, e consiste nella protezione della proprietà intellettuale. Quest’ultima, a fronte di alcune direttive comunitarie sulla creazione e tutela di banche dati elettroniche non sembra potersi esaurire nell’ambito del diritto d’autore: «l’impressione che si ottiene scorrendo la direttiva è che la matrice concettuale originaria, che fa leva sul carattere reale della proprietà intellettuale, abbia definitivamente abdicato in favore di regole che si rifanno direttamente alla disciplina della concorrenza, dove rileva in via diretta la tutela dell’impresa ovvero dell’investimento economico realizzato in vista della produzione di beni o servizi» (F. Macario). Basterebbe estendere tale concetto, spogliarlo del carattere economicistico e rivestirlo di quello della gratuità per ottenere il libero veicolarsi delle informazioni, almeno di quelle in abstract o indicizzate.

Infine, la tecnica del campionamento (ed in generale tutte le nuove tecniche sorte grazie allo sviluppo dei mezzi elettronici) potrebbe offrire una ulteriore possibilità di liberalizzare i diritti collegati all’opera musicale, purché gli utilizzatori a fini creativi si dimostrino disponibili a rinunciare a parte della qualità audio (e generalmente lo sono, perché comunque i frammenti audio vengono poi generalmente resi irriconoscibili). Infatti, nel campionamento l’ampiezza del segnale, raccolta da un microfono, viene prelevata a determinati intervalli di tempo. Meno frequente è il ‘prelievo’, peggiore sarà la qualità del suono campionato. E’ del tutto evidente che sia i suoni a bassa qualità di campionamento che le musiche compresse attraverso algoritmi potrebbero sottostare a un regime giuridico differente, di maggiore libertà di utilizzo, in ragione della loro scarsa qualità. Si potrebbe arrivare a concepire un sistema misto, laddove per ragioni promozionali un autore o una casa discografica desiderassero promozionare un brano o una compilation, rendendo possibile l’uso e l’accesso a frammenti  in piena disponibilità di quanti vogliano manipolarli in modo creativo. Potrebbe essere un compromesso ragionevole, una soluzione al problema della pirateria ‘creativa’ e la naturale evoluzione del fenomeno del ‘plagio’.