MUSICHE REPLICANTI

 

Napoli 2005, Liguori Editore

 

 

 

NOTA

 

 

Nuove opere sono riuscite a sopravvivere e a proliferare in anfratti delle metropoli occidentali, tra pieghe del mercato, in quella porosità di senso come direzione che ormai felicemente caratterizza la nostra produzione. Idee come la contaminazione, il melting-pot, la libertà stilistica (e di formazione) del compositore (nozione ampliata ai Dj, ai Vj, agli jingle-maker, ai nuovi remixing), la funzionalità di opere con una qualità estetica svincolata dall’appartenenza di genere (classico-colto, popular-leggero…), sono state il frutto di una riflessione critica, di una ampia disseminazione giornalistica, di una divulgazione in rete o di prassi attivate con rassegne musicali e concerti innovativi.

Trasformazioni che hanno condotto ad una svolta, al passaggio epocale dall’estetica musicale del Novecento a quella dei giorni nostri, dalle musiche colte di derivazione ‘sperimentalistica’ alle musiche ‘replicanti’ e funzionali di oggi. 

Il volume raccoglie alcuni scritti pubblicati in questi anni di trasformazione, proponendoli in versioni rivedute e corrette, ma rispettose della cronologia di certe intuizioni. I temi vanno dalle ‘estetiche del plagio’ alle ‘musiche replicanti’, dal superamento della dodecafonia alle nuove tecnologie musicali. Studi di repertorio o di ricostruzione storica, e tuttavia già in grado di localizzare e de/territorializzare escludendo.

L’intento risponde ad una esigenza pratica: rendere reperibili questi lavori nella loro continuità di senso; offrirne una lettura non dissipata; esaudire le richieste di studenti, amici e semplici fruitori occasionali che da tempo ne asupicavano la pubblicazione unitaria.

 

Napoli, agosto 2004

 

 

INDICE

 

 

1. STORIA DI UN PLAGIO

(Napoli 1990)

 

2. UNA NUOVA RICERCA MUSICALE?

(Napoli 1991)

 

3. L’ESTETICA MUSICALE ITALIANA

(Napoli 1992)

 

4. IL CERCHIO SULLA LINEA

(Ischia 1993)

 

5. VERSO NUOVE COERENZE

(Napoli 1994)

 

6. MOLTE LINEE

(Napoli 1995)

 

7. ESTETICHE DEL PLAGIO

(Napoli 1995)

 

8. FINESTRE SUL MONDO

(Roma 1996)

 

9. JINGLE-MAKER ARTISTA IPERMEDIALE

(Roma 1996)

 

10. NON SOLO RANDOM

(Roma 1996)

 

11. IL BELLO DELLA COSA

(Napoli 1996)

 

12. IL POTERE, L’ARTE E LE TECNOLOGIE DEL SENSO

 (Napoli 1997)

 

13. IL SENSO DEL DISCORSO

(Napoli 1999)

 

14. MUSICHE PER OGNI CONSUMO

(Napoli 2000)

 

15. STORIA ESTETICA DEL PLAGIO MUSICALE

(Napoli 2002)

 

 

STORIA DI UN PLAGIO

L’INVENZIONE DELLA DODECAFONIA[1]

 

 

 

Uno strano epilogo

 

            Un epilogo conclude il Doctor Faustus di Thomas Mann, dove il Narratore descrive la fine «del compositore tedesco Adrian Leverkühn»: il discorso che allontana gli amici più cari, le lacrime sui tasti del pianoforte, le carezze alla partitura, l’ultimo abbraccio allo strumento, lo svenimento, la paralisi. La crisi progressiva di demenza lo avrebbe portato alla morte, immaginata da Mann il 25 agosto 1940, con un noto errore che fa venir meno la singolare corrispondenza di vita tra Adrian e Nietzsche[2].

            Subito dopo le parole di chiusura «un uomo solitario giunge le mani e invoca: Dio sia clemente alle vostre povere anime, o amico, o patria!»[3], stranamente si legge la seguente nota: «Non mi pare superfluo avvertire il lettore che il tipo di composizione esposta nel capitolo XXII e chiamato tecnica dodecafonica è, in realtà, proprietà spirituale di un compositore e teorico contemporaneo, Arnold Schönberg, e fu da me attribuito, in una determinata costruzione ideale, a un musicista di mia libera invenzione, al tragico protagonista di questo romanzo. In genere le parti tecnico-musicali del libro devono parecchi particolari alla teoria armonica di Schönberg»[4]. Una ulteriore nota di Roberto Fertonani, curatore italiano del Faustus, spiega la precisazione come richiesta da Schönberg per ottenere il pubblico riconoscimento da parte di Mann dei debiti e prestiti musicali dalla Harmonielehre; una nota aggiunta a partire dal quindicesimo migliaio. In seguito Thomas Mann effettuò alcuni tagli, tutti o quasi contenenti fantasie e disquisizioni musicali, dovuti, secondo Erika Mann, soltanto a considerazioni estetiche e non alle osservazioni critiche di Schönberg. W.V. Blomster rifiutò invece di esprimere il suo parere dando ad intendere che probabilmente le ragioni fossero altre, e rimandando alla polemica Mann-Schönberg oggetto di questo capitolo[5].

 

 

 

La «gloria futura» di Schönberg      

 

            Il dissidio viene raccontato da Thomas Mann in una serie di lettere, ed ha ad oggetto il risentimento di Schönberg nato dalla preoccupazione di veder salvaguardata la sua «gloria futura»: egli redasse un documento a nome di un certo Hugo Triebsamen nel quale si riproduceva una voce fantastica di una futura enciclopedia americana: in un futuro anno 1988, Mann sarebbe stato indicato quale vero inventore della dodecafonia, defraudato da un tale Schönberg, e ridottosi per questa ragione a fare il letterato fino alla pubblicazione del Doctor Faustus, del vero documento d’origine della dodecafonia.

            È il caso di ricordare, a questo punto, che sia la Harmonielehre che le Structural Funtions of Harmony non rappresentano una esposizione sistematica del metodo dodecafonico, in quanto soltanto negli ultimi capitoli si parla genericamente di suoni estranei all’armonia, o di «valutazione estetica degli accordi di sei e più suoni». Anche l’impostazione generale, l’impianto del manuale, presume una metodologia[6] che tende da un lato a valutare criticamente gli elementi del passato, dall’altro a proiettare quelle figure ritenute inusitate (non brutte o errate) nel futuro sviluppo della musica. Ecco, ad esempio, la sua valutazione del sistema temperato equale: «non si sarebbe mai dovuto dimenticare che il sistema temperato equale era solo un armistizio e che come tale non poteva durare più di quanto non l’imponesse l’imperfezione dei nostri strumenti; non si sarebbe dovuto dimenticare che avremmo avuto a che fare coi suoni ancora assai spesso, e che finché non ne avremmo risolti gli innati problemi non avremmo potuto lasciar requie né a loro né a noi; sì, nemmeno a noi, perché siamo noi quelli che cerchiamo, gli inquieti che non si stancano finché non hanno trovato. (...) Siamo (...) almeno certi che lo spirito irrequieto non cesserà di occuparsi di questi problemi finché non li avrà chiariti il più possibile»[7].

            Quest’ultima osservazione è interessante, perché notata anche da Mann, e citata in una lettera a Michael Mann, il ‘buon Bibi’: «l’espressione: “il calore animale della musica” è sua e io l’ho ‘inserita’ nel libro (...). Del resto anche lui non permette che la propria invenzione gl’impedisca di considerare la scala temperata un compromesso del tutto provvisorio (come fa anche Toch)»[8].

            Il Manuale di armonia non è dunque una esposizione teorica del metodo dodecafonico, che sarà compiuta nel 1941 in occasione di una conferenza, e pubblicata solo nel 1950, quando era già in corso la polemica con Mann: trattasi di poche pagine dedicate alla «composizione con dodici note». Una  ulteriore trattazione sarà di Josef Rifer, autorizzato da Schönberg a scrivere un manuale: Die Komposition mit Zwolf Tonen, pubblicato nel 1952 anch’esso dopo il dissidio unilaterale con l’autore del Doctor Faustus[9]: è evidente quindi l’urgenza e la natura della preoccupazione di Schönberg.

 

 

 

Favole furibonde

 

            Il presunto articolo di Triebsamen viene inviato a Thomas Mann, il quale rispone dando del visionario all’inglese, chiamando «favole furibonde» le allusioni alla presunta intenzione di diventare compositore[10]: «chi sia l’inventore della dodecafonia lo sa anche l’ultimo bambino negro (...). Perché, dunque, il signor Triebsamen finge di credere che io abbia voluto insidiosamente impancarmi a inventore di quel sistema? (...) Difficilmente uscirà una recensione del libro, in qualunque lingua essa sia, che (...) non citi il Suo nome. Per farlo c’è più di un motivo, e non solo quello dell’introduzione della dodecafonia. Perché Triebsamen non strepita anche per l’idea della trasformazione dell’orizzontale nel verticale, un ampliamento del concetto di possibilità armonica che deriva apertamente dalla sua teoria dell’armonia?[11] Non si è accorto che tutta la teoria musicale del libro è imbevuta di idee Sue, anzi, che per ‘musica’ vi s’intende sempre e soltanto la musica schönberghiana?»[12].

            Ma né la risposta, né l’invio dell’edizione tedesca con la dedica «al vero destinatario» sembrano placare Schönberg. Egli «pretende che in una nota finale si dichiari che la dodecafonia l’ha inventata lui, e non il Diavolo. (...) Bella gente siete, voi musicisti!»[13]. Così Mann matura la determinazione di accontentare l’autore del Pierrot, nonostante ritenesse del tutto inutile una nota esplicativa, tanto era ovvia la derivazione schönberghiana delle teorie musicali del libro. Egli fu convinto, in ultima analisi, dalla costatazione di Schönberg che «i contemporanei lo defraudavano di troppe cose perché lui non badasse almeno alla sua gloria futura»[14]. Mann, commosso da questa frase, dà disposizione che tutte le traduzioni, e appena possibile anche l’originale tedesco, riportino quella nota finale che in sostanza dice: «Dovete sapere (...) che in mezzo a voi vive un compositore e un filosofo musicale di nome Arnold Schönberg; è lui che in realtà ha inventato il metodo musicale dodecafonico, non l’eroe del mio romanzo»[15].

            Appena stampata l’edizione inglese con la famosa nota finale, Mann ne fa dono, con dedica, a Schönberg, il quale risponde (risulta in una delle lettere dello scambio, in cui Mann allude alla possibilità di rendere pubblica questa risposta) grato e soddisfatto: «Ero fermamente convinto che da Lei non potevo aspettarmi niente di meno che da me stesso e sono molto contento di veder ricompensata in tal modo la mia fiducia»[16].

 

 

 

Bordate di vendetta

 

            L’intricata vicenda sembrerebbe chiudersi qui, o quantomeno sarebbe lecito supporre che Mann ritenesse archiviato ogni contraddittorio, quando un articolo pubblicato a sorpresa da Schönberg sulla rivista londinese “Musical Survey” gli «piomba addosso come una bordata». Così infatti scrive ad Adorno: «ci crede che Schönberg ha sparato ancora una bordata contro il libro e Lei e me? (...) era un articolo talmente velenoso che il direttore lo ha definito, a mo’ di scusa una “testimonianza di carattere”. Tra le altre cose dice che tutti coloro che hanno peccato contro di lui sono finiti male, e di due signore che lo hanno fatto, una si è rotta la gamba e l’altra è stata colpita da non so quale calamità. Si stenta a crederlo. Ma io gli ho scritto di nuovo, dicendogli che se a tutti i costi voleva passare per mio nemico, non sarebbe più riuscito a fare di me un nemico suo»[17]. Schönberg concludeva l’articolo con una provocazione: il futuro avrebbe deciso quale dei due artisti sarebbe stato considerato contemporaneo dell’altro.

            La frase, di per sé offensiva, era condita dall’affermazione che la nota finale apposta a tutte le edizioni rappresentava né più né meno che un «gesto di vendetta». È qui che Mann dimostra di aver raggiunto un’età biblica, come scherzosamente gli dicevano: egli scrive una gentilissima lettera a Schönberg, scusandosi per non avergli ancora restituito la Harmonielhere, dichiarandosi ancora e per sempre amico del compositore. Ma, in un poscritto, con eleganza, dichiara: «se ora, sotto la gragnuola dei Suoi attacchi, dovessi trovarmi in una situazione sempre peggiore, potrei, ridotto all’ultima necessità, pubblicare la lettera ch’Ella mi scrisse il 15 ottobre 1948, dopo aver ricevuto l’edizione inglese del Doctor Faustus con la famosa nota finale, lettera in cui Lei mi ringrazia sentitamente di aver accontentato il Suo desiderio (...)»[18].

            Schönberg sembra messo alle strette, disarmato dal tono tranquillo e sereno della lettera, forse anche spaventato dalla minaccia di render pubblica la missiva in cui si era dichiarato soddisfatto. Tutto ciò lo avrebbe qualificato quantomeno  come un compositore dalle reazioni istintive e incontrollate.

In una lettera a Stuckenschmidt, autore di una biografia di Schönberg, Mann racconta il vero epilogo della querelle: «(...) alla mia lettera rispose che lo avevo rappacificato e ch’era ora di “seppellire l’ascia di guerra”. Solo che non desiderava dare pubblicità alla cosa, perché temeva di deludere coloro che, nella faccenda del Faustus, si erano schierati dalla sua parte. Non avrebbe tardato a venire una qualche ricorrenza solenne, ad esempio un 80° compleanno, in cui si sarebbe potuto rendere pubblica la nostra riconciliazione»[19].

            Com’è noto, la ricorrenza venne a mancare, e solo un ulteriore segnale di riconciliazione, il comune divieto di pubblicazione dello scambio di lettere alla “Saturday Reveew” concluse definitivamente la vicenda, in effetti con la vittoria di Mann, cioè della posizione moderata.

 

 

 

L’oggetto del contendere

 

            Ma quale fu, precisamente, l’oggetto della contesa? A parte i numerosi riferimenti musicali presenti ovunque nel volume, e quelli eliminati da Mann forse proprio in seguito alla polemica, con ogni probabilità doveva trattarsi dell’esposizione del sistema dodecafonico contenuta nel XXII capitolo. La vera e propria descrizione della tecnica dodecafonica è preceduta da divagazioni umanistico-teologiche tra il Narratore e Adrian, durante una passeggiata all’aperto, sotto gli aceri del Monte Sion. Thomas Mann descrive con incredibile precisione la lucidità degli occhi, il continuo dolore alla testa del compositore, riferisce le sue frasi come se provenissero da un uomo che si sdoppia. I due volti sono quelli del teologo e del musicista. Talora pronuncia frasi ‘gravi’, lontane dalla quotidianità, quando pare quasi che a mostrarsi sia una delle pieghe della verità. Un dèmone sembra allora percorrere la mente dandole una vasta capacità d’analisi, una lucidità insolita, un chiarore mistico. È questo un artificio descrittivo che inquadra e prepara l’aspetto demonico del procedimento compositivo basato sulla presenza di tutti e dodici i suoni in una «parola di dodici lettere», le quali formano una serie dalla quale tutta l’opera, in uno o più movimenti, deve derivare: «ogni tono dell’intera composizione dovrebbe mostrare, tanto dal punto di vista melodico che da quello armonico, il suo rapporto con questa predeterminante serie fondamentale. Nessuno dovrebbe ritornare prima che tutti gli altri siano apparsi; nessuno dovrebbe entrare in scena prima di aver compiuto la sua funzione di motivo nella costruzione totale»[20].

            Ecco così enunciate tre caratteristiche del sistema dodecafonico: presenza dei dodici suoni organizzati in una serie che costituisce il materiale musicale, grezzo, dal quale partire, proprio come un pittore che prepara i colori fondamentali sulla tavolozza; tutta la composizione ripresenta questa serie, che ne surroga la forma, plasmandola secondo forti linee di senso dal movimento obbligato; eguaglianza ed indifferenza tra melodia e armonia.

            Più avanti Adrian risponde all’obiezione del Narratore circa il ristagno e l’impoverimento della musica, che questa nuova tecnica necessariamente comporta, enunciando una ulteriore caratteristica del sistema: la variazione, che opera in modo tale da rendere meno noiosa la composizione: «(...) tutto ciò si potrebbe utilizzare per modificare in modo sensato le parole di dodici suoni, oltre che come serie fondamentale si potrebbe servirsene per sostituire a ciascuno dei suoi intervalli quello che ha la direzione contraria. Oltre a ciò si potrebbe incominciare la figura con l’ultimo suono e concluderla col primo, e capovolgere poi anche questa forma. Eccoti quattro modi, che a loro volta si possono trasportare su tutti i dodici diversi suoni iniziali della scala cromatica, di modo che la composizione può disporre di quarantotto forme diverse e di tutte le possibili variazioni»[21].

            È impressionante constatare come queste idee siano presenti quasi nella stessa formulazione (vi è la differenza dello stile del letterato) in Filosofia della musica moderna di Adorno, il cui saggio su Schönberg fu studiato su manoscritto da Mann. D’altronde, il debito era stato ampiamente riconosciuto dallo scrittore nella Genesi del Doctor Faustus, dove si dichiara che tutto il capitolo XXII era stato scritto sulla base di osservazioni di Adorno, in particolare su quelle contenute nel saggio su Schönberg: «lo scritto (...) espone (...) la fatalità che fa ricadere nella tenebra e nella mitologia l’illuminazione costruttiva e oggettivamente necessaria della musica (...)»[22].

            A parte le tre caratteristiche salienti, che pure è possibile leggere in Adorno, è interessante riscontrare l’idea di variazione, che diventa tutto e nulla nel sistema dodecafonico, perché sostituisce la dinamica (percorso di senso) compositiva. Essa si trova quasi incorporata già nel materiale stesso, preformandolo «prima che incominci la composizione propriamente detta»[23]. Segue quasi con le stesse parole l’esposizione sull’uso della variazione con la seria rovesciata, retrograda e rovescia del retrogrado, col relativo trasporto sui suoni della scala cromatica e la conclusione che «la serie è disponibile per una composizione in quarantotto forme diverse».

            Ma di maggior interesse è il punto relativo all’indifferenza tra melodia e armonia, che consente di riportare il discorso sulla orizzontalità e verticalità della musica di Adrian-Schönberg[24].

            Nel romanzo, la questione dell’orizzontalità e verticalità della musica ricorre più volte. Il punto più interessante è il seguente: «Adrian s’impegnava specialmente nel problema dell’unità, della scambiabilità, dell’identità fra la linea orizzontale e quella verticale. Molto presto acquistò una (...) paurosa abilità nell’inventare linee melodiche, le cui note potevano essere sovrapposte, rese simultanee, ripiegate in armonie complesse - e viceversa nel fissare accordi di molte note che si potevano scomporre in armonie orizzontali»[25].

            Più avanti si trova un accenno al problema dell’accordo e del collegamento fra più accordi: «m’illustrava la trasformazione dell’intervallo in accordo, che lo interessava più di qualunque altra cosa, il passaggio dunque dall’orizzontale al verticale, dalla successione alla simultaneità. (...) La scala non è altro che la scomposizione analitica del suono nella serie orizzontale»[26]: è la cosiddetta complementarietà tra gli accordi, che avrebbe dovuto sostituire l’armonia.
            Ma se nelle intenzioni di Schönberg, come in quelle di Adrian, «l’accordo vuol essere continuato, e appena lo risolvi in un altro, ciascuna delle sue componenti diventa una voce»[27], Adorno già critica questo rapporto complementare, definendolo un raro caso[28], qualcosa che obbedisce a mere regole combinatorie. Adorno individua nel primo tempo del terzo quartetto per archi il principio dell’ostinato, che avrebbe l’espressa funzione di «stabilire un nesso che tra accordo e accordo non esiste più, e praticamente nemmeno nell’accordo singolo»[29]. Questa osservazione è importante, perché la paralisi del rapporto complementare quale legge armonica nasce proprio dall’indifferenza tra elementi orizzontali e verticali. La conclusione di Adorno è che «manca l’attrazione reciproca tra i suoni», lacuna che lascia dietro di sé soltanto «la loro monadica mancanza di relazioni e l’autorità  pianificatrice che li domina tutti». Ne consegue, come si era anticipato, che l’«unico risultato possibile (è) il caso»[30].

            L’elemento argomentativo che in Adorno motiva la qualificazione di ‘noia’ è presente in Mann, ma in uno dei frammenti espunti dal libro dopo la polemica: «alla polifonia, ai mezzi del contrappunto si faceva ricorso per conferire una superiore dignità alle voci medie che, com’è noto, nel sistema del basso obbligato sono soltanto empitivo, soltanto accordi concomitanti»[31].

            Anche lo stesso Schönberg si era occupato del problema della casualità nella sua Harmonielehre, a proposito dei suoni impropriamente definiti «estranei all’armonia». Qui, in sostanza, si procede alla dimostrazione che un evento casuale può essere perfettamente logico, e che pertanto «un fenomeno può essere o meno attribuito al caso solo secondo i punti di vista».[32]

            Ulteriori corrispondenze sembrano risuonare in un unico accordo formato da suoni reciprocamente allusivi, in cui quasi non si riesce a riconoscere l’originale dal suo doppio. Alcune frasi, determinati concetti, vengono interiorizzati dallo scrittore e riproposti, come da esplicita ammissione, come se gli appartenessero: un processo di introiezione creativa che media nella genialità descrittiva i contenuti tecnici e filosofici presenti in Schönberg e Adorno. Un primo esempio è nella concezione di un «Bach armonista», idea presente originariamente in Adorno, e ripresa da Mann nella Genesi del Doctor Faustus. Adorno: «In Bach è la tonalità che risponde alla domanda come sia possibile una polifonia anche armonica (e per questo Bach è di fatto un ‘armonista’ come Goethe lo giudicava)»[33]. Mann: «Una sera, in casa Adorno (...) parlai di parecchie cose ‘inerenti’ e per me stimolanti: dell’inferiorità della musica omofona di fronte al contrappunto di Bach ‘armonico’ (come lo aveva definito Goethe)»[34]. E, ancora, sulla descrizione dell’accordo dissonante[35] che riprende quella schönberghiana; sulla nozione di contrappunto; sui diversi elementi della musica sviluppati indipendentemente l’uno dall’altro; nei frammenti espunti dal Doctor Faustus[36] e che si ritrovano nel Manuale di armonia di Schönberg, ad esempio sul suono che «è stato misurato solo in una di queste dimensioni in cui si estende (...). Trascurabili i tentativi fatti di misurare le altre dimensioni»[37]; nella definizione della dodecafonia come un sistema che dovrebbe «accogliere tutte le tecniche della variazione»[38], quando in Adorno si ritrova: «la variazione diventa totale»[39].

 

 

 

Intrecci ulteriori

 

            Altra singolare corrispondenza è la trasposizione nel romanzo del Trio per archi op. 45 di Schönberg, inserito nell’ultima produzione di Adrian; egli è ammalato, presto giungerà la follia, e con la Lamentatio Doctoris Fausti rappresenta la lucidità dell’accaduto e il persistente rifiuto della salvezza, nella fedeltà al patto: «A chi abbia doti eccezionali si presenta il problema di mantenersi ancora entro i limiti dell’eseguibile, anche quando sia sempre più viziato e nauseato»[40].

            È evidente il riferimento alla difficoltà tecnica della scrittura nel Trio di Schönberg, di cui lo scrittore riferisce anche nel ‘romanzo di un romanzo’: «in quei giorni è ricordato e desidero che anche qui sia ricordato un incontro con Schönberg, il quale mi parlò del suo nuovo Trio appena compiuto (...). L’esecuzione sarebbe estremamente difficile, anzi quasi impossibile o possibile soltanto per tre suonatori di grado eccezionale, ma d’altro canto molto grata in virtù di straordinari effetti sonori. La combinazione “impossibile ma grata” entrò nel capitolo della musica da camera di Leverkühn»[41].

            Oltre all’inesauribile serie di tracciati che questa combinazione (“impossibile ma grata”) potrebbe aprire, Mann dovette subire il fascino dell’ineseguibile che riesce, ciononostante, ad essere pensato, fissato su carta e misteriosamente suonato grazie a tre strumentisti dalle eccezionali capacità. La ineseguibilità sarebbe così soltanto relativa alle capacità tecniche e musicali degli esecutori, cosa che corrisponde perfettamente alle idee di Schönberg sull’evoluzione del gusto, della tecnica e quindi della stessa concezione dell’arte: «Venne poi il Trio per violino, viola e violoncello che, quasi ineseguibile può essere dominato tecnicamente solo da tre virtuosi e sbalordisce per il suo furore costruttivo, per lo sforzo cerebrale che rappresenta e per l’inaspettata mescolanza di sonorità imposte ai tre strumenti da un orecchio desideroso dell’inaudito e da una fantasia combinatrice senza pari. “Impossibile, ma di effetto” definì Adrian in un momento di buon umore questo pezzo (...). Era un intreccio esuberante d’ispirazioni, postulati, realizzazioni e inviti a dominare nuovi compiti, un tumulto di problemi che prorompevano insieme con le loro soluzioni. “Una notte” disse Adrian “nella quale a furia di lampi non fa mai buio”»[42].

            Similmente, e l’analogia è evidente, Mann descrive la Lamentatio riferendosi ancora al tema della notte, della parola e del suono che si spegne in lontananza: «(...) quello che rimane è soltanto il sol sopra il rigo (...), l’ultima parola, l’ultimo suono svanente (...). Ma il suono che ancora vibra nel silenzio, quel suono svanito che soltanto l’anima ancora ascolta, ed era la fine della tristezza, ora non lo è più, muta di significato, è quasi un lume nella notte»[43].

            Altrove, proprio collegato alla parola (nell’Apocalisse, altra opera di Adrian), si descrive l’applicazione del glissato alla voce umana, glissato ben presente e che suggerisce anche nel trio la «liberazione dell’urlo allo stato primordiale»[44].

            Naturalmente, la descrizione del Trio op. 45 è presente già in Adorno, che riferendosi all’opera ne mette in risalto l’inconsistenza che «si tocca con mano»[45]. Schönberg padroneggia questa materia dalla difficile lettura dandole un ordine, contenendola in una forma. E Mann, sempre nella pagina dedicata all’Apocalisse, si sofferma sul concetto di ‘ordine’ che è «l’ovvio presupposto e la prima manifestazione di ciò che intendiamo per musica»[46]. E, nel capitolo che espone il metodo dodecafonico, Adrian nel discuere col Narratore si dichiara «legato dalla voluta costrizione all’ordine: dunque libero».

            L’idea di ‘ordine’ è riscontrabile anche nella Harmonielehre: «l’ordine che noi chiamiamo forma artistica non è fine a sé stesso, ma un necessario espediente, giustificato in quanto tale, da respingere però quando si dà per più di quel che è, cioè come un’estetica. Con questo non si vuol dire che a un’opera d’arte debbano mai mancare l’ordine, la chiarezza e la comprensibilità, ma che non meritano il nome di ordine solo quelle qualità che noi percepiamo come tali, perché la natura è bella anche quando non la comprendiamo e quando ci appare non ordinata»[47].

 

 

 

Conclusioni

 

Alcune importanti conseguenze possono trarsi da tutto quanto fin qui esposto. La più importante è che la coincidenza ‘Entropia/morte dell’arte = Schönberg’ può essere ricondotta alle vere idee di Schönberg soltanto fino a un certo punto. Quest’ultimo, difatti, nel Manuale di armonia introduce spesso brevi considerazioni che possono chiarire la sua vera idea sull’evoluzione della musica: «(...) poiché l’orecchio ha dimostrato di essere così sensibile nei riguardi di un problema che si presenta negli armonici di un accordo, si può ben sperare che non farà cilecca nemmeno nell’ulteriore evoluzione della musica, anche se essa segue una strada di cui gli esteti prevedono già oggi che condurrà alla fine dell’arte»[48]. Ed altrove, quasi proseguendo e concludendo il pensiero: «ma per chi guarda lontano anche questo non sarà la fine: egli sa che ogni materiale può essere oggetto d’arte, purché sia tanto cristallino da poter essere trattato in corrispondenza alla sua presunta natura, ma non tanto da non lasciar spazio alla fantasia in zone ancora inesplorate, che le permetteranno di mettersi in contatto misticamente con l’universo. E poiché ci resta la speranza che il mondo per il nostro intelletto sarà un enigma ancora per un pezzo, la fine dell’arte non è ancora giunta (...)»[49]. Particolare rilievo ha avuto, nella musica successiva, l’effettiva possibilità di utilizzare qualsiasi materiale, dandogli piena dignità per la costituzione dell’opera.

            Così può affermarsi che l’idea di un procedimento compositivo vicino all’ideale dell’entropia totale in arte, o almeno all’utilizzazione di questa idea a fini estetici[50], è più vicina alla visione di Thomas Mann che a quella di Schönberg. E quindi risiede originariamente, come si è dimostrato fin qui, nel modello teorico utilizzato da Mann, vale a dire nell’opera di Adorno. Lì appunto ricorre spessissimo la nozione di ‘entropia’, talora collegata confusamente con quella  della fine dell’arte[51]. Per Schönberg il bello ha un certo rilievo, almeno come punto d’arrivo, o come categoria inventata dai fruitori, ai quali è però necessaria[52]. Adorno scrive invece che la nuova musica «ha preso su di sé tutta la tenebra e la colpa del mondo», che «tutta la sua felicità sta nel riconoscere l’infelicità, tutta la sua bellezza nel sottrarsi all’apparenza del bello»[53]; essa è specchio del disordine sociale, ed in ciò pur sempre capace di superare i confini di una realtà dalla sofferente imperfezione: giunge quasi al dissolvimento formale, nella misura in cui questa forma impedisce all’arte di essere gnoseologia, perché capace di annullare la possibilità di contraddizione[54]. Per Adorno la riluttanza di Schönberg nel concludere opere grandiose è da ascriversi alla sua tendenza distruttiva, alla sua «sfiducia inconscia ma profondamente operante nella possibilità di capolavori oggi (...)»[55].

            Tutti questi aspetti sembrano confermare che Adorno ha accentuato ed esasperato alcune caratteristiche della musica e della teoria di Schönberg; e che tale esasperazione è poi confluita nel capolavoro di Thomas Mann, il quale conferisce al personaggio Leverkühn la glacialità che gli è propria: « “Freddo” disse Adrian accennando co; capo “è troppo freddo ora per fare il baglo. Freddo” ripeté dopo un istante, con un brivido visibile, e riprese il cammino»[56]. Ed ecco Adorno: «Chi si lascia sfuggire la conoscenza dell’aumento dell’orrore, non ricade soltanto nella gelida contemplazione, ma si vieta di cogliere, con la differenza del nuovo rispetto al precedente, anche la vera identità del tutto, del terrore senza fine»[57]. Il nostro bersaglio estetico, quindi, non può che essere Adorno, nelle sue affermazioni più estreme.

 

 

UNA NUOVA RICERCA MUSICALE?

 

 

            La domanda, forse provocatoria, non è priva di riferimenti metodologici: ha ancora senso parlare di ‘ricerca’ musicale? E, soprattutto, questo interrogativo può prescindere da  considerazioni generali sull’estetica? 

            Per definizione l’estetica dovrebbe relazionarsi alla distinzione tra il bello e il brutto, e poi alla separazione tra il bello naturale e quello riprodotto dall’uomo[58]. La stessa etimologia del termine ‘arte’ ricondurrebbe all’idea dell’artificio costruttivo, che sottintende una volizione e un progetto. Anche la nozione di una Scienza dell’arte, che può riferirsi a forme come la bellezza naturale, risentirebbe di questa contaminazione etimologica, risultando infine incapace di comprendere certe forme aperte dell’arte contemporanea, come l’alea e  l’opera casuale per progetto o per natura.

            Non resterà allora che immaginare un uso esteso della parola ‘estetica’, che si riferisca a campi di possibilità, e a percorsi ludici (e senza pretese) del dire, nell’ambito di insiemi che, almeno, siano capaci dell’ «uscita da sé». Se poi questo uscire dal sistema corrisponda o meno ad una qualificazione (ad esempio alla Bellezza) sarà cosa da dimostrare. Così, sarebbe ancora lecito discutere d’arte, e nelle due accezioni tradizionali dell’estetica. Avrà senso parlarne perché oggi la dimensione estetica sembra prevalente (qui quasi un’etica dell’estetica, altra dalla morale): e il discorso sull’arte è un ‘detto’ da interpretare; avrà poi ancora senso parlarne in relazione alla qualità, per la stessa paradossale impossibilità di individuare le caratteristiche che rendono tale la qualità: il percorso estetico sarà possibilistico e ludico, vicino esso stesso all’arte, forse unica  residua  redenzione anche per la critica.

            Oggi  sembra prevalere l’indifferenza gerarchica tra le opere: opere senza qualità perché come Ulrich, l’uomo senza qualità di Musil,  sono «equidistanti da tutte le qualità,  e tutte   sono loro stranamente indifferenti»[59]. Corollari di questo dato di fatto:

            1- che anche gli oggetti prodotti casualmente sono opere d’arte,  comprendendo la volizione iniziale del compositore (Cage), o non comprendendo alcuna volizione  (ne è esempio  letterario la biblioteca immaginaria di Borges) ;     

            2-  le  partizioni in generi non hanno più rilievo[60];

            3- all’interno di uno stesso genere  è indifferente  attribuire ad un’opera  un  giudizio di valore relazionale (una relazione è possibile dare soltanto per quantità differenti, non per qualità).

            Ma ciò conduce ad uno schematismo trascendentale, dove l’unica realtà interessante è la struttura. Ogni opera finisce con l’ avere una  giustificazione nel suo mero collocarsi. Vige lo specialismo, l’alessandrinismo musicale, il mero ‘far catalogo’. L’opera è per altro.

            Ma l’indifferenza gerarchica non importa l’assenza di una gerarchia, quanto semplicemente la designificazione qualitativa dell’opera. Essa mantiene intatte le sue caratteristiche interne (ad esempio, in relazione all’aggregazione di eventi successivi) di minore o maggiore complessità, in funzione delle quali può continuarsi a parlare di gerarchia, ma questa complessità non si trasforma in una discriminante in base alla quale operare un giudizio di valore[61].  Una qualità ci pare possibile soltanto se resa equivalente alla capacità dell’opera di ‘uscire dal sistema’.

            Se è semplicistico affermare che la musica oggi possa  trasmettere emozioni o essere espressiva tout  court  ciò non significa che essa non possa anche essere espressiva, quando questo assunto riesce  a dare una qualsiasi logica all’atto del ‘compositore che si pone  come tale’. Questa evidenza dello status quo non conduce naturalmente all’assoluzione dello sperimentalismo, che trova la sua giustificazione storica nell’esaurimento della nozione di ‘novità’, ma alla riappropriazione della colliceità di ogni esprit: qualsiasi opera può anche essere espressiva, nonostante lo sperimentalismo. Ed è appena il caso di prendere le distanze da posizioni decadenti o neoromantiche[62], che sviluppano diversi presupposti: qui si tratterebbe di negare una già accaduta mediazione.

            L’indifferenzialità tra le opere interagisce con lo specialismo esecutivo: slegato completamente dalla produzione di mercato, dal pubblico e dagli interpreti, il compositore è privo di stimoli esterni, si distacca quindi dalle reali possibilità strumentali, e tale mancata verifica rischia di condurlo  verso un crescente intellettualismo costruttivo. Le carenze istituzionali, il fatto innegabile che nei conservatori si insegni soltanto la storia di ‘una’ delle composizioni, conduce molti alla sensazione della  privazione di un linguaggio personale, perché nelle mani si è acquisito un mestiere indotto e dal percorso obbligato.             Laddove quindi non ci si senta legati, o se ne sia già esaurito l’apprendistato, alle scuole di storia della composizione -le quali nel migliore dei casi si arrestano, nell’acquisizione del metodo, al cromatismo malheriano- o ad una delle scuole dell’ avanguardia storica[63], si constaterà l’esclusione dal mercato delle esecuzioni pubbliche e delle pubblicazioni. E, soprattutto, si affermerà l’indipendenza della propria voce, l’eclettismo compositivo, la situazionalità della propria produzione.

            Su questo tema, un recente contributo di Michele Dall’Ongaro ha delineato con sufficiente chiarezza quali relazioni intercorrano tra il mondo dell’editoria musicale e quello dei diritti d’autore,  collegati ai passaggi radiofonici ed alle esecuzioni; vi si riferisce, tra l’altro, delle conclusioni dei compositori italiani presenti alla tavola rotonda «La Musa Incantata», organizzata dalla Federazione degli autori, sostanzialmente confluenti nel denunciare le carenze del mercato editoriale e nel condannare i meccanismi che lo muovono[64].

            Confrontando i dati di diverse ricerche sul campo[65], oltre alle già esposte tematiche, si potrà verificare che i compositori che hanno appena terminato gli studi restano in genere inseriti in un circuito di associazioni-satellite ancora legate alle scuole locali; essi tenderanno a ricercare un  macrosistema che simuli quello appena abbandonato: un «sistema del comporre»; così si spiegherebbe il successo di posizioni strutturaliste di matrice bouleziana, e quello eclatante di Donatoni e di Clementi. Molti giovani diplomati si trasformano a lungo in epigoni di chi pare in grado di perpetrare la logica tradizionale del ‘mettere insieme’, anche laddove questa compilazione dovesse sembrare apparentemente destrutturante.

            La situazione sembra ancor più grave nei luoghi maggiormente decentrati, e nel  meridione, dove predominano le scuole con una forte valenza meramente didattica, quelle cioè ‘istituzionalmente’ reazionarie. Soltanto una tra le possibili forme del comporre viene analizzata e studiata, e sovente i manuali di riferimento sono inadeguati e non aggiornati.

            Una connotazione di  grande staticità permane anche in centri importanti come Napoli, e viene già rilevata da tutti i compositori promotori di “Avanguardia e ricerca musicale a Napoli negli anni ‘70”, una delle prime manifestazioni aperte, almeno progettualmente, all’Europa. Luciano Cilio è la personalità emergente, la più interessante del gruppo: dopo la sua scomparsa si ricadrà nell’immobilismo, ed il suo spazio (Villa Pignatelli) sarà utilizzato ancora per qualche tempo per la produzione di rassegne di musica contemporanea, questa volta però riferite alle avanguardie storiche,  avulse dalla realtà locale. La ricerca musicale per Cilio si concretizza inizialmente nell’attenzione per i procedimenti aleatori. Poi (è il 1971) nel lavoro attorno alla Klangfarbenmelodie, e più precisamente nello studio della materia musicale che viene scolpita e usata attraverso dei «piani sequenza che sono dovuti alle masse timbriche»[66], non ai singoli strumenti o al loro mero accostamento. Infine il lavoro sulla complessità semiografica. Tuttavia, l’aspetto che qui più interessa è l’attenzione di Cilio per il suono, che viene usato in modo molto vicino ad una accezione ‘interna’ («... rientrare nel suono, tenerlo, tenerlo... poi lasciarlo andare...»[67]). Qui, Cilio sembra vicinissimo a Giacinto Scelsi, il compositore oggi forse più noto all’estero assieme a Luciano Berio. Un contributo di Zoltan Pesko sulla rivista portavoce dell’ IRCAM  rivaluta le ricerche del compositore italiano, dopo la polemica sulla reale paternità delle sue composizioni, ed apre una nuova luce anche sulle musiche di Cilio.

            Da una ricognizione effettuata attraverso una serie di interviste, il malessere per l’assenza di strutture veicolanti, per la continua promozione di sound folklorico, di ritmi sudafricani, etc, risulta ancora ben vivo tra il 1984 e il 1985, e viene registrato propriamente come ‘assenza di avanguardia’, anche in relazione alla mancanza di interpreti specializzati. Paradossalmente, e specie per la musica contemporanea, non si dà interpretazione se non vi è cambiamento del segno. La mera riproduzione, aliena da ogni reinvenzione, è morte della mediazione esecutiva, e non conduce al predominio dell’idea del compositore, ma alla mera affermazione  cartacea del simbolo.

            La recente situazione della musica elettronica è, se possibile, ancor più devastata. Dopo l’autoisolamento di Antonio De Santis,  originariamente collaboratore dell’IRCAM e meridionale d’adozione, poco o nulla è stato fatto, se si esclude il progetto animato nel 1986 da Giorgio Nottoli e dal Centro di Informatica musicale Suono e Immagine. Naufragata poi a causa dell’inerzia delle istituzioni competenti, l’idea ha partorito una sola, ma significativa, rassegna di musica elettronica, su nastro e in tempo reale.

            Si è constatata, dunque, la chiusura dello scenario italiano. Ma questa chiusura verso l’interno può costituire contemporaneamente anche la forza del compositore venturo. ‘Ricerca musicale’ è oggi sinonimo di riappropriazione di un linguaggio personale[68], al di là degli strumenti. Pare che nessun compositore voglia rassegnarsi al presunto decesso dell’arte[69], e questo dato va letto ancora una volta nel senso della designificazione  dello sperimentalismo, di quello fine a se stesso. Le voci, diverse per portato culturale e per itinerario di formazione, hanno in comune, ancora, l’esigenza di fondare le  opere su entità formanti piuttosto che formali, su un processo che osserva il suono interno piuttosto che l’organizzazione; c’è nuova attenzione per il contenuto. Si procede, insomma, almeno nei desiderata, all’esorcizzazione della struttura. Ciò può significare che la forma, ultimo baluardo eretto da Schönberg a contenente del materiale sonoro, poi estremizzata dal rigorismo bouleziano[70], può essere prevalentemente trascurata nel processo di creazione. L’opera sembra attendere una vivificazione da stati che non sono estranei alla più intima delle elaborazioni. Si indebolisce, così, la sequenzialità discorsiva della musica occidentale, si superano forse anche i procedimenti cageani, e ci si avvia verso una musica che osserva lo specifico del suono all’interno del suono stesso: spettrale in senso fisico, ma spettrale anche perché intangibile e informale: una musica che si adagia sul pensiero[71].

            Non a caso uno dei tentativi di sistemazione filosofica del fenomeno musicale ha sentito l’esigenza di confrontarsi con le teorie di Marius Schneider sull’origine del significato della musica, pur ignorandone il retroterra tradizionale, arrivando a teorizzare che un significato originale della musica è per sè stesso perduto[72], tesi che non possiamo condividere. Alla luce dei dati raccolti, e qui soltanto sommariamente esposti, si può invece rilevare che esistono segnali di un movimento verso una musica in grado di riacquistare un significato  tale da essere sentito come originale: non perdita, quindi,  ma  smarrimento. L’auspicio dei compositori: una inversione di natura sintropica.

 

 

L’ESTETICA MUSICALE ITALIANA

 

 

 

 

Musica e intuizioni

 

            Per Croce l’arte è attività spirituale fondata sull’intuizione, di cui sembrerebbero sussistere due livelli. Il primo è quello della pura intuizione, dove essa appare come «unità indifferenziata della percezione del reale e della semplice immagine del possibile» [73].  Questo farebbe pensare all’intuizione come ad uno stato in cui, nella sua generale purezza, non ha alcun senso la distinzione tra ciò che è reale e ciò che non lo è, perché «dove tutto è reale, niente è reale»[74]. Nell’ istante in cui si contempla un quadro, si legge un racconto o si ascolta un brano di musica occorre un atto «riflessivo e interruttivo» della contemplazione, della lettura e dell’ascolto per ricongiungersi alle categorie di spazio e tempo, che altrimenti, senza momento di  ‘estraneazione’, non opererebbero spontaneamente. Spazio e tempo risultano, cioè, complicate «costruzioni intellettuali» esterne all’intuizione.

            Il rapporto con la realtà, o con il limite inferiore di questa intuizione viene indicato  nell’ esistenza della materia come  «di fuori» che durante il processo della conoscenza viene incanalato in  forme. La forma concreta delle cose è infine il risultato del trionfo della forma sulla materia. Per questa ragione può intendersi come l’attività spirituale sia forma capace di confrontarsi con la materia e come, cosa molto importante, la materia resti, in Croce, un punto d’appoggio non eliminabile e non sostituibile per definire l’intuizione di una forma d’arte, cioè di un’opera d’arte formata. Questa materia da sola non basta a consegnare la qualifica di «bello», dal momento che il bello fisico non precede, ma segue il bello estetico; l’artista, il pittore che dipinge, non «dà mai pennellata senza prima averla vista con la fantasia», ma, rilievo qui molto utile per quanto seguirà, «se non l’ha vista ancora, la darà non per estrinsecare la sua espressione (che in quel momento non esiste), ma quasi a prova e per avere un semplice punto di appoggio all’ulteriore meditazione e concentrazione interna»[75].

            Evidentemente, per l’idealista l’interesse verso il contenuto non può che essere limitato. Il contenuto (la materia) all’inizio non ha qualità, ma solo aggregazioni di quantità. La qualità, che trasforma la materia in contenuto estetico, cioè nella materia di un’opera d’arte, acquista qualità soltanto quando noi lo conosciamo, cioè quando, attraverso l’espressione, se ne è costituita una forma. Per questa ragione «l’atto estetico è forma»[76] e si può conoscere intuitivamente solo attraverso l’intervento di una forma espressiva.

            Sembrerebbe qui aggiungersi una ulteriore variante, come la qualifica Croce,  alla verbalizzazione dei caratteri dell’ intuizione: vera intuizione è quella capace di esprimere, rappresentare, formare. 

            La musica è esempio privilegiato rispetto alle altre arti, utile a smascherare l’illusione di una intuizione che venga a patti con l’abilità meccanica e meramente tecnica dell’artista. Questa illusione, secondo Croce, si costituisce meno facilmente per le espressioni musicali, perché « a ognuno parrebbe strano il dire che a un motivo, il quale è già nell’animo di chi non è compositore, il compositore aggiunga o appiccichi le note; quasi che l’intuizione di Beethoven non fosse, per esempio, la sua Nona sinfonia e la sua Nona sinfonia la sua intuizione»[77].

            Oggetto dell’estetica è propriamente questa conoscenza intuitiva-espressiva, perché l’opera d’arte non può costituirsi che attraverso una forma; e si intuisce veramente quando si è in grado di attribuire una forma alla nostra intuizione. L’abilità tecnica è quindi meramente riproduttiva.

            Questa  duplicità del concetto di intuizione, che sembra sfuggire all’analisi dell’estetica di Croce tentata da Umberto Eco[78], pare riaffermata da Croce quando si occupa della differenza tra un pensiero comunicabile e uno poco comunicabile, anche se quest’ultimo viene presentato ancora come espressione: «(...) talora noi abbiamo pensieri in una forma intuitiva, la quale è un’espressione abbreviata o meglio peculiare, bastevole a noi, ma non sufficiente a comunicarli con facilità a un’altra persona determinata o a più altre persone determinate. Onde inesattamente si dice che abbiamo il pensiero e non l’espressione; quando propriamente  si dovrebbe dire che abbiamo, sì, l’espressione, ma un’espressione che non è ancora facilmente comunicabile. Il che è, per altro, un fatto assai mutevole e relativo: vi ha sempre chi coglie a volo il nostro pensiero, e lo preferisce in quella forma abbreviata, e s’infastidirebbe dell’altra più sviluppata gradita ad altri. In altri termini, il pensiero, logicamente e astrattamente considerato, sarà a un dipresso il medesimo, ma esteticamente si tratta di due intuizioni o espressioni diverse, in ciascuna delle quali entrano elementi psichici diversi»[79]. Un percorso aperto è nell’ipotesi di un’espressione che,  essendo bastevole a noi soltanto, tanto da non riuscire ad essere comunicabile,  si trasforma in qualcosa di molto simile all’intuizione pura, quella che sembra quasi sottrarsi alla contemplazione dello spirito per sfiorare l’oscurità dell’anima: se «sentimenti e impressioni passano, per virtù della parola, dall’oscura regione della psiche alla chiarezza dello spirito contemplatore»[80] come consegnare all’espressione un’intuizione non facilmente comunicabile, o non comunicabile, al punto da potersi annotare soltanto in forma abbreviata? È un tema di grande interesse, che ci ha occupato anche in altrei lavori. Croce arriva ad intuire l’esistenza di una zona in cui l’intuizione è poco comunicabile, e appartiene ad una qualità psichica empirica ma personale. Il gradino successivo, decisamente negato, ma previsto da Croce, è quello di un’intuizione che, prescindendo dall’espressione sia tuttavia in grado di raggiungere un significato estetico, come ad esempio attraverso la mistica contemplazione di una bellezza accessibile e tuttavia incomunicabile. La resa, su questo punto, sembra accettata: se per estetica della bellezza pura «si intende qualcosa di mistico o di trascendente (...) ma non già espressivo; dobbiamo rispondere che, plaudendo al concetto di una bellezza, pura di tutto ciò che non sia la forma spirituale dell’espressione, non sapremmo concepire una bellezza superiore a questa»[81].

 

 

 

Influenze e reazioni

 

            Dal punto di vista dell’estetica musicale, fu grazie all’influenza crociana se la reazione  alla Musikwissenschaft fu in Italia così pronta ed esauriente. Difatti, anche se Croce si interessò soltanto sporadicamente alla musica nella sua specificità, molti fecero capo alla sua metodologia per sviluppare in modo anche originale certe implicazioni musicali.

            Fausto Torrefranca ne La vita musicale dello spirito  deve molto a Croce, dal momento che sembra condividere la concezione dell’arte come momento intuitivo dello spirito, assegnando tuttavia alla musica una priorità spirituale dovuta ad un maggior grado di solvibilità e ineffabilità. Anche per Torrefranca la tecnica, sempre mediatrice dell’intuizione pura, è estranea all’interiorità dell’accadimento estetico[82].

            Alfredo Parente porrà invece l’accento sull’altro tema crociano, quello della profonda unità delle arti. Per Croce, come è noto, «le arti non hanno limiti estetici, giacché, per averli, dovrebbero avere anche esistenza estetica nella loro particolarità»[83]. Le partizioni tentate da alcuni hanno genesi empirica e, di conseguenza, «è assurdo ogni tentativo di classificazione delle arti»[84]. Per Parente la tecnica assume un secondario ruolo di traduzione della facoltà lirica che nasce invece sempre «indipendentemente dal problema della materiale traduzione o esecuzione dell’arte». Enrico Fubini, nella sua storia dell’estetica musicale,  ritiene che Parente conduca all’estremo del paradosso questa lontananza da tutto ciò che è materia e tecnica strumentale o esecutiva; ad esempio, la conoscenza della tecnica strumentale del violino è indifferente alla composizione di un brano pensato  per quello stesso strumento. A noi non pare fondata la mediazione tecnica nemmeno nel caso, accettato da Fubini, in cui un musicista prenda una via tecnica differente che risponda meglio alla sua vocazione: la materia sembra anche qui poter svolgere un essenziale punto d’appoggio per la precisazione dell’intuizione.

            Vicino a Croce, almeno in un primo momento, anche il meno conosciuto critico e compositore Giannotto Bastianelli, che vede un momento di fortuna critica grazie all’interessamento di Marcello De Angelis e di Miriam Omodeo Donadoni, recentemente scomparsa, allieva di Casella ma elettivamente portatrice dell’opera di Bastianelli. Estremamente interessante è la sua relazione con Croce, inizialmente grata al punto da chiedergli lumi per costituire la parte estetica della Rivista musicale italiana: la comunanza nasceva soprattutto per la metodologia critica e storica introdotta da Croce negli studi letterari e che Bastianelli intendeva applicare anche a quelli musicologici[85]. Ma il compositore andò via via allontanandosi da Croce, tanto da annotare nei suoi Appunti filosofici inediti   del 1925,  pubblicati dalla Donadoni Omodeo, che  la filosofia crociana gli appariva «troppo schiava del reale e della storia» e quindi difettosa di una vera possibilità metafisica[86]. Eppure, anche Bastianelli non dimentica di indicare che i quattro gradi crociani, accoppiati, sembrano corrispondere alle due generazioni teologiche intellettiva e volitiva; e che il termine usato da Croce per collegare la diade arte-filosofia è «scintilla»; una immagine molto simile a quella usata dai teologi, di «spirazione» del vento.

            Altra insofferenza del compositore, che ne segnala anche la sconvolgente attualità, è nell’altro appunto critico all’idealismo: «una norma dell’azione d’origine eterogenea alla nostra limitata umanità, che è natura creata e non creante, per l’idealismo non ci può essere, la vita morale essendo come ogni altra forma di attività dello spirito, creazione individuale»[87].

            Ecco che sembrerebbe ritornare quella possibilità, che appartiene però alla sensibilità estetica contemporanea, di individuare la qualità estetica, ciò che rende tale un’opera d’arte, non tanto nella complessità degli insiemi utilizzati, o nella specie dei materiali, ma nella capacità di rinvio ad altro dell’opera, la sua qualità eteroreferenziale[88]. Essa sembrerebbe, anche nella prospettiva proveniente dalla ‘linea italiana’ qui esaminata, l’unica qualità estetica in grado di sopravvivere alla dichiarata morte dell’arte.

 

 

IL CERCHIO SULLA LINEA

 

 

 

            Inizio con una generalizzazione: la critica musicale ha fatto propria la distinzione di Adorno tra Kultur (cultura) e Zivilisation (civilizzazione), assimilando alla cultura (e al compito dell’intellettuale critico) il lavoro ‘progressista’ di Schönberg (novità, complessità, sviluppo lineare) ed alla civilizzazione quello ‘reazionario’ di Stravinskij (barbarismo, citazione, ritorno al passato).

            Ogni studioso, ogni compositore, ha fatto osservazioni su questa distinzione di Adorno, dando per scontato che tutte le conseguenze ed i corollari che da tale sta distinzione promanano (reificazione e mercificazione dell’opera, scarso gradimento per generi che non fossero puri, idiosincrasia per il jazz, per le trascrizioni, per il cinematografo e la sua musica) fossero indiscutibili.

            A me pare, invece, che sia giunto il momento per tentare una decostruzione del pensiero adorniano, che è soltanto apparentemente  asistematico, ma che in realtà è azionato da una logica seriale (uno strutturalismo costruttivo) molto forte. La figura divergente di Giacinto Scelsi può esserne un esempio.

            Una obiezione di fondo va mossa alle valutazioni di Adorno: dove risiede la qualità che consegna un’opera o un autore alla categoria della cultura o a quella della civilizzazione? Non è pregiudiziale e indimostrabile dire che soltanto certe produzioni siano utili a risvegliare il senso critico dell’intellettuale, a fargli evitare di chiudere gli occhi sulla realtà del processo dialettico negativo, sulla effettività di un mondo mal conciliato? Ripeto: dove risiede la qualità dell’opera?

Si è già indicato, partendo da uno spunto crociano e non disdegnando d’ammiccare alle moderne teorie (francesi) sull’alterità, che questa qualità non può che alloggiare nell’eteroriferimento dell’opera, nell’uscita dal sistema, nella possibilità di procedere non per successioni numeriche (quantità) ma per balzi di senso e di significato (qualità).

            Qui basterà dire che, contrariamente a quanto prospettato da Adorno, mentre l’opera di Schönberg rappresenta un grado di sviluppo ancora lineare (più volte egli stesso lo dichiara, parlando della dodecafonia come di uno sviluppo assolutamente conseguenziale, ‘naturale’ ed inevitabile), l’opera di Stravinskij rappresenta un tipo di sviluppo extralineare, simile ai mille piani di Deleuze e Guattari, o alle pause del discorso di Foucault. Non è questo il momento per approfondire questa distinzione: ma mi preme  rilevare come, invece, la ricerca di Giacinto Scelsi sia stata sempre orientata dal senso del centro, dell’unità, del suono inteso in senso spettrale. Di conseguenza, se è possibile considerare l’opera di Schönberg ‘in-linea’, e quella di Stravinskij ‘fuori-linea’, quella di Scelsi mi pare, propriamente, ‘circolare’, simile al suono ‘rotondo’ che egli pretendeva dai suoi esecutori.

            Fatta questa premessa, e sapendo bene che Scelsi odiava le parole  sulla sua musica e le presentazioni ai concerti, darò soltanto alcune cifre, per segnalare quanto  sia stato assurdo il silenzio critico sul suo lavoro.

            Scelsi nasce a La Spezia nel 1905; studia composizione con Ottorino Respighi e Alfredo Casella; studia inoltre tecnica dodecafonica con Walter Klein;  scrive il suo primo lavoro dodecafonico nel 1936, prima della  ‘conversione’ allo spessore del suono ‘unico’,  e ben prima di Dallapiccola: così risulta tra i primi italiani, se non il primo per quel che ne so, a recepirla. È  stato tra i primi ad organizzare, con Petrassi, concerti di musica d’avanguardia. Non è mai stato, in vita, eseguito nelle stagioni ufficiali, ed è stato ignorato dalla RAI («Qui in Italia la RAI non fa niente»). Il suo primo disco esce quando aveva ben 66 anni. Scelsi, di origini nobiliari, era per sua fortuna ricchissimo: però non utilizzò mai i suoi soldi per pagarsi delle esecuzioni. Fu in contatto con i più importanti scrittori francesi: tra cui Henri Michaux, lo scrittore che influenzò Deleuze e Guattari, ma conobbe anche Guènon, e stimò Steiner ed Evola. Ligeti gli disse: «la sua musica mi ha influenzato molto»; Donatoni lo considera uno dei tre grandi compositori italiani nati all’inizio del secolo. Gyorgy Kurtag si «considera un suo adepto». Metzger ritiene che «la scoperta di Scelsi avrà incommensurabili conseguenze per il futuro della composizione». Cage dice di lui: «La cosa più interessante che penso della musica di Scelsi è la concentrazione raggiunta su un singolo suono. Non conosco nessuno che ha fatto ciò che ha fatto Scelsi». Boulez lo salutava affabilmente, ma poi faceva eseguire solo musiche di propri allievi (anche solo ‘elettivi’). Solo dopo la morte (sopraggiunta il 9 agosto del 1988, ed anticipata agli amici in modo quasi esoterico dal compositore) la rivista dell’IRCAM ospita un saggio di Zoltan Pesko che ne dice mirabilie.

            Scelsi non si considerò mai un compositore, ma un intermediario, usava il suono per lanciarsi all’interno di sé stesso: basta leggere Michaux per capirlo.

            Diceva di sé: «si arriva ovunque con la negazione, è tutta una tecnica: non sei questo, non sei neppure questo. Sei il tuo corpo? No, non sono il mio corpo. Sei i tuoi affetti, i tuoi sentimenti? No, essi sono completamente cambiati da molto tempo. Sei il tuo intelletto? No, pensavo una volta, ma ora penso in modo completamente diverso. Allora cosa sei? Ebbene, ciò che resta...»[89].

            A Scelsi non importava molto il riconoscimento ufficiale, ma a noi non resta che constatare come ancora una volta la coltre di silenzio  calata sulla produzione di musicisti importantissimi non ha impedito, ed ha anzi favorito, l’eccezionalità dell’opera e la coerenza del pensiero, pagate il più delle volte con la vita stessa. Figure solo apparentemente marginali, ma poi nella realtà costitutive della realtà più vera del tessuto musicale italiano, disegnano una ghirlanda di memorie inconciliate, riferimento certo per quanti svolgono la propria ricerca in modo rizomatico, sotterraneo. I nomi di Luciano Cilio, Pietro Grossi, Giuseppe Chiari, Giacinto Scelsi, Marino Zuccheri, e quelli di molti altri ancor meno noti, ricorrono per insegnarci la storia dell’altra avanguardia, talvolta sconosciuta, che è stata ispiratrice di quella ufficiale, tutta nastri e lustrini, sempre omaggiata dalla cultura istituzionale. Quest’ultima, paradossalmente, si è resa sempre più affine alla Zivilisation e sempre meno propensa alla vera Kultur, tornando solo per un istante alla diade adorniana che proponiamo di abbattere.

 

 

Verso nuove coerenze

 

 

 

 

 

            La parola Konsequenz, mutuata dall’Adorno di Improptus,  e precisamente dal saggio dedicato ad Anton Webern, esprime la nozione di «echeggiamento», e di sviluppo del conseguente di una frase. Partiamo da questa parola non certo per rendere omaggio ad Adorno, quanto per segnalare una volta di più il disagio patito dalla sensibilità estetica di oggi rispetto alle tesi che hanno condizionato per anni la produzione teorica sulla musica contemporanea.  Konsequenz significherà, quindi, ‘coerenza’ più che ‘conseguente’, perché il secondo significato esprime già una gerarchia non piacevole.

            Già la dicitura ‘musica contemporanea’, al singolare, sembrerebbe affermare la distinzione tra una produzione ‘doc’ qualificata dalla militanza sperimentalistica (o dai canali didattici istituzionali), ed una profusione d’altra musica, sistematicamente ridotta entro i confini di  genere, e rappresentata da etichette che, si sa, prima o poi finiscono per essere superate per tempi e invenzioni velocissime, senza mai riuscire ad avere quella ‘consacrazione’ di eternità tipica delle opere d’arte di un glorioso passato musicale. Né soddisfa il ricorso all’immagine di «nuova musica», come se bastasse il crisma della novità a conferire un significato all’opera.

            Si capisce, così, che Konsequenz esprime da un lato la saturazione di una cultura musicale che s’è nutrita a sufficienza delle litanie sul consumo, la reificazione, l’imbarbarimento dell’arte, dimenticando spesso che erano pronunciate nel deliberato intento di promuovere uno soltanto dei modi di comporre; dall’altro rappresenta la presa d’appoggio per riconsiderare le vicende della produzione attuale, questa volta senza barriere ideologiche e costruzioni gerarchiche. 

            L’arroganza, lo spirito d’intolleranza, le sviste storiche[90] e teoriche[91] di alcuni scritti di Adorno, soprattutto laddove si realizza un confronto con il jazz, la cinematografia, le trascrizioni non autorizzate, la musica giovanilistica, e in genere con qualsiasi autore potesse fare ombra su quelli da lui prediletti, furono effetto di un metodo solo in apparenza asistematico e micrologico. La micrologia nascondeva l’esistenza di minuscole entità numeriche, simili alle cellule musicali che sarebbero state usate dagli strutturalisti, poi organizzate in un insieme più che logico,  e soltanto in apparenza asistematico. Basta confrontare i testi delle conferenze con quelli destinati alla pubblicazione, o considerare la Teoria estetica  per  quel che è: un work in progress[92] la cui ferrea progressione  risulta spezzata per eventi incontrollabili. Temi dominanti, quasi seriali, si rincorrono lungo gli anni per gli scritti del francofortese[93], e non è un caso che egli venga oggi accostato ad un altro autore seriale, Michel Foucault[94]. Lo strutturalismo ed il positivismo, aldilà delle aperte dichiarazioni di ostilità provenienti da Adorno, si fa serie in Foucault attraverso la nozione di sviluppo lineare (sub-infra-lineare, pieghe del discorso, etc.),  indovinata da Deleuze, ed ispirata forse  alle descrizioni poetiche di Henry Michaux[95]. Ed una corrispondenza, naturalmente univoca, proclamava Foucault, rammaricandosi di aver conosciuto solo in vecchiaia il lavoro di Adorno.

            Ancora disagio provoca la tradizionale dicotomia tra Stravinskij e Schönberg, proposta come inconciliabile opposizione di estremi. Sfuggiva al nostro che l’ Harmonielehre parla di una continuità quasi naturalistica tra l’armonia tradizionale e l’invenzione del linguaggio con dodici suoni[96]. Anche il collante tra passato e futuro, la forma, ci appare nella scia della tradizione. Insomma, lo sviluppo che Schönberg ha propiziato risulta infine lineare, conseguenziale, necessario[97]. Per prolungare la metafora attraverso Deleuze e Guattari, è sviluppo arborescente, nato e pasciuto su solide radici, infine venuto alla luce del sole sotto forma di fragili ramoscelli[98].  Quello di Stravinskij (ma anche altri fecero molto in questa direzione) è uno sviluppo non rettilineo, stratificato, proteiforme, multidirezionale. Il suo modello è rizomatico, simile a funghi o radici che si sviluppano in modo indipendente, e tale da consentire un piano eteroreferenziale di gran lunga più interessante e vario di quello schönberghiano.

            Del resto, col senno di poi, si può leggere retrospettivamente la storia recente per valutare quanto le tesi di Adorno dovessero essere smentite dai fatti concreti della produzione e fruizione musicale.

            Difatti, l’eterogeneità degli stili, l’arte della citazione portata agli estremi, la stessa confusione  e contaminazione tra generi, non doveva condurre  ad un imbarbarimento (anche perché di un vero e proprio «imbarbarimento» non avrebbe forse senso parlare) ma ad un ampliamento di consapevolezza, ad una visione multietnica dai linguaggi variegati e pluriformi. Come nell’era della multimedialità virtuale (ma anche reale e concreta), non ha più senso parlare di purezza di una razza, o di salvaguardia di una cultura che si distingue tra le altre, così non avrà - ed effettivamente i dati di vendita lo dimostrano - non ha più motivo di esistere una differenza gerarchica tra i prodotti e le creazioni artistiche.  Ciò non vuol dire affatto che una qualità non esista, o non possa esistere: essa risiederà però, più propriamente, nella capacità dell’opera di rinviare ad altro, di rimandare al diverso, di richiamare una realtà nuova che non ha più nulla in comune con la salvaguardia di un’etnia in particolare, ma che parla per un villaggio globale della comunicazione, la quale è relazione fra sé ed altro. Non più una qualità per insiemi numerici di contenuti o per organizzazione formale di contenenti, ma ‘qualità’ come eteroreferenzialità.

            Non si fa qui soltanto teoria: se si osservano le classifiche discografiche, oppure, in modo non mediato (aggirando cioè le presunte influenze dell’industria), si registrano le reazioni del pubblico in una sala da concerto, si può notare: a- un calo delle vendite e dell’attenzione rispetto alle produzioni cosiddette di ‘repertorio’; b- soltanto la parziale sopravvivenza delle produzioni monografiche e/o relative ad autori o brani poco conosciuti, rari,  sconosciuti; c- la saturazione anche di generi come il jazz o il rock.

            Contemporaneamente, pare si stia effettivamente concretizzando un fenomeno di inversione di tendenza (sintropia) in merito alla cosiddetta morte dell’arte (entropia): vendono maggiormente, e appaiono radicate nella nostra cultura massmediale quelle composizioni che non attuano più una finzione di autonomia, di costituzione unitaria; opere, cioè, che sono più ‘autentiche’ perchè riescono a non ignorare l’altro, il diverso, il quale ci è intorno grazie alla intermediazione di strumenti di eccezionale velocità di comunicazione. In ciò, l’industria ha una parte importantissima, veicolare. E la stessa vendita non fa che contribuire all’accelerazione verso il villaggio globale. Inoltre, se gli investimenti in direzione della ricerca sono possibili soltanto in ragione della vendibilità di un prodotto, quest’ultimo è effettivamente vendibile quando riesce ad essere interstiziale con la realtà, cogliendone anche gli aspetti di con/fusione, di irradiamento sociale, di velocità televisiva o telematica. Il futuro vedrà il successo degli ipertesti, delle favole interattive, delle opere in cui il linguaggio farà posto ad un discorso non più articolato, ma frammentario e strumentale ad ogni esigenza. Gli ascolti verranno diversificati, scegliendo atmosfere differenti  per ciascuna finalità. Una musica per ogni possibile uso.

            Anche la ricerca fine a sé stessa, gli aridi sperimentalismi di un lungo periodo decadente, in questa diversa prospettiva, e grazie ai segnali che si colgono proprio nell’ambito ancora dei generi, ci sembra finita, nel senso che ci pare finalmente incanalata al servizio della relazione, del rapporto, e svincolata dall’assurda corsa alla novità per la novità, spesso incapace di trasmettere alcunché. Pare finalmente che essa torni ad una forma di spontaneità d’applicazione. Le sale deserte, le provocazioni dello sperimentalismo, la noia di lunghe serate dedicate alla ‘musica contemporanea’ che si trascinavano senza vita e senza entusiasmo ci paiono lontane mille miglia da quanto può avere successo, e vendere, e quindi essere ‘connesso’ con le nostre esigenze di ampliamento multidirezionale, di irradiamento rizomatico, di perlustrazione infrastratica. L’uniformità, l’unidirezionalità, ha stancato tutti. Occorre dirigersi con coraggio verso l’esplorazione dell’infinitamente coesteso, che è anche musica di consumo, musica benedetta, se il consumo rappresenta una parte delle nostre esigenze. L’irradiamento, infine, non esclude la possibilità di continuare ad esplorare, senza dichiararle esaurite, le diverse unità lineari. Dopotutto, nulla vieta gli estremi filologismi, le analisi comparate fra le mille esecuzioni possibili dei centomila interpreti esistenti, le infinite variazioni numeriche degli strutturalisti più rigorosi. Oggi nessuno si scandalizza se esistono gruppi di musica rinascimentale, e un successo commerciale può essere raccolto anche da antiche sequenze, eseguite da fulgide star: monaci raccolti in preghiera. Ogni ironia scompare se si ripone il giudizio di valore (la qualità) nella capacità di rimandare ad altro, senza confonderla con la quantità, che è data dalla complessità dell’insieme considerato.

            Quindi:

            1- Deve essere possibile un’osservazione dell’opera senza aver precostituito alcuna categoria: l’appartenenza ad una industria culturale, la sua strategicità nell’ambito del gioco  potere/sapere, la vendibilità, seguono ad una qualificazione derivante unicamente dalla capacità del rinvio ad altro.

            2- Le opere ‘commerciali’ (per accessibilità, ripetitività, fruibilità, modularità...), costruite ad hoc dall’industria culturale, non vanno sottovalutate. Già procedendo negativamente, non è detto che non possano avere ‘qualità’ estetiche di tipo anche tradizionale; inoltre, per il fatto di essere ‘costruite’ per la vendita, andrà considerata attentamente la complessa strategia di marketing che consente un aggancio privilegiato con l’esterno.

            3- Permangono, evidentemente, anche delle ragioni insite nel  carattere intrinseco dell’opera che giustificano la sua immediata veicolazione, la capacità esponenziale di rimandare ad un infinito potenziale di riferimenti. I più giovani consumatori di musica leggera sono capaci di ‘datare’ la merce che vien loro proposta. Essi riescono a storicizzare l’opera, spesso ricorrendo allo strumento di un linguaggio non lineare, rivolgendosi piuttosto agli elementi costitutivi del prodotto (ad esempio al timbro usato, o alla perfezione dei ‘bit’, o degli impulsi ritmici più piccoli: meraviglie consentite dall’uso dei più aggiornati software musicali anche domestici ):  se ciò avviene, vuol dire che le opere preconfezionate dall’industria (e piena dignità estetica hanno anche gli ‘stacchetti’ pubblicitari) sono collocabili in un tempo determinato, e devono soddisfare   esigenze sempre  diverse dei più  giovani fruitori.

            4- Opere differenti con agganci multipli ed incrociati riescono già per ragioni costitutive a connettersi con  facilità ai molteplici piani del quotidiano, riuscendo a comunicare stati d’animo differenti per ciascuna necessità ed occasione.

            Esse saranno maggiormente vendibili con gran soddisfazione di tutti.

 

 

MOLTE LINEE

PERCORSI TRA MUSICA E FOLLIA

 

 

 

 

            Mi sono imbattuto, quasi per caso, in una frase inedita di Giuseppe Chiari, animatore del mitico gruppo FLUXUS (Chiari fu a Wiesbaden, nel ‘62, uno dei suoi fondatori): «Per molto tempo ho pensato che era in discussione la parola musica. / Mi sono sbagliato e ho perduto dal 1960 una lunga linea. / Non era la parola musica sul tavolo ma la parola musicista. / Avevano rubato la parola musicista e se la tenevano stretta. / E oggi -1990 - dobbiamo cercare di strapparla. Dobbiamo abituare la gente a chiamarci musicisti. / Passeremo per illusi, ma non importa. / Ciò che importa è che dilaghi l’idea che i musicisti -oggi cosiddetti tali- sono dei folli».

            Mi ha subito colpito un tracciato, che avevo già ipotizzato a proposito della chiusa del Doktor Faustus manniano (alla metà degli Ottanta era di moda permutare i romanzi di Mann): la follia di Leverkühn, le ali di Hetaera esmeralda, una malattia gravissima per lo spirito creativo, infine la morte, tale soltanto perché silenzio. Già allora si era offerto alla riflessione, ripresentandosi in più luoghi di scrittura, un tracciato ludico, vale a dire poco più che giocoso, tra arte come verità inaccessibile ma comunicabile e arte quale verità incomunicabile ma accessibile. Volevo immaginare un artista che è tale soltanto per un modo particolare di sentire, e non per quello che avrebbe potuto ‘produrre’.  Oggi comincio a pensare, senza alcuna ipocrisia, che potrebbe esistere un artista ch’è tale per il suo modo di produrre (e di vendere) e non per quello che è in grado di sentire. Il paradosso, detto e contraddetto,  non è qui soltanto linguistico, ma rappresenta una convinzione per la quale l’opera potrebbe apparire realmente svincolata dalla dualità tra valore d’uso e di scambio, mantenendo ambedue e consegnando una qualità o validità estetica a qualcosa che sia consapevole della accaduta vicenda postmoderna.

            Ma procediamo per gradi, perché il percorso potrebbe risultare più affascinante rinunciando ad affermazioni apodittiche. Il nesso musicista-follia passa per la consapevolezza di Chiari di aver «perduto una lunga linea»: s’era occupato di musica e non di musicisti. Aveva pensato al prodotto più che all’operaio. L’errore, suggerirà col suo stile unico, quasi cageano, era quello di non vedere che esistevano ‘anche’ musicisti che in realtà avevano riprodotto le ragioni di una scuola, di un repertorio già consolidato, di un sapere già attestato e consumato. Essi davvero «riproducevano», perché il loro lavoro (l’unico che la gente riesce a considerare tale, perché le altre occupazioni sonore vengono semplicisticamente chiamate svaghi) era quello di ‘copiare’ e far nuovamente sentire: brani di altri che assumessero forme simili e filologicamente coerenti con l’idea che in quel periodo si aveva di quel particolare compositore (già morto, già ‘radicato’, già assimilato e digerito dalla ‘elite’ dei frequentatori lirici). I ‘copisti’, alla lunga, furono considerati musicisti. Ed i musicisti veri fecero di tutto tranne che vivere di musica; ovverossia, vivere di musica composta oggi. È un gioco molto serio il fatto che oggi esistano invece veri musicisti che ‘copiano’ deliberatamente, che lo dichiarano e ciononostante riescano a mantenere la loro originalità e coerenza (conseguenzialità, in simpatia con Konsequenz)

            Ma il discorso poteva essere portato oltre, o su un altro piano: la musica contemporanea, negli anni Settanta, era davvero ‘in linea’, ferocemente inchiavardata nelle asfittiche convinzioni adorniane, sulle prassi della Seconda scuola di Vienna (ma soprattutto sulla rigidità del secondo Schönberg) e sulle pratiche esecutive di Darmstadt. Ognuno pensava di dover fare di tutto per convincere il mondo della musica (classica) dell’esistenza di una naturalità conseguenziale tra  il cromatismo mahleriano e lo sviluppo dodecafonico. Per questa ragione Schönberg avrebbe volentieri strangolato Thomas Mann, non appena Alma Mahler gli ebbe spettegolato il contenuto del romanzo (da lui mai letto): ma come, faccio tanto (ponderosi volumi di armonia e relazioni funzionali...) per dimostrare la ‘naturalità’ della disciplina dodecafonica, e questo artista decadente, paramusicista, al quale Teodoro ha dato qualche consiglio, che mi combina?  mi fa vendere l’anima, mi lascia inventare una nuova arte del comporre, e infine mi fa impazzire?

            Tutti gli sforzi dello Schönberg di Adorno per restare ‘in linea’, eccoli miseramente scivolare sulla lucidità ed immaginazione dello scrittore. Ma in realtà  Thomas Mann gli aveva fatto un favore, portando alle estreme conseguenze quello che propria Adorno aveva scritto nella Filosofia della Nuova Musica: che Stravinskij fosse da condannare perché non  consequenziale’ (sic, con la q) e Schönberg da acclamare perché rigorosamente tutto d’un pezzo. Stravinskij era ‘fuori linea’, Schönberg restava ‘in linea’.  E tutta l’avanguardia successiva, con poche eccezioni, è rimasta adorniana, poi darmstadtiana, assolutamente lineare e razionale. Qualcuno è riuscito ad essere sferico: e mi riferisco all’opera di Giacinto Scelsi, in parte a Ligeti, ma non  a Cage (una cosa è l’aleatorietà, altra la casualità, come suggeriva già Franco Evangelisti). Eppure, la musica contemporanea che sta rinascendo (cioè sta ‘vendendo’ con successo migliaia di compact), è quella infralineare, sublineare, sopralineare. Quella che attua, insomma, i celebri “mille piani”.

            Il curioso è che, incrociando tutti i sentieri, si vedrà che quest’idea di ‘linea’ e di ‘fuori-linea’ veniva già esposta in molti luoghi da Henri Michaux. Pensando alle sue spoliazioni, un giorno immaginai questa stringa: «Stille infinite/sime. / Si è / Frammentati / per estremi / estesi».

            Linee vanno oltre di sé, e ci avevano suggerito una possibile meta finale di una analisi estetica davvero contemporanea: la qualità infine ricercata nell’eteroiferimento, nell’uscita dal sistema chiuso dell’opera, nel rinvio ad altro. Il luogo mirabile di queste ‘esposizioni’ è nel Miserabile Miracolo pubblicato nel ‘56. Similitudini con i Mille piani di Deleuze-Guattari: «Rieccolo come prima, con piani (infiniti ma non vertiginosi. Per questo sarebbe necessario un senso delle distanze e della profondità che non possiedo e di cui, in questo caso, sono del tutto sprovvisto) da non poterli contare, con mille strati di mattoni spasmodici, tremante e oscillante rovina, balbettante, Borobudur». Altre assonanze vengono rivelate da  Deleuze, quando nella mirabolante monografia dedicata a Michel Foucault dichiara il suo debito verso Michaux. Esistono singolarità selvagge, «non ancora legate, anch’esse sulla linea del fuori e che ribollono proprio al di sotto dell’incrinatura»; si tratta della linea di Melville o di quella di Michaux. E se andiamo alle fonti, ecco l’originale, intrecciato al suo doppio: «Linee, sempre di più, linee di cui non so se sul serio io le veda»; «Là, dove non c’è più nient’altro che il proprio essere, là, era. Là, a una velocità delirante, centinaia di linee di forza strigliavano il mio essere»; «L’orrore consisteva soprattutto in questo, che ero soltanto una linea. Nella vita normale si è sfera, una sfera che scopre panorami»; «Essere diventato linea era catastrofico, ma ancora di più, se possibile, era inatteso, prodigioso».

            Mille sfumature restringono o allargano il campo, nella visione mescalinica di Michaux. Ma è sorprendente che il passo successivo, l’assoluta conseguenza dell’essere una linea, sia collegato direttamente alla follia: «La lampada accanto allo specchio mi mostrò una testa che non avevo mai visto, la testa di un pazzo furioso (...) Ormai deve essere questione di minuti. Perciò mi era venuta quella calma, la calma grave di chi è responsabile di un pazzo pericoloso, questo infatti mutava la mia situazione. Nell’atrocità potevo venire gravemente colpito anche in modo diverso. È vasto, un uomo». Il pensiero lineare risulta di per sé consegnato al baratro. E non meraviglia la fine del compositore immaginario Leverkühn-Mann-Adorno, né la presenza di zone di silenzio (prima aforistiche) sempre più ampie in Webern, dal momento che l’estensione della logica occidentale genera nella musica il crepaccio della ricerca dell’inutile novità, della sperimentazione per la sperimentazione, della morte dell’arte e per l’arte.

            La storia dell’avanguardia è quella del fallimento di alcuni dettami imposti proprio dallo snobismo francofortese, che fortemente come musicisti ricusiamo, criticando il crisma evangelico della ‘novità’. Per anni s’è gareggiato nel percuotere il pianoforte o il contrabbasso in un modo nuovo, cercando tecniche e suoni mai utilizzati, e costruendoci sopra pezzi incredibilmente prolissi e noisi (le stesse acquisizioni, utilizzate con maggiore naturalezza e con qualche sforbiciata, avrebbero potuto generare capolavori). Il problema del compositore, all’atto di prendere carta e matita, è stato innanzitutto quello di produrre opere inaudite. S’è evitata come il demonio  la scrittura già sentita, orecchiata e ‘riferibile’ ad altro, temendo la compromissione, la confusione, la contaminazione. Conosco artisti del paradosso che senza averne consapevolezza (del paradosso, intendo) propongono candidamente di tornare all’Allegro di Sonata: beata incapacità di visione, inettitudine alla pre-visione.

            Altri, soprattutto americani di scuola europea, sono attenti a costituire un ‘repertorio’, scrivono il numero d’opus dopo aver indicato diligentemente la forma, come se fossero ancora lì a portare fogli sgualciti al maestrucolo di conservatorio. Non è questo il cross-over: novità e repertorio andranno presto a farsi benedire altrove, non troveranno posto in un sistema che usa Internet per veicolare suoni, immagini, notizie, contaminandole ad ogni passaggio. Il prodotto di molti CD-Rom è multimediale, ma è anche a struttura aperta, perché consente di entrare e uscire dal sistema a piacimento. E alla fine anche la nozione di ‘autore’ perderà peso, verrà sostituita con quella di ideamakers, lanciatori di semi, ideatori di standards, unità particellari su un piano multistratico, dove sarà inessenziale il pretesto, perché conterà l’ipertesto.

            Si sta parlando di villaggio globale, alludendo soltanto ad alcune possibilità, e rimandando invece ad un visionario libretto di Elemire Zolla, i tre Discorsi metafisici, per fantasticare sul futuro più lontano (davvero virtuale?) che ci attende. Un nuovo mondo con strutture al silicio, come suggeriva sempre Deleuze, lontano dalle piramidi e dalle gerarchie del carbonio.

            Resettare questi insiemi di quantità, allargare i confini, al di là della seduzione ludica e fantasiosa del folle (quest’immagine è presente anche in Goethe, nella celebre immagine dell’uomo che raccoglie fiori del Werther), e al di là dell’ eteroreferenzialità necessariamente  intrinseca alla stessa nozione di pazzia (nonsense, limerick), allargarli cioè già dal luogo della consapevolezza, significa gettare uno sguardo nuovo sull’arte.

            Questa consapevolezza non resta confinata nell’ambito della filosofia o della teoria: qui si tratta di mercato, vendibilità del prodotto/merce, rappresentabilità di opere nei teatri e nelle piazze. Non c’entra nulla, però, il liberismo: la tecnologia mediatica sta già azzerando le idealità contrapposte (sostituendovi gruppi di potere antagonisti, e davvero la nozione è foucaltiana), e l’home computer  tradurrà l’attuale rappresentatività parlamentare in efficacia d’intervento e voto diretto  per ciascuno. Chi non ha compreso il ruolo dell’immagine, e del tecnologico, nell’avvento della società ‘civilizzata’ (la quale assolutamente non rema contro quella acculturata, come sostiene Adorno), affonda inesorabilmente nella sconfitta ad ogni tornata elettorale. Molti farebbero bene a rileggere quanto profetizzato da molti altri profeti dell’era virtuale.

            Una gran quantità di fuori-linea, fuori-margine, glosse, seppellirà la nozione tradizionale di opera lineare, senza abdicare alla nozione di qualità, ma semplicemente spostando la ricerca di quest’ultima dal luogo della enumerazione lineare al metaluogo della (impossibile) ricostruzione frattale. Insiemi saranno ‘coestensivi’, consistenti in molteplici piani, con più linee incrociate, confuse, vicendevolmente contaminate. Fino al punto da creare figure geometriche assurde, contraddittorie, ma incredibilmente ancora belle, sempre capaci di alludere ad un senso (un ‘senso’: una direzione, un movimento verso qualcosa d’altro). Queste sono le ragioni del cross-over, dei ‘plurali’, delle contaminazioni auspicate dalla nuova estetica. Essa non manca di prendere le distanze dalle interpretazioni deboli che son germogliate dai seguaci di alcuni  autori anche qui menzionati, i quali in misura diversa hanno operato correttivi su visioni invece parziali, così come doveva essere per saperi che si volevano prospettici. Ciò implicherà un notevole sforzo di preveggenza, e un po’ di follia,  per gli operatori culturali  ad ogni livello di produzione e distribuzione. Parecchio già si sta muovendo, ed è inevitabile che ci coinvolga tutti.

            Michaux: «Segni non per ritornare indietro / ma per meglio oltrepassare la linea in ogni istante».

 

           

 

ESTETICHE DEL PLAGIO

 

 

 

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            Michel Jackson copia (?) Al Bano. Patty Pravo copia (?) la band This Mortal Coil. Casi di plagio si susseguono sempre più frequentemente, quasi a dimostrare l’effettività di una tesi: quella della scomparsa dell’autore, e della compresenza di una collettività agente di fruitori-compositori che raccoglie e manipola idee già collocate nello spazio mediatico.

 

 

 

Antefatto

 

            Due idee angolari avevano dato una forte spinta reazionaria alla sperimentazione musicale dell’ultimo ventennio (almeno): quella di repertorio, che ancora opprimeva le opere con l’assillo di una collocazione ‘in linea’ con i capolavori del passato (e la musica tedesca l’aveva fatta da padrona), e quella di ‘novità’, per la quale il vero compositore poteva essere soltanto quello in grado di ‘dire’ qualcosa di rivoluzionario, cioè qualcosa che non fosse mai stato detto prima.

            Queste due caratteristiche, la cosiddetta linearità o conseguenzialità della produzione, e la pretesa di pronunciare  sempre parole ulteriori, avevano, come è noto a tutti, finito col cacciar via a pedate la gente dalle sale da concerto, sia da quelle che continuavano a propinare musica di repertorio ‘doc’ (con la conseguente crisi di programmazione tipica delle più retrive associazioni di melomani), sia da quelle che pretendevano creare nuovi classici presentando in sequenza le operine da camera dei quindicimila compositoruncoli sperimentali.

            Ma un altro effetto era decisamente più deleterio: il soffocamento progressivo patito dagli stessi compositori, per i quali la crisi del linguaggio, la ricerca di una ‘loro’ caratteristica riconoscibilità, erano diventati un luogo comune, spesso confinante col silenzio (il caso di Evangelisti è solo esemplare). Altri si arroccavano nella cittadella della rinuncia, portando ad estrema consunzione l’unica (saltuaria) invenzione della loro musica, quella per la quale sarebbe bastato un brano di tre minuti, e che invece occupava pagine e pagine, dischi e dischi, stagioni e stagioni.

            Intere esistenze di compositori ‘sperimentalistici’ si sono consumate nella ricerca della ‘novità per la novità’, ancorché quest’ultima nulla di sostanziale fosse in grado di aggiungere alla stessa riconoscibilità degli autori: uno sperimentalismo vale l’altro, perché non emoziona, non lancia messaggi o ponti al di fuori dell’opera.

 

 

 

Sconfitta

 

            Così, un larvato senso di insoddisfazione, di smarrimento, di fallimento, ha permeato la generazione di musicisti, pur di talento, che chiude questo millennio. Alla sensazione di svilimento ha fatto contrappeso la creazione di un ghetto, nel quale volontariamente gli stessi compositori si sono rinchiusi, assieme al loro pubblico (venti o trenta persone), alle loro operine fatte in serie, ai loro dischi e ai loro manoscritti inediti o fotocopiati dalla casa editrice di grido. Un ghetto dal quale tutti gli esclusi, vale a dire la maggior parte del pubblico, era ben felice di esserlo: la gente che volesse ascoltare musica viva avrebbe anche pagato pur di non  presenziare ad un concerto di musica contemporanea. 

            In questo mondo, in questo nostro mondo, è mancato chi gridasse consapevolmente ai quattro venti la sconfitta di un certo tipo di musica. E soprattutto è mancato chi lo facesse senza calare nella voce quel tanto di rimpianto per l’arte aurea del passato, quel tanto di commiserazione per le opere che incontravano il favore della gente, alludendo a quest’ultime come se si trattasse del  prodotto di una sottocultura necessaria. Della necessaria resa della complessità di fronte alle ragioni della semplicità e ai desiderata del popolino. Nulla di più falso.

 

 

 

 

Messa in parentesi

 

            Sarebbe più che opportuno abdicare temporaneamente al nostro pregiudizio d’autore, e all’attestazione forte delle ragioni dell’opera unitaria. Basterà lasciare tra parentesi la consapevolezza antica d’essere soggetti, e potremmo farlo facilmente, visto che per anni ci hanno insegnato tutto sui plurali delle verità, dei soggetti, dei saperi. Anche non condividendo la debolezza di queste tesi,  potremmo almeno tentare di collocarci in una zona neutra, come avviene nel test del vaso e dei visi: compaioni alternativamente l’uno o gli altri, ma si mantiene sempre la sensazione di una presenza ulteriore, non visibile.

            Nel gioco della comparsa e scomparsa per veli alternanti, di ri-velazione  e disvelamento, qualcosa potrebbe apparire o sparire, esserci al di là dello sguardo, o restare appena visibile al margine di occhi socchiusi, come le immagini di sconcertante bellezza alluse da Proust.

 

 

 

In linea. Fuori linea

 

            Cosa significherà andare oltre il margine del foglio? Questa semplicissima operazione potrà ancora scolvolgere chi ha fatto ricerca tra le corde di un pianoforte? Michaux aveva un bel parlare della sfera (quante volte la si è riferita a Scelsi), delle linee intrecciate e prolungate verso la follia. Ma a quanti è già chiaro cosa significhi sviluppo ‘lineare’ (ad esempio delle intuizioni di Schönberg) e sviluppo ‘extralineare’  (ad esempio di quelle di Stravinskij)? Qualcuno, ancora nel passato, già prese come motivo di ricchezza la citazione, la trascrizione, la permutazione, la contaminazione. Si trattava della non riconoscibilità dello stile come valore: non sarebbe un percorso da prendere in considerazione? Laddove lo stile scompare, l’autore si fa evanescente: siamo sufficientemente forti per rinunciare alle prerogative, tutte occidentali, che gli sono ancora riservate? Non è certo un caso  che  generalmente si sottovalutino l’importanza creativa dell’interprete, o la pratica dell’improvvisazione strumentale. Viviamo ancora all’ombra del segno; la scrittura ci soffoca, e le strutture silicee di Deleuze ci sono sconosciute. Di fronte allo scheletro di una canzone jazz ho visto impallidire grandissimi interpreti, fare la figura di neonati che balbettano sincopi per il timore della deriva.

            La deriva è ricchezza, ma siamo incapaci di coglierne lo spirito.

 

 

 

Sprazzi di luce

 

            Eppure, qualcosa s’è mosso: altrove, ma anche qui da noi. Tanta insoddisfazione doveva alla fine generare qualche dubbio. Si deve soprattutto al rock la capacità di sondare le nuove interfacce utente, rivificando perfino parte del jazz, e rendendo sempre più eclatante la distanza esistente tra la musica contemporanea che fu ed il suo possibile pubblico.

            Soprattutto nei garage e nei sottoscala s’è sviluppata una nuova sensibilità, collegata anche all’esigenza di gestire segnali Midi di piccola entità, creare basi musicali che facessero il giro dei piano bar, dei pub e delle piazze delle feste di provincia, allestire infine piccoli banchi mixer e addirittura antidiluviani revox o modernissimi registratori digitali. I più sofisticati viaggiano oggi su un TGV che si chiama CD-Rom; dischi interattivi che portano stampato grandissimo il nome dell’autore, ma che infine all’autore non lasciano che vuota vuotissima copertina, perché tutto il contenuto è variabile, personalizzabile, contaminabile a seconda delle esigenze del fruitore.

 

 

 

Confusione

 

            S’è diffusa in ambito londinese, e parigino, la musica africana. S’è creato un mercato sufficientemente florido per la musica del mondo, etnica, contaminata o globale.         Alcuni compositori, prima esclusi dal ghetto e dai canali di produzione, si sono affermati sorprendentemente con musica che ancora riesce addirittura a dire qualcosa, magari rinunziando alla prolissità, o affermando la sacralità di cori, oppure ancora elevando a sistema la fusione (quasi missaggio) tra rapidissimi sketch pubblicitari o fumettistici. Musica cinematografica ha fatto il successo di films e di compositori. Tutto questo riuscendo ad invadere il mercato, e alla faccia delle teorie di Adorno.

            L’opera è in grado di farsi merce senza privarci del godimento estetico, e senza passare necessariamente per i canali delle major, visto l’incredibile impatto urbano della musica e dei gruppi prodotti dai Centri Sociali. In realtà, la virtualità altera le tradizionali categorie politiche, e presto questa inevitabilità raggiungerà l’apoditticità del visibile.

            La concretezza dei software avrà la pesantezza dei mattoni. L’immagine sarà una protesi biologica del mentale. L’ipermercato sarà a venti centimetri dal nostro viso. I programmi televisivi ci vedranno tutti protagonisti, seduti nelle poltrone virtuali degli show intermediali. Internet è la pallida evanescenza di quello che sarà l’enorme spazio condiviso attraverso la tecnologia presente (e futura). Il controllo sociale avverrà attraverso le reti, la resistenza a questo controllo si chiamerà forse hackers. I prodotti culturali non avranno la rigidità di un foglio, l’impenetrabilità di un disco al vinile. Già il compact permette una maggiore ‘appropriazione’ e ‘personalizzazione’ delle tracks. I dischi laser garantiranno una totale e continua ‘entrata-uscita’ dal sistema: le musiche saranno sempre più mescolate, sempre più nostre. Il disco sarà un oggetto estetico confezionato a nostro uso e consumo.

            E lo faremo da noi.

 

 

 

Plagi?

 

            Un enorme terreno condiviso non riesce più a discriminare le terre di ciascuno. Ogni luogo allarga i propri confini e li sovrappone a quelli circostanti. Le incursioni pirata negli standards predisposti dall’ ‘autore’ saranno la ricchezza e la bellezza di un prodotto ipermediale. Queste varianti verranno anzi richieste, perché nella variazione e nella velocità aforistica della successione di immagini diverse è il futuro dell’arte.

            La nostra percezione è cambiata: la velocità degli spot ha modificato la sensibilità e la recettività. Ci annoiamo della lunghezza, della pedanteria, non conserviamo memoria dei discorsi troppo lunghi, delle architetture monumentali, delle forme ponderose ed affermative del vecchio modo di ‘comporre’. Una estetica del plagio ne presuppone una della scomposizione. Frammenti, stille, particelle di suoni e immagini. L’arte del futuro funzionerà per accensioni infinitesimali. Sarà simile al funzionamento del nostro cervello, e sarà probabilmente intuitiva, connettiva, extralineare: capace di seguire la velocità di pensiero, lo scatto d’intelligenza. Non saranno ammessi passi indietro.

            Avrà significato la nozione d’autore in scenari come quelli intravisti? Il patrimonio collettivo sarà sconnesso col reale, porterà le musiche dei territori alla dispersione o sparizione? Sarà ‘indotto’ da regie occulte?

            Sorgono nuove estetiche che rivoluzionano da cima a fondo le nostre abitudini di compositori. Sarebbe il caso di cogliere il senso (vettore) forte di queste stratigrafie, di lanciare le nostre opere in questa straordinaria avventura. Si tratta solo di rimuovere nomi, lasciar circolare virus, rinunciare a territori d’appartenenza.

 

 

FINESTRE SUL MONDO

 

 

 

Purezza e mescolanze

 

            Come si può definire la «world music»? È semplicamente musica che proviene da ogni parte del mondo, o  piuttosto un genere con un linguaggio proprio, che auspica una società dalle molteplici culture ed etnie? Ancor oggi vige una certa confusione in proposito, generata anche dall’ ambiguità e dalla distanza d’intenti tra ciascuna produzione, che ogni paese adegua all’ immagine da esportare.

            Ad esempio, l’Africa appare genericamente più incline alle contaminazioni, specie con i musicisti di Mali, Senegal e Gambia. Salif Keita,  da nobile appartenente alla più antica famiglia Mali è sceso volontariamente di casta per dedicarsi all’arte, e da Soro in poi sperimenta l’elettronica e il rock contro la staticità delle tradizioni; Manu Dibango è noto per aver incontrato a più riprese il funk, ma si era formato prevalentemente in Francia, e solo in seguito aveva ottenuto riconoscimenti in Camerun: è sua la frase «ho orrore della ripetizione, non si può continuare all’infinito a ripetere la lezione degli antenati»; Youssou N’Dour è conosciuto per i suoi trascorsi con Peter Gabriel, l’estroso ex-Genesis  oggi anche produttore[99]; Foday Musa Suso e Toure Kunda hanno incrociato le loro strade con Herbie Hancock, il pianista jazz, e con Bill Laswell, che dal funk sperimentale di Baselines[100] diventa tra i più agguerriti produttori discografici.

            Ma altri musicisti, appartenenti ai griots[101] restano vicini alla visione tradizionale, magari legata ad uno strumento particolare: è il caso di Lamine Konté, virtuoso di kora[102], del quale la Arion[103] presenta due monografici. Lamine è nato a Kolda, ma ha studiato alla scuola delle arti di Dakar, ed appartiene ad una delle più antiche caste di griots; è pertanto un «figlio d’arte», come diremmo qui. Così, la sua musica è di una straordinaria dolcezza e spontaneità, non priva di caratteri personali: «quando suono vorrei che la gente mi riconoscesse». La ricerca di questo musicista è volta soprattutto al massimo sfruttamento delle ventuno corde della kora, che la fa assomigliare all’arpa elettrificata usata tanto nella new age: ma non ci si illuda, Lamine cerca di attualizzare ritmi e suoni attraverso una evoluzione interiore che non preclude aperture, ma risulta pur sempre legata a un costume specifico. Specie il secondo compact appare godibile negli assolo della kora, ed  è più scontato nei brani cantati perché l’accompagnamento indulge a un linguaggio  incline al  country & western.

 

 

Percussioni d’Africa

 

            Generalmente, l’attenzione degli occidentali si focalizza sulle varietà di percussioni ‘nere’, e sulla complessità dei ritmi incrociati, ed ecco una efflorescenza di compact: Les génies noirs de Douala [104] prende il nome da un gruppo che ha lavorato, oltre che con Myriam Makeba e Manu Dibango anche con i nostri Tullio De Piscopo e Tony Esposito. Il bel disco offre una panoramica sulle danze caratteristiche del Camerun, come ad esempio la Tchokoto, per la nascita del primogenito, o il famosissimo Soul Makossa, danza moderna del popolo Duala. Notevole l’intento di unire le diverse etnie di un paese che rappresenta un po’ l’Africa nella sua interezza, con tutta la complessa serie di implicazioni politiche: vere e proprie mine vaganti innescate nel corso del colonialismo sono poi esplose a programma, mettendo l’una contro l’altra  forze altrimenti naturalmente coese.

            Molto più attento ad aprire strade di conoscenza interiore attraverso l’incantamento e la malia del ritmo è Mustapha Tettey Addy, originario del Ghana: «un maestro di tamburo deve mostrarsi capace di captare l’energia degli altri, e di rendergliela nuovamente attraverso la sorpresa della loro stessa riscoperta». E in effetti lo strumento sembra produrre vibrazioni  che prendono alla bocca dello stomaco: il rilascio del battere ha una flessibilità tale da essere estremamente comunicativo.  Il ritmo, nei lunghi assolo, assume forme cangianti, e mantiene desta e attiva l’attenzione del fruitore. Non mancano gli esperimenti: affascinantissimo, e quasi orientale, il suono di Gongs Ga, dove tubi di metallo sono percossi con una bacchetta di legno duro[105].

            Sempre nella scia della tradizione, con uno scivolamento folclorico di troppo, è la musica dei Batimbo, enclave familiare trasformatasi in gruppo di maitres-tambours du Burundi: un compact che li concerne[106] riproduce uno dei loro spettacoli, con tanto di entrata in scena, ma non fa giustizia di quello che deve essere stato l’effetto visivo e scenografico dell’impianto complessivo; le voci si percepiscono troppo in lontananza.

            Non pochi dischi sono dedicati alle percussioni africane, alcuni antologici, altri monografici. Tra i primi c’è sicuramente Balafon et tambours d’Afrique, in due volumi[107], con una silloge della musica percussiva di Camerun, Guinea, Senegal, Tanzania, Togo. Qui le percussioni sono veramente nude, senza orpelli, e presentate nella loro ricchezza ritmica, per la maggior parte senza accompagnamenti cantati. Notevole anche la collezione di strumenti impiegati, dal balafon alle maracas e ai sonagli. Un secondo volume è dedicato a Koko du Burkina Faso;  presenta sue  composizioni originali che includono spesso anche il canto, è godibile ed estroverso, ma la lunghezza dei brani risulta eccessiva per l’insistenza delle percussioni. Queste si susseguono in modo lineare, anche se -come in tutta la musica africana- si sovrappongono ritmi d’ogni tipo. Le permutazioni interne sono poche, e non facilmente percepibili per gli occidentali. Anche Percussions D’Afrique presenta  quattro brani raccolti in occasione di cerimonie religiose o civili, ma risulta quasi insostenibile per lunghezza  (il brano più prolisso dura 32’30”).

            Al secondo gruppo monografico appartengono Les tambours de Gorée e Percussions Mandingues [108], dedicati rispettivamente all’orchestra africana Djembé del Senegal ed al solista Adama Dramé, naturalmente ancora un griots. L’aspetto tecnico è qui notevolmente accentuato, ed il tamburo diventa un microcosmo con un suo centro ed una sua forza di gravità: l’abilità dello strumentista risiede nell’indirizzare i colpi in precise zone  della membrana, improvvisando e mescolando ritmi senza annoiare. Tutti traditional i brani raccolti invece nel disco dell’orchestra Djembé, proposti alternando canto e percussioni e sole percussioni; se si eccettua la prima lunga track (11’38”), le altre sono sufficientemente varie e più che sopportabili.

            A Nigeria, Etiopia e Camerun sono dedicati Nomades du Desert, Musiques Traditionnelles d’Etuiopie e Cameroun, Musique des Pygmées Baka [109]. A causa del loro itinerare, i nomadi hanno conservato un’antica tradizione vocale ipnotica, malinconica, solitaria: melodie che suggeriscono l’attraversamento, una metafora dell’andare che si materializza per pitch ricchi d’infratoni. I canti e le danze sacre dell’Etiopa rappresentano bene una musica più ricca, preziosa ed interetnica. Ancora una strumentazione prevalentemente percussiva individua la musica dei Pigmei Baka: gli strumenti melodici vengono sostituiti con gioviali cori a voci multiple ai quali si alternano solisti che procedono ad affascinanti permutazioni tematiche, spesso di una vocalità che si approssima al grido modulato.

 

 

L’India, o della densità del suono

 

            L’India è più lineare dell’Africa, la sua produzione più riconoscibile: si ascolti, ad esempio, Raga Multani [110],  con un’orchestra di sarangi, il più antico strumento ad arco di questo paese, tabla[111], shenhai (fiato) ed harmonium; la massima variazione ai canoni classici è nella diversa disposizione di alcune note; Ustad Munir Khan fornisce variazioni emotive, risulta riconoscibile per la profondità  e l’interna risonanza di raga pomeridiani. Ma straordinaria è la concentrazione, la densità di questi suoni che sembrano provenire da un metaforico altrove della coscienza, un luogo non accessibile ma denso di linee, quelle stesse linee definite da Michaux come un limite tra esterno e interno. Il sarangi  crea un effetto di bordone, con le corde libere,  come una cornamusa lanciata sull’orlo dell’infinito, lo shenhai intreccia con il sarangi (con le corde principali) variazioni tematiche dagli intervalli armonici impercettibili, una sorta di urlo mistico.

            Più consueta, ritmica, sofisticata e virtuosa (al modo di noi occidentali) l’interpretazione di Pramod Kumar dei raga[112]. La scansione perfetta di suoni in rapida successione tradisce l’origine da percussionista, e l’attacco deciso dimostra una sicurezza tecnica dovuta forse all’appartenenza ad una famiglia di musicisti. La strada prescelta è inequivocabilmente ‘esterna’, tant’è che Kumar viene considerato come l’erede  di Ravi Shankar, del quale è stato tra i più anziani allievi. Ma Shankar resta forse più aperto agli esperimenti creativi con l’occidente (si ricordi la sua collaborazione con Philip Glass). Una minore fluidità, una certa spigolosità, la ‘sforatura’ di certi suoni (è un eccesso in relazione alla portata emotiva e  musicale, non tecnica) ci fanno così ancora prediligere il maestro. 

            Alla musica folk dell’India del nord si consacra l’omonimo disco per la serie Unesco / Auvides[113]: in rapida successione i canti per la stagione delle piogge, quello per l’avvento della primavera, il devozionale musulmano Qawali, composizioni per flauto e mandar con Johan e Tibha Pahan, o per l’ensemble di Lahura Matho. Non ci si aspetti da questo compact altezze trascendentali: il territorio è prevalentemente folclorico.

 

 

Il ghetto di Varsavia

 

            L’esemplare contrapposizione tra la world africana e quella indiana mostra come possa essere estremamente difficile distinguere, all’interno della produzione musicale di un paese, l’impulso etnico e quello globale. Un’altra scuola di pensiero inserisce la world in una costellazione che ha come punte d’iceberg il rock d’avanguardia, l’etnopop, la contemporanea e molte delle ‘new’  (acoustic, beat, eccetera), e come fulcro l’attenzione per quelle nuove sonorità  poggiate sulla fusione delle tecniche. Ha certamente contato, nella formazione di un linguaggio profondamente contaminato, l’evoluzione delle singole espressioni pop di ciascun paese: molte delle voci più  originali hanno cominciato ad allargare i confini delle loro produzioni folcloriche attraverso incroci con artisti della più svariata provenienza. Questa pratica, nel jazz, ha finito con l’organizzare le varianti secondo scanzioni formali più o meno collegate al genere. Il pop, invece, ha mantenuto le devianze per quel che erano: vere e proprie ventate di ‘nuovo’ che investivano  ritmi, timbri, melodie. Una grande vitalità, legata ad esempio alla produzione della cosiddetta ‘afro’, già qualche anno fa non appariva più mascherabile o incanalabile in standards, ma andava a collocarsi in un filone proprio, talvolta più etnico, talaltra incastonato al rock, ed oggi addirittura legato al rap.

            Quelli che hanno preferito guardare alle produzioni più tipicamente tradizionali, a quelle scevre di sonorità etichettate come occidentali, hanno biasimato i musicisti e le opere che invece si lasciavano sedurre dal west sound, dalle pratiche strumentali e stilistiche  più facilmente riconoscibili da noi occidentali. Youssou N’Dour si è fatto portavoce del fastidio  di questi artisti, parlando di una ghettizzazione arguta,  furba e molto articolata.  Individuare le differenze tra generi nella semplice provenienza geografica, prediligere il sound tradizionale a quello moderno, di fatto inibisce la «possibilità di un’espressione non compromessa» e rende irrealizzabile uno sviluppo che i musicisti africani ritengono oggi necessario e improrogabile.  Che si parli di afro music, che si allarghi la qualifica alla world music, sempre di ghetto si tratterebbe: confini eretti a difesa di un consumo e di un mercato già di per sé saturi, o, il che è peggio, a difesa della purezza dei linguaggi. Una musica che resta identificabile ripropone in eterno il problema della differenza, che qui è  differenza di valore tra espressioni auree ed alte (quelle occidentali) ed espressioni viscerali e incolte, in fondo di ‘colore’ locale. Fino a che le gerarchie non diventeranno insiemi di quantità che evitino giudizi di valore i guai non diminuiranno.

            E con queste consapevolezze si ascolta con particolare commozione il lavoro di Sarah Gorby, premiato come documento storico dalla Accademia Charles Cros, Les Inoubliables chants du Ghetto[114], frutto della ricerca sui musicisti morti nei ghetti durante gli anni della Grande Tragedia: diversi confini, comuni sofferenze e atrocità.

            Il timbro vocale della Gorby è certamente molto caratterizzato: incisivo, doloroso, ironico, e  a tratti beffardo (ricorda un po’ quello di Lotte Lenya). L’interprete riesce a condensare, con agogiche oggi irreperibili altrove, il canto di rassegnazione e di protesta di chi ha subito il più grave torto alla dignità personale e umana.

 

 

Etnica o contaminata?

 

            Così, la world presenta da un lato una musica legata al folclore e più attenta alle origini, alla «nobiltà ed antichità» dei generi tradizionali (come riferisce un famoso cantante di Maqam), dall’altra interpreti che hanno coscienza delle continue permutazioni del passato, dei prestiti che già gli antichi stili presentavano, lanciandosi senza indugi nella sperimentazione di forme evolute da quei suoni tradizionali. Tra questi, i ‘progressisti’ cercano un territorio comune ai diversi linguaggi, intuiscono gli stilemi condivisibili, vanno infine verso il Global Village. In tutti e tre i casi ci troveremo in presenza di varianti della world music: etnica, contaminata, globale (o fusion), se prevalgono spinte che valorizzano i percorsi interni, quelli esterni o quelli comuni a tutti.

            Nella world etnica (la cui etimologia greca richiama l’idea di ‘moltitudine’) rientrano alcune delle registrazioni di Gérard Krémer, che «raccoglie in diretta suoni e riflessi» delle musiche popolari più legate alla tradizione. Dall’Algeria deriva la musica Chaabi, sorta di poema ritmato, e la Zorna, altro genere utilizzato in cerimonie religiose o laiche di particolare importanza[115]; dall’Irlanda esporta ballate, danze, inni di brevissima durata per Irish harp, o arpa celtica, flauto e banjo, naturalmente abbastanza sconnesse dal presente[116]; suoni coloriti, naturalmente, da Cuba, con alcuni dei brani più eseguiti nei carnevali: Salsa cubana, El Carabli, La Timba, Guantanamera[117].

            Alcuni esempi di world contaminata sono Celtic Odyssey, The Road North, New Land, Alma del Sur. Il primo[118] è un viaggio  metaforico attraverso la musica contemporanea celtica, e si pensa immediatamente alla Whindam Hill  (come non riferirsi ad altri solstizi d’inverno?), anche perché si tratta di una compilation di artisti diversi. Convince il dinamismo di The Butterfly, un racconto estremamente delicato disegnato da Orison, e tratto dall’album Celtic and Contemporary Instrumental Music[119]. Più energico Dònal Agus, dove Altan rifà il lifting a un traditional. Assoli d’arco, con ambientazione, per Calliope House e Trip to Skye, e un suono fortemente emotivo (alla Balanescu, per intenderci) per  Are Ye Sleeping, Maggie? , dove Alasdier Fraser dà sfogo ad una vena motivica che fa tesoro anche della lezione classica. In Tribute to Peadar  Dònal Lunny sembra citare i  viziosi circoli armonici e tematici di Oldfield. Meno godibili i brani anche vocali, forse troppo legati a fonemi individuabili per parlare al resto del mondo. Nello stile della ballata The York Reel/Dancing Feet, che porta alla conclusione un disco vario e sicuramente in grado di offrire una bella panoramica sulla musica celtica rivisitata nello stile globale. Sempre d’origine celtica le sensazioni e certi nuclei tematici suggeriti dal violinista scozzese Alasdair e dal pianista Paul Machlis in The Road North[120]. L’unico traditional ci pare essere la Melodia Gaelica, dove con struggente lirismo s’afferma l’amore per una musica senza confini di tempo. Il resto delle tracks è perlopiù bipartito, fondendo insieme melodie dei due artisti, oppure presentando collaborazioni incrociate con altri. È il caso di Bennachie Sunrise/Willie’s Trip to Toronto, scritto da Machlis ed Holland[121], introdotto da un assolo d’arco non privo di piccoli aggiustamenti infratonici, e poi il via a una  ballata irlandese con chitarra e violino. Calliope House / The Cowboy Jig è invece frutto di contaminazione tra un brano di Richardson e un traditional: alla lunga questa musica può stancare, specie quando lo sviluppo è eccessivo. Da segnalare la presenza di musicisti della Windham Hill: Billy Oskay, Michael O’Domhnaill e Tommy Hayes.

            Spostandoci in Sud America, ma restando sempre nell’ambito della world contaminata, ecco New Land[122], dell’argentino Bernardo Rubaja, la cui ambientazione è però più vicina alle atmosfere rilassate di certa new age che ai ritmi sudamericani: la sua musica scorre come olio, e starebbe assai bene nelle compilation della Grp. Alma del Sur [123] ha certamente la pelle più scura: a Rubaja si affiancano il chitarrista Nando Lauria, l’arpista (suona un’arpa paraguayana) Roberto Perera, Carlos Guedos, Junior Hamrich, Matthew Montfort degli Ancient Future e tanti altri: ecco allora venir fuori quello che ci aspetteremmo da una silloge dedicata a (emergente da) quelle zone: dalla marcetta ammorbidita e assai gustosa di The Hill of Seven Colors dello stesso Rubaja all’acquatile New Amazon, con percussioni e voci che s’innestano su sciacquettii d’ogni genere. Bella la chitarra in Las Marianas del gruppo Gurrufìo, evidentemente ispirato alla tradizione venezuelana, effettivamente «spontanea, improvvisata, inaspettata».

            In dialetto occitano e provenzale le canzoni di Riccardo Tesi e Patrick Vaillant in Véranda e Anita Anita [124]. Le songs sono prevalentemente brani originali di Tesi, ma non mancano arrangiamenti da traditional. Se qui è presente una certa contaminazione, il movimento mi pare essere più quello di ottimi artisti che guardano al repertorio dialettale e locale piuttosto che quello della ricerca che parte dalla terra e lambisce infine perimetri lontani. Pochi gli interventi soltanto strumentali, dove forse si osa di più.

            Uno specialista di tango il bandoneista Olivier Manoury, che con Michael Nick, Isabelle D’Auzac ed Enrique Pascual, indulge al jazz ben più di quanto non facciano Astor Piazzolla ed il suo naturale erede Richard Galliano, forse anche con minore originalità: ma il suo Tangoneon[125] resta gradevole, anche perché offre una panoramica non solo sul tango, ma anche sulla candombe e sulla milonga. Particolarmente dolce e struggente (non quanto il quintetto di Piazzolla), Llovisna di Enrique Pascual, e l’espressiva Milongue di Olivier Manoury.

 

 

La world globale

 

            Alla world globale o fusion possono ascriversi, ad esempio, gli Ancient Future, che Piero Scaruffi collega ai Do’A di Randy Armstrong e Ken LaRoche. A Quiet Fire (Narada Lotus 1012), la chitarra di Alex De Grassi, noto ai cultori della new age, e il sound complessivo, danno una parvenza  un po’ più commerciale rispetto ai  lavori precedenti[126]. Così l’effluvio un po’ sudamericano, un po’ indiano, un po’ new age di Caged Lion Escapes di  Matthew Montfort travasa di traccia in traccia fino alla dolcezza incantatoria di Hillside View di Randy Mead, con le cascate d’arpa celtica di David Michael, ed alle suggestioni rinascimentali di Candlelight. L’impatto iniziale di Dreamchaser [127] mescola chitarra elettrica e sitar, tampura e percussioni africane, con la prevalenza di un suono indiano in Edge of a Memory ed africano in Chant of the C Schell, con tanto di cori in stile. Ma le suggestioni restano superficiali, non sempre fuse in modo omogeneo, ed un po’ ripetitive. In Andrean Dream  l’imprimatur è smaccatamente cileno, e così via, fino al brano migliore di un album tutto sommato prescindibile: l’Ode to Ajanta di Ian Dogole, orientaleggiante.

            World whithout walls [128] ha già un programma fin dal titolo: mondo senza mura, senza confini. Lakshmi Rocks Me  è la prima dirompente traccia, sicuramente arricchita dalla partecipazione di Zakir Hussain alla tabla ed alla kanijra. Stucchevoli invece le sintetizzazioni di April Air, veramente da demo-song. Un’atmosfera alla Vollenweider permea nel bene e nel male anche i brani successivi, con punte di Turchia ed India qui e là. I due brani Alap  e Indra’s Net, quasi introduzione e sviluppo, mi sembrano straordinariamente riusciti, e confermano a chi abbia conosciuto le musiche di Luciano Cilio quanto questo artista abbia preconizzato le sorti della musica futura. Gopi Song, col piano di Dough McKeehan e ancora  Zakir alla tabla, mezzo Clayderman, mezzo Kitaro,  chiude un compact più che soddisfacente.

            Il tipico attacco dell’arpa da tavolo giapponese gu zeng di Zhao Hui lancia Asian Future[129], e senza pause subentra il ritmo incalzante e disinibito di Bookenka, con un mix di jazz ed Asia: una pietra miliare per gli Ancient Future. Mezgoof, di Ian Dogole, ricorda la musica del Pakistan, con percussioni e sintetizzazioni che si muovono su un bordone pieno e comunicativo: un movimento straordinario che concilia le esigenze interiori e convince per la varietà e l’articolazione del percorso. Sumbatico ha in corpo molto più jazz che nel passato, Ja Nam si affaccia addirittura sulla musica vietnamita con l’uso del Dàn Bàu[130] fondendosi ad un ritmo reggae. L’affermazione di questa musica è apodittica; gli Ancient Future più che sperimentare affermano con sicurezza e leggerezza la commistione. E il disco diventa imperdibile.

            Altro esponente rilevante è Michael Pluznick, compagno di Jim Chappell in Saturday’s Rapsody [131], col primo cd solistico Where the Rain is Born[132]. Le percussioni soffici si intrecciano ad un tessuto massimale alla Borden in Savannah Dance (è il computer di Peter Scaturro a creare il meraviglioso amalgama). Tanta Africa interiore è mutuata da Rites of Passage: perché non confrontare le sintonie e simpatie con Mustapha Tettey Addy, anche per l’assolo di The City’s Reflectio ?

            Introspettivo anche quando pianamente ritmico, Pluznick ci convince pure in brani radiofonici come Desert Crossing, introdotto da un delicato gioco di percussioni ed effetti speciali. Da Time caravan si affaccia Brian Eno, e da Big Foot un morbido jazz sound. La voce di Maria Rodriquez fa da background alla title-track, che anche qui chiude il disco.

            Acqua che scorre e voci ‘nere’ danno il via a Cradle of the Sun[133]: una piccola introduzione traditional (1’20”) cementata con l’avvio di un basso ed una chitarra elettrica, un pizzico di rock e tanta Avana: una musica già più ‘fuori’, meno ripiegata su di sé, e quindi anche fluida, qualche volta non omogenea: stacchi multipli dividono le tracks, in molti brani è presente la voce, l’ambientazione è sicuramente vicina alla new age, se non fosse per la solida presenza del basso: reminescenza anche questa di tanta musica africana. Anche qui  fa bella mostra di sé il computer di Peter Scaturro, specie nei nove minuti e oltre di Guardians Of Nature. Cosa che chiarisce abbastanza bene cosa si può intendere per rivisitazione della world etnica.

            Ancora più aperto e solare Rhithm Harvest [134], come indica il titolo: una efflorescenza di ritmi da Haiti, Kongo, Senegal, Cuba, Mozanbico, e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di una parentesi o di una nuova vena per Pluznick? Fatto sta che, a parte l’argento vivo che questa musica riesce ad incollare sull’ascoltatore, viene da pensare ad un passo da granchio, un ritorno alle origini dei ritmi diversi. Questo ci fa preferire sicuramente il percussionista un po’ introverso e decisamente pensoso di Where the Rain is Born.

            Pierre Jean Croset, in Harmoniques du temps Overtones of all times [135], propone a sua volta una reinvenzione creativa ed interiorizzata dei suoni della Cina antica, esercitando sulla lira armonica ipnotizzanti variazioni melodiche che paiono miracolose per l’esiguità dello strumento. Quest’ultimo, con diciotto corde fissate su un pezzo di cristallo, trasmette vibrazioni straordinarie, trasparenti come le ali dell’Hetaera Esmeralda.

            Originale e creativo l’assortimento proposto da Mikhail Alperin in Prayer[136] con Arkady Shilkloper e Sergey Starostin. Il pianista russo presenta alcune delle sue composizioni più intense, non disdegnando d’usare topoi melodici russi incastonati sul particolarissimo canto gutturale mongolo. In Prayer Part 1  si sprofonda in luoghi lontanissimi per cultura e densità spirituale con la leggerezza tipica della world globale, ovvero senza eccessivi appesantimenti etnici. Straordinario l’accostamento tra pianismo classico, jazz, armonie ‘nuova era’ ed elementi etnici, di Talk for Trio: raramente si è ascoltata una  commistione di tale omogeneità, capace di suggerire istantaneamente un climax tra voce e pianoforte, talvolta ironico, talaltra giocoso, sempre teso ad una comunicazione forte, alla faccia della crisi della musica e della morte dell’arte. Un lavoro bellissimo, pieno di sorprese.

 

 

Percorsi trasversali: etnica mistica o religiosa

 

            Più percorsi trasversali sono possibili nell’ambito della world. Uno, particolarmente affascinante, ripercorre l’Asia e parte dell’Africa alla ricerca di nessi comuni o di significative differenze tra religioni.

            Partiamo dall’estrema appendice subcontinentale: lo Sri Lanka. In Musiques Rituelles et religieuses [137] sono raccolte registrazioni effettuate nel 1979 da una spedizione etnomusicologica svolta in collaborazione con de Silva Kulatillake. Il fatto che il Ceylan sia posto sotto il subcontinente indiano non impedisce che un gran numero di religioni vi abbia attecchito nel tempo. Tracce dei culti fallici e dei riti di fertilità si mescolano con il culto brahmanico. Nel tempo ci si è rivolti ai démoni vedici e a credenze induiste, fino all’arrivo dei calvinisti olandesi e dei gesuiti portoghesi. La musica, come ad esempio nella lunga cerimonia del pirit, si muove su un bordone di percussioni molto poderose, e due o quattro esecutori giocano antifonalmente anche con modulazioni microtonali.

            In India del Sud troviamo la ricca raccolta dei veda, che come è noto ospita in differenti sezioni inni dedicati a divinità indiane, alla grande origine del tutto[138], a formule magiche e preghiere. Nel Rigveda, o veda delle melodie, sono raccolte strofe dedicate al culto sacrificale. In Musiques Rituelles et Théatre du Kerala [139] vi sono esempi di insiemi cerimoniali, recitazioni di veda, mescolati ad esempi di teatro rituale, come quello danzato sanscrito Kutiyattam. Si tratta di un disco molto evocativo, che presenta differenti stili espressivi della musica carnatica tipica dell’India del Sud, dai suoni prolungati e ipnotici della vina alle recitazioni ritmiche, sorta di ‘salmodia diretta’.

            Musique traditionnelle de danse Odissi [140] presenta musica di danze sacre e repertori del teatro tradizionale della provincia di Orissa, situata sulla costa est dell’India centrale e al centro di scambi interculturali,  di fusioni etniche e stilistiche. L’incipit è costituito da un saluto al Dio Ganesha, accompagnato da vina, cimbali e flauti di canna. Un solista vi traccia melodie con impulsi ritmici particolari, ripetuti con varianti, con la bellissima Moksha Nata, una preghiera a Shakti, la Madre Divina, che chiude il discorso.

            La musica dell’India del Nord, pur adottando la medesima terminologia per i raga, è notevolmente differente da quella carnatica del Sud, e si caratterizza come musica indostana. Sempre in Musique Populaire de l’Inde du Nord [141], assieme ad esempi strumentali folclorici per tamburo solo e flauto e mandar, ci sono tracce di canti devozionali musulmani Dhun, canti sufi eseguiti dal gruppo di cantori del santuario di Nizamuddin (nel Corano, l’idea dell’Onnipresenza di Allah è frequente), e i canti religiosi Bhajana.

            Avvicinandosi al Tibet, ecco Chants et Danses du Népal[142], canzoni di lavoro della casta dei musicisti-cantori Gainés, ma che offre anche l’occasione per riascoltare il sarangi[143].

            A metà strada tra India e Nepal  si situano diversi santuari tibetani. Preghiere del mattino dei monaci  di Bodh Gaya (India), percussioni da Swayambunath (Nepal), rituali della sera da Dharamsala (sempre India), sono rintracciabili in Musique sacrée des Moins Tibétains[144]. È interessante la registrazione delle lunghe trombe tibetane, che lanciano messaggi lontano nello spazio, ma lasciano vibrare il corpo di chi le suona. Le preghiere dei vari rituali accoppiano non solo i suoni bassi dei Tuva o di altri popoli della Mongolia, ma anche voci nasali abbastanza inquietanti. Con Tibet: Traditions rituelles des Bonpos[145] ci si sposta invece nella zona sotto l’Himalaia, a Nord-Ovest dell’India. Qui si ascoltano i suoni densi e profondi dei monaci, nella versione dei Bonpos che rinnova e perpetua tradizioni a rischio di scomparsa. Diverse cerimonie, rituali, musiche processionali, sono in Tibet: Musiques Sacrées[146], registrate tutte a Nord-Est del Nepal, nella provincia di Khumbu.

            La Russia presenta una varietà sconfinata di tradizioni e stili. In Chants Des Peuples De Russie[147] possono reperirsi registrazioni in grado di offrire una panoramica sul folclore (canti nuziali, lamentazioni funebri, etc.) di zone differenti, dalla regione di Tula a quella tartara. In Russian Orthodox Chants[148] può godersi il suono di raccolta dei fedeli delle campane del monastero Novodevitchi  mescolato a canti della liturgia divina  in cui solisti si alternano al coro, ed esempi di canoni e litanie. Il disco si chiude circolarmente, col suono delle campane che ritorna.

            Spostandoci ancora più a nord, si arriva al buddismo lamaista della Mongolia. Registrazioni rarissime ed estremamente interessanti sono in Mongolie, Chamanes et lamas[149]. Si va dalle pratiche officiali legate al buddismo dei lama a quelle misteriche degli sciamani, con veri e propri ‘viaggi’ condotti da nenie accompagnate, imitazioni di animali magici. Un primo sciamano si chiama Darqad, e col suo canto accompagnato da sola percussione augura buon viaggio agli occidentali che sono arrivati fin lì per conoscerlo. Il secondo sciamano, invece,  effettua un rituale magico-medicamentoso. Notevolissimo anche l’incipit dell’Ufficio del “Tchogtchin Qural” del monastero dell’Erdeni Zuu.

            Gli Chants Liturgiques Arméniens [150] appartengono ad una branca autonoma della famiglia indo-europea. Sono stati registrati nella comunità di San Lazzaro a Venezia, dove nel tempo l’ordine dei Mekhitaristi ha tramandato la conoscenza e lo studio dei neumi della tradizione musicale bizantina. Gli armeni adottarono la religione cristiana nel quarto secolo, istituendo nel quinto il rito ortodosso. Solo  dopo molti secoli una parte della chiesa armena riconobbe la supremazia di Roma fondando il Patriarcato Cattolico. Queste vicende epico-religiose fanno sì che l’interpretazione neumatica si presenti particolarmente interessante, probabilmente meno edulcorata rispetto a quella tramandata in Occidente.

            In Chants liturgiques byzantins de Grece [151] l’ Ensemble Théodore Vassilikos presenta una scelta delle melodie della chiesa ortodossa greca. Gli inni compresi nel disco sono prevalentemente del XVIII secolo, quasi tutti sullo schema della salmodia, con un solista che effettua i melismi (molto contenuti, per la verità, seguendo il trattamento sillabico piuttosto breve che caratterizza l’innografia bizantina di quel periodo), ed un coro che l’accompagna con un cantus firmus dai movimenti statici. Per avere un ‘controcanto’ della produzione bizantina pagana, ricordiamo la serie curata da Christodoulos Halaris per Orata, con un ricco apparato storico e iconografico.

            Conquistano i suoni lunghi dei dervisci turchi, placidi nel loro scorrere, risonanti per cavità interne con le microndulazioni simili a pitch vocali, veramente portatori del messaggio di inazione del misticismo sufi. Differenti cerimonie, quella dello Zikr e del Mevlevi sono contenute nei due dischi Chants des Derviches de Turquie  e Musique Soufi[152]. Sempre dedicato ai dervisci, alla cerimonia dei Mevlevis (o dei dervisci rotanti) è il monografico Le Ney Turc[153].

            Spostandoci di continente ritorniamo in Africa, scontrandoci col mare magnum della musica religiosa. Interessante è Messe et chants au Monastere de Keur Moussa[154], che muove dall’originale idea di accoppiare dodici monaci francesi che si ispirano ai solesmensi e dodici percussionisti senegalesi. La dolce melodia di J’ai vu l’Eau vive è accompagnata dall’assiko, una percussione formata da un telaio in legno sul quale è montata una pelle di montone. Il tutto è suddiviso in due parti: dopo i canti da messa, quelli al monastero, composti prevalentemente su testo tratto dai Salmi. Curiosa la somiglianza della Improvisation pour flute et kora con tante danze rinascimentali per flauto e liuto.

            Registrazioni interessanti del Ciad sono raccolte da Monique Brandily in Tchad, Musique du Tibesti, che presenta canti di donne e bambini, raccolti in occasioni cerimoniali e non, come i canti di matrimonio o di circoncisione.

            Le sovrapposizioni tra musiche e culture religiose differenti hanno certamente propiziato l’emergenza di messe contaminate. In Camerun sono presenti semi religiosi differenti: animisti, cattolici, protestanti e musulmani. Gli ultimi arrivati furono i cattolici, nel 1890, che subito istituirono scuole e missioni, col risultato di molti animisti convertiti al cattolicesimo. Un esempio di messe in cui all’impianto formale, alla scanzione dei tempi, si mescolano i ritmi africani è in Messes au Cameroun[155].

            Una traccia sonora della tribù d’Ait Said, aderente alla fascia musulmana che predilige il sufismo, è in Maroc, Musique sacrée et profane[156]. L’invocazione del dio avviene attraverso danze estatiche accompagnate. Ne è un esempio la Jdeb che accoppia flauti e percussioni. «Non ha amici chi non danza al ricordo dell’Amico», recita un mistico musulmano: la Jdeb procede dapprima lentamente, coi flauti che ronzano attorno a note predominanti, poi si sposta in altezza e velocità, in un crescendo che richiama la presenza divina in antiche confraternite di origine guineane.

            La musica liturgica Etiope non prevede l’uso di strumenti a corde; soltanto percussioni rudimentali (come il tamburo tromboconico kabaro) accompagnano i Debteras, sorta di poeti e cantori da chiesa. L’Etiopia è prevalentemente cristiana (copto monoteista), i canti  sono di tre specie: l’ araraye  e lo ge’ez vengono usati durante i periodi  di Pasqua e Quaresima. Il modo ezel è invece il più comune, usato per le celebrazioni funebri, le veglie e le più importanti liturgie. Un esempio di questi modi è in Ethiopie, Musique traditionnelles[157].

 

 

Percorsi trasversali: musica sacra oltre ogni confine

 

            Una religiosità particolare permea l’opera di alcuni compositori europei che sembrano collocarsi al di là del tempo e dei confini.

            Tra questi vi è l’italiano Giacinto Scelsi. La sua produzione, dopo la conversione dalla fase dodecafonica a quella del ‘suono unico’, ha una matrice spirituale di tipo orientale, ed è evidente fin dai Quattro pezzi su una nota sola per orchestra, definiti da Metzger come «il paradigma della sua musica»[158]. Nel 1982, a sessantasei anni suonati, esce il suo primo disco monografico; poi gli accessi si susseguono a raffica. Sono straordinari Uaxuctum  per orchestra e coro, ma anche Hurqualia e  Chukrum[159]. La Fondazione Isabella Scelsi ha poi coprodotto con Salabert, sotto la direzione di Aldo Brizzi i quartetti con l’Arditti String Quartet, Khoom e il Trio[160]. Ma il monografico interamente dedicato alla musica sacra prende titolo dal suo nome. Giacinto Scelsi [161] comprende i Tre canti sacri del 1958 eseguiti dal Groupe Vocal de France diretto da Michel Tranchant, ed il corpo della produzione degli anni ‘70, che sperimenta le possibilità della voce e di alcuni strumenti solisti: Three Latin Prayers, con una toccante Ave Maria, un Pater noster e un Allelulia ; In nomine Lucis, con l’organista Eric Lundquist; l’Antifona per coro e Pranam II,che prende il suo nome da gesto di saluto e preghiera indiano. Pranam II  è del ‘73; viene eseguito per la prima volta a Roma nel ‘75 da De Bernard, ma nel disco è condotto dall’ensemble specializzato 2E2M  diretto da Luca Pfaff. Di questo pezzo esiste anche una versione più lunga diretta invece dal fondatore del 2E2M, Paul Mefano[162].

            Anche Henryk Mikolaj Gorecki, il compositore polacco ‘oscurato’ fino al 1977 dai suoi più famosi conterranei Lutoslawski e Penderecki, scrive musica molto evocativa. Ha trovato infatti gran successo con la sua Terza Sinfonia, ora presente sul mercato con almeno due incisiosi che rivaleggiano in bellezza[163]. Tutti hanno cominciato a parlare del compositore di Katowice, dell’uomo legato ai monti Tatra, e questo ha generato il trascinamento di altri lavori, dalla rigorosa Antica musica polacca, basata su un organum del quattordicesimo secolo (Benedicamus Domino) al Totus Tuus, composto appositamente per la visita del papa in Polonia nel 1987[164]. Sempre una commissione del papa aveva occasionato l’imponente e rigoglioso Beatus Vir, che benché nulla abbia a che vedere con la minimal, ripete il Domine iniziale con insistenza monolitica. In seguito sono stati pubblicati il Miserere, dal flebile e sommesso inizio, ma con una poderosa architettura, e la prima opera per coro non accompagnato, Euntes Ibant et Flebant[165]. Tutta la musica di Gorecki sembra arrivare da lontananze ineffabili, da certezze mistiche che appartengono a pochi uomini. E tuttavia il linguaggio non è semplicemente arcaico, la sua diversità è sempre figlia di questo tempo: si tratta di una mistica congelata in sacche di resistenza, per usare una terminologia foucaltiana.

            La Berliner Messe, affiancata ad un Te Deum e ad un Magnificat[166]  sono pezzi rappresentativi del compositore estone Arvo Pärt, accoppiate a Werner Bärtschi che suona al piano Fur Alina, in cui un linguaggio semplice, una struttura appena appena deviante dai cliché, sembra come per miracolo legittimare ancora la composizione per uno strumento divenuto oggi quasi afono (per ridondanza di repertori e sovrabbondanza di virtuosi). Invece, la formula vincente di Pärt nella musica sacra sta nel conservare intatta una forte connotazione di senso anche in brani piuttosto lunghi, senza negarsi solennità ed espressività. Il suo Te Deum dura quasi mezz’ora, ma il filo dei crescendo, l’incalzare di una pulsazione affidata al basso clamore di un pianoforte, portano l’ascoltatore fino alla fine, richiamando,  per una volta ancora,  gli ampi respiri di una spontaneità quasi dimenticata nell’era dello sperimentalismo deteriore.

 

 

JINGLE-MAKER ARTISTA IPERMEDIALE

 

 

 

            Il musicista da spot è un esempio eclatante di erosione del mito dell’intellettuale. Lo jingle è in tutta evidenza una merce, diventa solo in un momento successivo qualcosa di molto rassomigliante al mito, perché circola in ogni casa trasportato dal video, ma anche  canticchiato, appena sussurrato dalle massaie, dai loro bambini teledipendenti. O sponda di riposo per le orecchie dei tassisti.

            Quando Alberto Abruzzese, anche in occasione della presentazione di “Rapporti Mondadori”, lamenta il ruolo critico dei custodi del sapere, il loro strabismo nel guardare alle nuove tecnologie, sollecita e solletica l’indagine sulle soggettività nomadi, magari cittadine, certamente ancora mascherate e sommerse. Non ci sarebbe che prendere coscienza dell’emergenza di questi nuovi soggetti, per ampliare le consapevolezze estetiche apparentemente arenate sui trascorsi francofortesi, e ora a ridosso dei francesi Baudrillard e Nancy. Però non sarebbe male ricordare che è soprattutto il soggetto europeo a subire lo spaesamento per la trasvalutazione del linguaggio. E che l’Altro (rosso, giallo, nero, per citare Nancy)  ci dà l’opportunità di riconsiderare le opzioni, il menu, della nuova informatizzazione. Il suo ‘ritardo’ ci fa modificare lo screen, e temere che le dinamiche di libertà predisposte per uscire dal ‘sistema potere’ possano rivelarsi ancora una volta come terribili ed efficienti strumenti di controllo. L’accusa rivolta agli intellettuali, ed anzi ai «cultori delle forme postmoderne» che si occupano di tutto ciò che è deriva (anche consumistica), rende la stessa deriva “trasgressiva”, come la definisce Abruzzese. Ma ciò non vuol dire che ignori i conflitti col sociale, indagando proprio le nuove forme soggettive tra estetica e cultura.

            Il soggetto europeo/statunitense è soggetto ad azioni di disturbo, viene dopo la lingua, i suoi semi sono nell’anteriorità della storia e del linguaggio. Ma è ancora Heidegger che parla, e  solo di uno dei soggetti possibili. Non si può auspicare che riferendosi alle avanguardie si dia già per scontato tutto il ragionamento sullo scontro sociale? Ad esempio, proprio lo jingle-maker non fa che affiancarsi al cibernauta, perché quando si adatta camaleonticamente a rifare Springsteen, nell’ottica mobile dell’estetica del plagio, predispone materiali eccellenti per il viaggiatore ipermediale. La portata dei nuovi scenari, offerta al cliente/fruitore in forma di spot, e corredata da jingle accattivanti, dovrebbe già essere in grado di parlarci anche della cancellazione della rappresentanza politica (cosa accadrà quando in rete ciascuno potrà virtualmente alzare la mano per votare?), dell’abbattimento del diritto d’autore, dell’affievolimento della proprietà per ciò che concerne l’opera d’ingegno. Cosa altro sono Franco Godi, Riccardo Cimino, Lele Marchitelli, se non figure nomadi, artisti veramente ipermediali, abitanti volatili dello schermo? Si occupano di prodotti commerciali, e costruiscono musiche su spot. Lo jingle presuppone l’industria, ma questo è sufficiente  per innalzare barricate attorno a suoni che vogliono essere funzionali? La musica d’arredamento non fa che abitare uno spazio, predisponendolo a transiti occasionali, e anche gli ascolti che derivano dagli schermi multimediali restano a pieno titolo oggetti estetici. Oggetti duttili, visto che presto sarà facile e agile modificarsi gli hit su cd-Rom o su Internet seguendo gusto e capricci personali.

 

 

NON SOLO RANDOM

 

 

 

 

            Nell’espandersi del tempo critico l’improvvisazione è stata trattata piuttosto male. Poi, per fortuna, alcuni musicisti viventi sono risultati in grado di pareggiare i conti, di offrire uno spaccato su che cosa davvero significasse improvvisare, e queste prassi hanno sostituito un mucchio di inutili chiacchiere.

            Tra le pieghe delle parole s’è celato, come spesso accade, più d’una delle incoerenze del nostro pensiero musicale, e qualche prospettiva illuminante è stata dedotta a contrario, dalla evidente contraddittorietà di certe tesi. Umberto Eco scriveva in un classico: «...perché l’opera ci sia occorre una compiutezza di disegno ed una singolarità di tono (irripetibilità, impossibilità di modificare i compiuti elementi dell’opera) che può essere attribuita all’intervento coscientemente produttivo dell’autore». Sentito? Intervento coscientemente produttivo dell’autore... Ma l’improvvisazione può davvero portare ad ‘opere compiute’ pur conservando uno spazio e un tempo del tutto estemporanei, ed immediati (non mediati)? I lavori di Zorn hanno forse compiutezza di disegno e singolarità di tono? ...quanti castelli per aria sarebbero crollati con l’assimilazione del post-moderno nel vivo del tessuto musicale.

            Anche Massimo Mila, uno dei più celebrati, a torto o ragione, maitre a penser della critica, dimostrava scarna chiaroveggenza. Sono sue le seguenti perle: «si può star pacificamente sicuri che tutto il meglio delle improvvisazioni di Beethoven e Schumann è passato nelle loro opere scritte»; «ciò che è andato irrimediabilmente perduto sarà scartato da loro a ragion veduta»; «nell’improvvisazione pianistica l’abitudine meccanica delle dita di ritrovare le posizioni familiari e consuete conduce generalmente a infilare collane di luoghi comuni». Luoghi comuni, davvero. Anche perché: l’improvvisazione mantiene viva la sua irriducibilità; quando si prova a trascriverla, come nel caso del concerto di Colonia di Jarrett, il doppio sta all’originale come polmoni d’acciaio a placidi sospiri. Inoltre, c’è totale divergenza tra le opere scritte a tavolino (proprio il caso di Jarrett è sintomatico: ogni freschezza è perduta in Bridge of Light, il cd che raccoglie la sua produzione più ‘meditata’) e quelle improvvisate. Infine, c’è un semplice assunto logico: qualcosa di ‘irrimediabilmente perduto’ non può davvero essere ‘volitivamente scartato’.

            Benché il passare del tempo abbia giocato a favore dei teorici e dei critici (anche dei critici musicali: perennemente in ritardo, solennemente reazionari, pervicacemente incapaci di autolegittimarsi e guidare le svolte dell’arte), c’è ancora chi di recente ha ritenuto opportuno segnalare un nesso più serrato del necessario tra improvvisazione ed interpretazione. Se è vero, come afferma Enrico Fubini in Estetica della Musica[167] che l’interpretazione-esecuzione è sempre un atto anche creativo d’esecuzione, è vero anche che così la bilancia penderà sempre in modo sproporzionato dal lato dell’interprete, che sta leggendo qualcosa di scritto, magari soltanto un canovaccio, ma  in fin dei conti conosce un’ espansione piuttosto costipata.

            E allora? Probabilmente sarà il caso di lavorare sul senso di costituzione dell’opera, vale a dire allargare la capacità di assumere opere valide esteticamente eppure non riduttivamente ancorate a forme date. Un’opera mobile, duttile, aperta a molteplici percorrenze di significato. Il ‘senso’ è qui il vettore direzionale che consente un eteroriferimento, che non si esaurisce nella semplice veicolarietà. Questa semplice acquisizione permette il superamento dell’incerto vagolio dei francesi Nancy e Baudrillard, e affida alla comunicabilità e all’espressione un senso non meramente crociano, ma illuminato dall’acquisizione di un ‘altro’ indifferenziato, e tuttavia privilegiato per la direzione che un mittente/artefice può consegnare all’opera (e a qualsiasi altra bordata di senso voglia ‘allontanare’ da sé). E’ un passaggio semplice, che tiene conto della possibilità del ‘dono’, riuscendo a eludere tutte le obiezioni di Baudrillard. E tuttavia, sorprendentemente, è ancora una acquisizione ignorata o poco valutata. Vorrà dire che anche in questo caso si attenderà il ponderoso volume di qualche cattedratico che la faccia propria, naturalmente ignorandone la fonte.

            L’improvvisazione oltre ad essere uno strumento privilegiato per rendere duttile il senso dell’opera, presenta in modo spontaneo certe caratteristiche poi defluite naturalmente in altre produzioni, altre consapevolezze dell’arte contemporanea. Tra queste: evidenza della contaminazione, allegra frequenza dell’errore, depauperamento del pregiudizio d’autore, valorizzazione del random, volatilità quasi virtuale del prodotto estetico, necessità del supporto multimediale per implementare l’improvvisazione con una maggioranza di utenti, senza intermediazione di fastidiosi esecutori/padroni,  senza pesantissime ipoteche legate alle nozioni di repertorio e scienza dell’interpretazione.

            A guardarla dalla prospettiva giusta, l’improvvisazione dis/vela davvero parecchi territori vergini.

 

 

IL BELLO DELLA COSA

 

 

 

 

 

 

Oggetto della nota

 

            Molte merci possibili, non solo nel gioco linguistico.

            Nozione ‘ampliata’, non ‘contraddittoria’.

 

 

 

Merce

 

            Non si è accettato che l’opera d’arte avesse anch’essa un valore di scambio, un’utilità sociale al pari di tutte le altre merci. Perché altrimenti le opere d’arte e d’ingegno sarebbero così difficilmente tutelabili? e perché l’attività musicale o artistica sfuggirebbe, nell’immaginario collettivo, la qualifica di ‘lavoro’? Nessuno si chiederà mai se il prosciutto che ha comperato sia meno prosciutto per il fatto che viene commercializzato. Molti hanno invece pensato che la vera arte non potesse o non dovesse trovarsi in vendita negli ipermercati. Che solo il suo surrogato popular, privo di valore estetico, potesse reperirsi sugli scaffali come il ketchap o la mozzarella.

 

 

 

Cortocircuito

 

            Invece la vendibilità di un’opera non tocca le sue qualità intrinseche. E ciò dovrebbe spingere al quesito sulle ragioni di un successo o di un flop. Rinvenute le risposte si potrà svoltare o continuare per la propria strada (cortocircuito).

            Molte opzioni non fanno male a nessuno.

 

 

 

Il bello della cosa

 

            Non si tratta dell’avvento di una totalità d’opere/merci. Non si invita a ripudiare la qualità estetica (occorre semplicemente reperirla ‘altrove’). Ci sono infatti cose senza valore (sostanza e grandezza, do you remember K.M.?) ma che mantengono valore d’uso; oggetti prodotti casualmente dalla natura che restano utilissime (ad esempio un intervento che semplicemente li decontestualizza li trasforma immediatamente in opere - o non lo sono già in loco?); ci sono cose, ancora utili, che pur se prodotte dal lavoro non sono merci: ad esempio quelle che produciamo per noi stessi (improvvisazioni al piano nelle quattro mura di casa propria).

            Una cosa prodotta per essere consegnata come tributo o dono forzato non sarà merce. Non basterà, cioè, aver prodotto la cosa per altri, ma dovrà esserci uno scambio, e quella cosa dovrà servire a quell’altro in virtù del valore d’uso. La non-merce perde il suo valore d’uso sociale. E se il valore è inutile, anche il lavoro lo è. L’opera d’arte, quindi, deve circolare. Una sua gratuità andrebbe proprio evitata.

            Naturalmente, si viaggia con Marx solo fino a un certo punto; fino a che è utile all’economia del discorso...

 

 

 

Merce camuffata

 

            Per Baudrillard una merce «funziona come valore di scambio per nascondere che circola come segno, e riproduce il codice». Il codice è quello che rimanda alla doppia allusività reale/immaginario tipica della società postmoderna. Se nell’ottica mercantile il  simulacro referenziale (un punto di riferimento utile a definire quantità e sostanza di valore) era costituito dal valore d’uso, la portata simbolica di quel simulacro si è ora spostata sul valore di scambio. Ciò significa semplicemente che il «potere» è propriamente quello capace di offrire un dono senza consentire la possibilità di un controdono. Possiede una eccezionale valenza esclusiva, perché la legge dell’equivalenza giocherebbe sul piano ambiguo dell’immaginario.

 

 

 

Snob

 

            L’opera d’arte extracolta, fabbricata col sordo lavorio autoaffermativo nei ricchi casali di campagna dai compositori di grido, perpetua davvero l’icona della falsità adorniana; essa sbugiarda la cultura perché non sente le emergenze che le sono intorno; si trincera nella sua incapacità di ‘andare oltre’, ‘andare verso’, consolata dalla pubblicistica specializzata e da una capacità masturbatoria tipicamente romantica.

            Quadra perfettamente che si condannasse l’opera capace di circolare, benché aiutata dall’industria (quella cosa d’arte verrà propriamente fabbricata, ad hoc). E non si è capito che quel passaggio intermedio portava ad una spersonalizzazione che poteva essere storicizzata, utile per fare un passo avanti, per staccare la spina del diritto d’autore, che è una forma di proprietà. Lo snobismo dei compositori colti è stato tanto lineare quanto incapace di leggere le dinamiche contemporanee. La loro produzione cerca disperatamente di non farsi merce, e ci riesce perfettamente. Rappresenta un caso a parte. Oggetti privi di valore d’uso personale (neanche il compositore gode del suo prodotto, non riesce nemmeno a smascherare gli errori durante un’esecuzione); privi di valore di scambio; frutto di un lavoro meticoloso e maniacale oppure manifestamente contraffatto: forse non proprio inutile ma certamente non proficuo. Opere per le quali è paradossale parlare di valore d’uso sociale. Scritte per ristrette cerchie amatoriali, dove ciascuno si gratifica fingendo di ascoltare le inutilità altrui.

            Pochi cultori, fin troppo snob,  alimentano cecità e ignoranza, incapaci di uscire da sé e andare verso il resto del mondo conosciuto.

 

 

 

Dono

 

            E’ il contraltare gratuito della merce. Alcuni lo distinguono in gratuito  e ‘rituale’, lasciandolo appartenere in qualche modo all’ottica dello scambio. Anche in questo caso apre parecchi spiragli di consapevolezza.

            Nell’ottica mercantile, si forza la nozione di merce assimilandola a «tutto ciò che circola». Ciò varrebbe anche per il dono, oggetto di scambio «purché non sia sottoposto al vincolo dell’anonimato» (Gerald Berthoud). Si tenga ben presente la frase appena formulata.

            Le due forme sociali del dono e della merce rientrerebbero, quindi, nell’ambito di uno scambio generalizzato; entrambe sarebbero forme di esteriorizzazione sociale dell’uomo; attraverso la loro ‘circolazione’ si chiarirebbe meglio il dentro/fuori dell’uomo e della comunità.

            MA: anche il dono rituale (‘rituale’ è improprio, come si precisa più avanti), pur se non anonimo e inserito nel circuito degli scambi può mantenere una forte veicolazione di senso. Ad esempio una stringa di comunicazione che modifica il sistema (del tipo: «dopo questo messaggio ancora attribuito cancellerai la nozione di ‘autore’») verrà circuitata e scambiata nel sistema comunicativo, verrà attribuita a un autore e tuttavia interromperà la catena della reciprocità o della continuità; non genererà, pertanto, gli obblighi prescritti da Mauss (obbligo di dare, ricevere e ricambiare), i quali si attenueranno progressivamente, avvicinandosi alle tipologie del ‘dono gratuito’. Del resto lo stesso Mauss riconosce che le contrapposizioni tipiche del linguaggio impediscono (nel decomporre -astrarre- e poi ricomporre -addizionare- i messaggi complessi) di comprendere interamente le opposizioni. Per lui è utile ricorrere ai termini di «confusione», «mescolanza», e simili, unici realmente adeguati a descrivere le dinamiche dello scambio e del dono.

            Per Guy Nicolas, invece, l’oggetto del dono rituale non avrebbe rilievo in quanto cosa materiale. Anzi, il suo valore di utilità si trasforma in valore di sacrificio. Perciò il dono rituale deve essere un oggetto ‘inutile’. Questa inutilità, naturalmente è circoscritta e riferita alle necessità primarie del ricevente. Si parla di ‘sacrificio’ perché ciò che sta sull’ara è proprio l’utilità dell’oggetto che «nell’ordine mercantile ravviva costantemente la ferita del bisogno, del desiderio», cioè sacrifica la merce. Ma anche così, anche il dono rituale, riesce comunque a liberare la cosa dal suo potere alienante, senza inficiare la funzionalità del mercato, ed anzi favorendola, grazie allo scambio simbolico.

 

 

 

Dono rituale

 

            Più propriamente, il vero dono rituale non dovrebbe essere spogliato delle sue valenze fortemente finalizzate; il suo valore dovrebbe risiedere nella capacità di veicolarsi andando verso l’altro, nella gratuità non sottoposta a condizione di reciprocità. La sua forma migliore sta nella caratteristica di indirizzarsi ad un ‘altro’ indifferenziato e plurale; nella non riconducibilità ad un soggetto agente che dona,  nella impossibilità di attribuirlo ad una individualità riconoscibile, nella non produzione di obblighi. Dovrebbe insomma confondersi col dono gratuito e anonimo, anche correndo il rischio della chiusura del circuito, della linearità e dell’arresto.

 

 

 

Oggetti virtuali

 

            Va demolita anche la tesi di Baudrillard sulla inesorabile reversibilità (‘reversibilità’: anche nelle società primitive il dono non avrebbe carattere di vera gratuità, ma nasconderebbe una delle maschere del potere, quella di «immagazzinare il valore e trasferirlo in un unico senso», proprio attraverso l’unilateralità della cosa donata; ‘concessione’ più che dono) dello scambio. Ci aiuta a farlo la proliferazione di oggetti virtuali e la scoperta della reale gratuità del dono anonimo.

            Cosa può accadere nel caso in cui una cosa, ancorché prodotta dal lavoro di un soggetto, venga immessa in una rete di comunicazione in modo tale da mascherarne la provenienza, impedirne l’attribuzione a un autore, nasconderne la paternità? O un soggetto diventi egli stesso ‘virtuale’, trasformandosi in impalpabili file che viaggiano in reti telematiche?

            Il primo effetto sembra essere l’ attenuazione del vincolo di proprietà, visto che lo stesso possesso diventa difficilmente dimostrabile. Ad ogni passaggio in rete, l’oggetto (ad esempio un software, o anche un file text) subirà modifiche che dissipano il legame con la mano che lo ha prodotto, e tali da spazzare via la lettura del copyright. Questo oggetto virtuale, un file text, non sarà propriamente ‘merce’, anche se frutto di un lavoro, perché non soggetto a scambio. Esso sarà una sorta di bene comune, proprietà ‘collettiva’ sulla quale molteplici utenti interverranno successivamente, alterandolo e ‘confondendolo’ di continuo fino al punto da renderne difficile l’individuazione e la riconoscibilità. Questi utenti assegneranno alla cosa un vero valore d’uso, secondo una finzione di appartenenza; si tratterà di un dono vero e proprio, in grado di sfuggire persino alle strettoie previste da Baudrillard, perché non vi sarà alcuna unilateralità che sottintenda un potere. Nuovi oggetti creati da nuovi soggetti, e ai quali quest’ultimi devono adeguarsi scorporando le tradizionali modalità di relazione: nuovi oggetti che infine creano nuove forme di soggettività. E soggetti che, dal canto loro, si trasformano in bit, cose delocalizzate e detemporalizzate capaci di viaggiare e sortire effetti (ad esempio col lavoro telematico) a migliaia di chilometri di distanza. Soggetti che creano nuovi oggetti, inventano -si danno- capacità inedite, si confondono infine con le macchine che usano.

 

 

 

Scambio simbolico

 

            Lo scambio di doni rituali creerebbe degli obblighi. Una ritualizzazione di dare e avere definita ‘simbolica’; un mercato oblativo fatto di gadgets, percentuali di intermediazione, patrocini di attività umanitarie (teleton et similia), attività delle ONG (organizzazioni non governative).

            Uno scambio simbolico portato all’estremo logico acquisirebbe infine una tale inferenza da far alzare la posta in gioco tra il potere e la singola soggettività che gli si oppone. Il soggetto sarebbe costretto a trasformarsi in cosa, oggetto di scambio col potere, seguendo una scommessa tanto forte da mettere in gioco la vita dei singoli e la sopravvivenza del potere (in Baudrillard, questa morte sembra essere da un lato una forma, in cui si perde la determinazione del soggetto e del valore -legge mercantile del-; dall’altro, contraddittoriamente, sembra essere in gioco proprio la vita biologica).

            Invece, ciò che conta è che sul tavolo verde la puntata riguarda non la vita biologica, ma la costituzione di soggettività. La scommessa riguarda il pregiudizio individualistico, che sul piano estetico si traduce nella caduta del pregiudizio d’autore, e cioè nel plagio. La posta in gioco consiste nella scomparsa del soggetto individuale, oppure nell’affermazione di un ‘Altro’ alla ennesima potenza; una pluralità di presenze anonime, di agenti che non hanno bisogno di autocompiacersi. Del resto chi conosce i meccanismi culturali sa bene che le idee circolano, si incrementano, si stratificano; indipendentemente da chi le ha formulate. Costoro lo hanno fatto per la prima volta solo per modo di dire; una sensibilità collettiva, unisona, comunitaria, ha lavorato per l’inventore. Egli è solo un condensatore e un espositore (indispensabile) di enunciati già presenti nell’aria.

            Lo scambio col potere si annulla diventando dono anonimo, messa in rete di opere, cose, svincolate da un vincolo di appartenenza. Lo scambio simbolico mantiene una validità solo se tende ad entropia.

 

 

 

Corpo

 

            In realtà pensiamo subito al dato biologico che ci è prossimo, e lo contrapponiamo a qualcosa di più evanescente. Ma ‘corpo’ è anche oggetto materiale. La ‘materialità’ è già interna alla sua definizione. Le proprietà del corpo sono infatti dimensione e massa. Esso occupa uno spazio fisico.     Un ‘corpo materiale’ è quindi espressione cacofonica. E ‘corpo immateriale’ equivale a indicare una cosa che già non ha più corpo.

            Se tuttavia spostiamo l’attenzione sulla nostra percezione, allora l’ oggetto del futuro avrà un corpo immateriale in senso fisico (carbonio), ma anche materiale (siliceo) e reale nella nostra percezione. Sarà un oggetto/persona (boats) che ci trasferisce sensazioni, come gli altri.

            Più  la tecnologia si rende sofisticata, più questo corpo siliceo apparirà rispondente alla effettività della nostra realtà corporea. Sarà improprio, quindi, parlare di una vera e propria ‘sparizione’ del corpo; si dovrà invece dire di una più estesa corporeità.

            Avremo proprio la pelle d’oca come se ci stessero toccando, e rapporti completi al di là di ogni immaginazione.

 

 

 

Ikebana

 

            La nuova merce (ivi compresi gli oggetti d’arte) tende a smaterializzarsi, a scorporarsi. Uno degli scambi simbolici è così quello che riguarda non tanto la cosa, quanto il composto e la stratificazione di immagine e immaginario veicolato dai media e dall’industria. Ma non è vero che questa nuova merce «non ha funzione d’uso». Essa, anche immaginata totalmente priva di corpo materiale, mantiene perfettamente la sua realizzazione d’uso, cioè di consumo. Già per Marx la merce ha attitudine a soddisfare anche i bisogni nati dalla fantasia (ad un secondo livello la merce si trasformerà in feticcio, diventando sublimato e cosa riflessa; resterà soltanto presupposta la cosa immediata - valore d’uso). Anche solo uno sguardo sull’ikebana appaga un’esigenza. E’ valore d’uso dell’opera.

            Inoltre l’industria non s’accontenterà certo di foraggiarsi d’immagini. In termini economici, l’immagine rappresenterà così un valore concreto che l’acquirente addiziona alla cosa quando si reca al supermercato e vi ritorna sopra, e cioè proprio nel momento in cui la sta comprando.

 

 

 

Merce e proprietà

 

            La merce può colorarsi di varianti. Aprirsi, ‘aumentarsi’, o chiudersi, condensarsi. E resterà opportuno rivolgersi anche alle qualifiche del ‘proprio’, per comprendere meglio cosa voglia dire ‘sparizione del soggetto’ (lo aveva detto proprio Adorno, o no?). Il motivo per il quale non deve esserci proprietà come ‘estensione del proprio’ è tutto qui: il soggetto, conoscendo più oggetti, e tornando in sé ad un livello di profondità (o astrazione o smaterializzazione, se si vuole) sempre maggiore, sfiora la tautologia, la sterilità. Il soggetto non potrebbe permettersi la scomparsa dell’oggetto, né quella di altri soggetti/cose.

            Ma i soggetti cambiano, si moltiplicano, diventano eteronomi, spariscono assieme agli oggeti nella molteplicità, con questi si confondono sempre più. E si mescolano nelle loro stesse forme, incapaci di enumerarsi nelle infinite declinazioni, di riconoscersi come soggetti umani o boats capaci di simularne alla perfezione le gesta.

            Come non potrebbero cambiare anche le nozioni di ‘proprietà’, e di ‘opera dell’ingegno’?

 

 

 

Comunità

 

            Una ‘comunità’ può prevedere la spontaneità di atti determinati da parentela o altra relazione (Ferdinand Tonnies), laddove nella ‘società’ gli stessi atti nascono dalla tecnica sociale organizzata, ovvero dalla reciprocità che si attende dagli altri. Si può concludere inviando due stringhe logiche, ‘comunità-dono’ e ‘società-scambio’. Il punto debole di altre nozioni di comunità (Nancy) è nell’identificarla nella pura transitività (cioè nel trattino di congiunzione) costituito dall’essere-in-comune. Quest’ultimo è il limite tra interno ed esterno, vale a dire tra soggetto individuale e comunità. Invece un senso qualsiasi non può risiedere all’interno di una linea di congiunzione. Il senso può realizzarsi come direzione, vettore di conoscenza, soltanto se sfonda il limite, e arriva all’altro.

            Ma (tutto) questo è solo un punto di partenza.

 

 

 

 

IL POTERE, L’ARTE

E LE TECNOLOGIE DEL SENSO

 

 

I

Confrontarsi con le tematiche del potere, della proprietà e della mutazione del soggetto è indispensabile per attivare un nuovo diagramma interpretativo delle forme dell’arte ed arrivare all’identificazione di nuove tecnologie di senso che facciano le pulci ai francofortesi ed ai nuovi filosofi francesi.

 

Nella Dialettica negativa Adorno ridisegna i margini dell’individualità. Essa viene assimilata al particolare ma contrapposta all’universale della società organizzata in Stato. Linee ulteriori emergono da una serratissima critica alla Filosofia del diritto, l’opera di Hegel etichettata come ‘ideologica’.

 

Adorno consiglia cautela fin dall’approccio alla Filosofia del diritto, per generalissime questioni di metodo: una fedeltà alle intenzioni dell’autore renderebbe necessario il superamento del dato puramente testuale. Infatti, in Minima moralia, in difesa della forma aforistica e contro la pretesa sistematica e pansistemica, Adorno aveva posto il problema di un metodo che «polemizza contro il puro essere-per-sé della soggettività in tutti i suoi stadi»[168]. E, poi, più chiaramente, aveva definito l’accantonamento dell’individuale come «gesto sbrigativo» dovuto al permanere di Hegel nei limiti del pensiero liberale: «la concezione di una totalità armonica attraverso tutti i suoi antagonismi lo costringe a non riconoscere all’individuazione -che egli pure determina come momento attivo del processo- che un posto inferiore nella costruzione del tutto»[169].

Hegel ipostatizza la categoria di individuo considerandola come fondamentale della società borghese ed esaurendola poi nella teoria della conoscenza come datità irriducibile[170]. Invece, nota Adorno, «nella società individualistica» l’universale viene già realizzato dall’interrelazione tra gli individui, e la stessa società «è essenzialmente la sostanza dell’individuo»[171]. Per questa ragione bisognerebbe ritornare sull’individualità, e soffermarvisi ben più di quanto Hegel non faccia. Si noti come Adorno ponga l’accento sul legame, sulla relazione tra singolarità; qualcosa di simile avverrà nelle teorie di Michel Foucault, specialmente quando si occuperà delle dinamiche dell’incontro/scontro tra soggetti, e delle relazioni di potere immanenti al piano/campo sociale[172].

Invece Hegel perviene, come è noto, a qualcosa che giustifica il condizionamento, mettendo da parte la vera natura del procedimento dialettico. E’ così che «l’individuo ‘può essere più intelligente di molti altri, ma non può superare lo spirito del popolo (...)’»[173]. Ciò significa che anche chi osserva criticamente la società verrà condizionato dall’idea di nazione[174]. E che l’individuo vive lo spazio recintato dall’ eticità dello stato, quello del compimento del proprio dovere. Adorno ironizza: Hegel «anticipa di cento anni il gergo della proprietà»[175]; costringendo le vittime a restare nel proprio ruolo, e a compiere comunque il proprio dovere, non fa nulla per intaccare «la sostanzialità» della loro situazione[176]. Così l’universale, apparentato in una stringa logica a grandezza e potenza, «depreda il particolare di quel che gli promette»[177], e fa in modo che «il particolare da lui sottomesso non gli sia migliore»[178]. Tutto ciò sembrerebbe obbedire a quelle stesse leggi sull’affermazione della proprietà privata che conducono al predominio del più forte: «la scomparsa delle individualità decretata con un gioco di bussolotti, un negativo che la filosofia pretende di conoscere come un positivo, senza che sia realmente trasformato, è l’equivalente della frattura persistente»[179].

Secondo Adorno, Hegel commetterebbe in sostanza lo stesso errore di Schopenhauer. Quest’ultimo, pur avendo intuito che la dialettica di universale e particolare non può essere risolta negando in modo astratto l’individuale, non l’ha però compresa fino in fondo. Essa consiste propriamente nel confronto che l’individuo, in quanto «manifestazione necessaria dell’essenza, della tendenza oggettiva»[180],  attua tra la sua fallibilità e l’essenza di cui è manifestazione, riuscendo infine ad aver «ragione contro di essa»[181] per questa fallibilità. La frase di Adorno,  non lontana dalla realizzazione stilistica tipicamente dialettica ipotizzata da Jameson[182], potrebbe apparire controversa se non fosse supportata da una analoga riflessione contenuta in  nota a uno scritto di Benjamin[183]: «...i bisogni della borghesia, che imprigionano i soggetti nella propria cerchia e li conformano a se stessi, per un certo tempo hanno prodotto in loro quella concrezione che poi si è dissolta nello stato della produzione incontrollata in cui essi sono semplici oggetti, consumatori. Tutte le qualità umane si plasmano in tale concrezione. Nella loro deformazione sociale gli uomini si accorgono della loro fallibilità, e proprio questo è l’umano».

 

La posizione di Adorno nei confronti della Filosofia del diritto di Hegel è ancora critica per quel che riguarda il ruolo affidato alla coscienza soggettiva nel suo rapporto con la normatività del diritto: un altro aspetto che si ritroverà nell’analitica del potere foucaultiana, in relazione alle strategie del diritto (al diritto come sistema e alla legge come forma)[184]. La coscienza soggettiva mal sopporta la violenza del diritto e dell’eticità oggettiva, visto che il primo «è il mezzo, in cui il cattivo per la sua oggettività ottiene ragione e si procura l’apparenza del buono»[185]; l’oggettività etica viene salvaguardata attraverso la violenza: un principio distruttivo che «conserva nella società il terrore»[186].

Ed ecco ritornare l’accusa già formulata: Hegel, come fondatore del diritto positivo, ne fornisce anche l’ideologia: «il principio formale di equivalenza diventa norma, tana dell’ineguaglianza dell’uguale, in cui scompaiono le differenze»[187]; insorgerebbe qui, ancora, quella  matrice positivistica ampiamente criticata dalla scuola di Francoforte e dallo stesso Adorno perché portatrice di modelli logici a prima vista inoppugnabili[188], ma poi inadeguati e immediati in relazione ad un oggetto di conoscenza dai mille antagonismi interni[189].

 

L’idiosincrasia adorniana per il sistematico che ignora negazioni è espressa anche nella condanna di un diritto che esiste nella definizione di sue norme . E’ questa normalità ben definita che viene indicata come limitativa, come fonte di tutte le esclusioni: quanto non rientri nella definizione finisce con l’essere scartato, l’eccezione viene coperta da una  maschera , una falsa realtà si sovrappone a quella effettiva e plurale. Lo stesso Hegel ammetterebbe, con un lapsus sfuggitogli dalla penna, che coscienza e norma giuridica non sono stati infine conciliati, perché in fondo «l’ordinamento giuridico è oggettivamente estraneo ed esteriore al soggetto»[190]; nasce allora l’apparenza della conciliazione, che potrebbe definirsi come un tentativo d’autodifesa degli individui. Questi ultimi, aggrediti dalla totalità[191], e consapevoli dell’antagonismo reciproco, per autoconservazione finirebbero per accettare «ciò che gli è estraneo»[192]. L’universale schiaccia l’individuo, lo costringe a «guardare solo se stesso, ostacola la sua comprensione dell’oggettività»; e così infine il nominalismo odia l’utopia, perché in fondo si serve di quest’ultima attraverso il primato del particolare, dimenticando quanto ormai questo particolare sia divenuto funzione dell’universale. Si potrà intervenire su quello soltanto considerandolo  come una funzione, una partizione di questo, in grado tuttavia di agire in modo discontinuo ‘disturbando’ il pensiero che si pone sulla ‘linea retta’. Per questa ragione, forse, sarà la dialettica negativa, più che il positivismo, a centrare l’ideale conoscitivo, perché in grado di accettare la contraddizione presente nella realtà e capace di accogliere l’ oggetto anche quando rifiuti di assoggettarsi al pensiero. Quest’ultimo sarà in grado di compiere tutte quelle deviazioni da sé che gli permettono di liberare gli antagonismi interni e le contraddizioni, evidentemente al di là della semplice norma giuridica posta.

 

Il pensiero deve allontanarsi dalla tentazione di essere schematicamente ‘normativo’; in  modo quasi aporetico deve poter contenere il suo ‘pensarsi-contro’, e riuscire ciononostante a sopravviversi. Adorno lo dice chiaramente nella Dialettica negativa, quando tenta una di quelle definizioni aperte, in progress,   che ne caratterizzano lo stile: nella dialettica negativa «il pensiero non è costretto ad accontentarsi della propria normatività; è in grado di pensare contro se stesso, senza rinunciare a se stesso»[193]. La dialettica di Hegel, che tenderebbe alla conciliazione,  infine non la consegue perché attraverso il principio di identità lo spirito assoluto diventa il particolare, pur avendo raggiunto la totalità con la comprensione di ciò che non è identico; in ciò il non vero: il tutto finisce col negare la singola determinazione, e «l’atto del rendere uguali riproduce la contraddizione»[194] che pur aveva tentato di conciliare.

 

II

Dalla critica ad Hegel emergono idee (forse non sufficientemente radicalizzate dall’autore di Minima moralia) poi divenute centrali nelle teorie di Foucault. L’accento posto sulla ‘relazione’ tra individui, il nomadismo del soggetto, la ricerca affannosa di una ‘uscita’ del pensiero da tutto quanto sembrerebbe ridurlo nei limiti della ‘norma’:  tematiche dense di sviluppi ed esiti inaspettati, utili sia a ridisegnare le nuove forme di soggettività che a riconsiderare l’ambito dello scambio simbolico e le valenze della ‘merce’. Una matrice comune è nell’opera di Karl Marx.

 

La nozione di ‘individualità’ presenta in Adorno almeno due aspetti. Per quello affermativo, l’individuo è un essere-per-sé, una unicità elevata a propria determinazione[195]. Egli rappresenta ancora (condannato com’è): «la verità contro il vincitore»[196]; colui che «differenzia sé dagli interessi e mire degli altri, si fa sostanza a sé medesimo, instaura come norma la propria autoconservazione e il proprio sviluppo»[197]. Dal punto di vista dinamico lo sviluppo dell’individuo consiste proprio nel momento della sua determinazione differenziale, cioè in quel di diverso dagli altri che egli intende valorizzare; dal punto di vista statico, o specificamente affermativo, lo sviluppo dell’individuo consisterà nell’accettare quanto di sé è già sostanza, facendone progetto d’autoconservazione. Questo secondo momento è importante per un successivo passaggio, quello in cui la singola autocoscienza si confronta con le altre divenendo nuova a se stessa, cioè autocoscienza sociale. E’ questo il motivo hegeliano riferito al Marx de L’ideologia tedesca  e che non è inopportuno, invece, riportare ad una spiegazione materialistica in senso proprio,  contenuta nella Dissertazione. Marx vi procede ad una radicale distinzione tra la fisica atomistica democritea ed epicurea, rinvenendo in quest’ultima l’origine di un vero e proprio materialismo (visto che gli atomi non avrebbero a che fare che con altri atomi), perché la declinazione dell’atomo da una caduta rettilinea nello spazio vuoto apparirebbe casuale, e priva di determinazione formale.          

L’idea di un soggetto capace di migrazioni imprevedibili sembra presentarsi originariamente in Marx proprio nella  dissertazione dottorale[198] del 1841: «gli atomi costituiscono l’unico oggetto di sé stessi, possono essere in rapporto solo con se stessi, e pertanto, scontrarsi»; «l’individualità nella sua immediatezza si attua solo ponendosi in rapporto con un’altra realtà, che è sé stessa, anche se quest’altra si presenta nella forma dell’esistenza immediata». Rilevante la conclusione: «Così l’uomo cessa di essere un prodotto della natura solo quando l’altro, con cui egli è in rapporto, è non un’esistenza diversa ma anch’esso un’individualità umana, anche se non è ancora lo spirito. Ma perché l’uomo, in quanto uomo, diventi il suo unico oggetto reale, deve avere in sé infranto la sua esistenza relativa, la potenza dei desideri e della mera natura. La repulsione è la prima forma dell’autocoscienza, e corrisponde pertanto all’autocoscienza che si apprende come essere immediato, come astratta individualità. Nella repulsione è dunque attuato il concetto dell’atomo, secondo cui esso è l’astratta forma e, del pari, il contrario, l’astratta materia; poiché ciò con cui l’atomo è in rapporto sono sì atomi, ma altri atomi. Ma se io mi comporto con me stesso come con un altro in senso immediato, il mio è un comportamento materiale. E’ la massima esteriorità che possa pensarsi. Nella repulsione degli atomi, dunque, la materialità dei medesimi, espressa nella caduta rettilinea, e la loro determinazione formale, espressa nella declinazione, sono unite in una sintesi»[199].

 

La reciprocità dei concetti di individuo e società è la conseguenza del confronto tra le autocoscienze. In questo istante, per i francofortesi, l’ «individuo in senso pregnante è addirittura il contrario dell’essere di natura, un essere che si emancipa e si estranea dai meri rapporti di natura»[200] riferendosi fin dall’inizio al sociale. E’ un’idea mutuata ancora da Marx, laddove l’individuo, assieme all’esistenza relativa, deve infrangere «la potenza dei suoi desideri e della mera natura»[201].

E’ fin dalla reciprocità tra individuo e società che nasce la seconda nozione di individualità, laddove la società invade la sfera del «singolo soggetto» costringendolo a muoversi in campi sempre più circoscritti; in quel momento si svilupperà un dinamismo sociale che costringerà «il singolo soggetto economico a perseguire i suoi interessi di guadagno spietatamente e senza preoccuparsi del bene della collettività»[202].

 

Chiara la matrice marxiana, senza voler ricondurre certi motivi fino alla speculazione kantiana[203], si palesa l’ulteriore vicinanza con le tesi di Foucault: la relazione tra soggetti, già indicata come probabile nesso comune, si colora di una interessante connotazione, relativa allo scontro tra emergenze. Non è superfluo, forse, aggiungere che questa emergenza sottintende una uscita da sé, la ricerca dell’altro, un eteroriferimento ancora circoscritto nel genere (l’altro è come il ) ma già connaturato ad una determinazione formale che sola consente la definizione di una singola soggettività: ciò anticipa e disegna un rapporto con Levinas.

La reciprocità tra individuo e società, particolare e universale, sembra invece già rimandare al gioco ‘dentro-fuori’ di Deleuze, e nell’accezione ‘singolo-comunità’ (mera veicolarità del senso) all’opera di Jean-Luc Nancy.

 

Tra Foucault ed Adorno c’è corrispondenza non biunivoca, perché è naturalmente il primo a rivolgersi all’operato della Scuola di Francoforte evidenziando come, nonostante il  diverso retroterra culturale e tradizionale, gran parte delle tematiche trattate a partire dagli anni Settanta in Francia vengano quasi a sovrapporsi e a completare  le analisi dei francofortesi. In una intervista[204]  Foucault da un lato lamenta la scarsa diffusione delle teorie della scuola, dall’altro assicura che se avesse conosciuto quelle teorie fin dai tempi d’apprendistato avrebbe evitato «molti giri tortuosi» e seguito alcune delle «strade aperte dalla Scuola di Francoforte»[205].

Muovendo da questa indicazione, alcuni si sono rivolti ai problemi posti dall’ istanza normalizzatrice, allo spazio che quest’ ultima lascia o lascerebbe all’individuo[206].

 

Peter Dews, in Potere e soggettività in Foucault : «i continui dinieghi di Foucault che si possa considerare il potere come una cosa posseduta da gruppi o individui diventano comprensibili alla luce della descrizione weberiana della transizione da forme di dominio  ‘carismatiche’ e ‘tradizionali’ a forme ‘legali-razionali’»[207]. Ciò significherebbe che le due tematiche, quella weberiana e quella foucaultiana, avrebbero un punto d’incontro nel fatto che Weber stabilisce elementi che poi Foucault attribuirà «al potere per sé  nella sua specificità storica»[208].

E ancora: «nelle società moderne, il potere non dipende dal volere e dal prestigio degli individui, perché si esercita attraverso un macchinario amministrativo impersonale che opera secondo regole astratte»[209]: queste ultime  sono forme di una strategia che si sovrappone  ad un’altra  -l’amministrazione sul sistema del diritto -  entrambe poi cospiranti ad una effettualità del potere (gioco di forza). Questa descrizione convergerebbe con la riflessione di Horkheimer ed Adorno culminante nella descrizione di una «soggettività vuota e adattata che ha perso quell’autonomia per il cui amore era iniziata la conquista della natura»[210].

 

Porre l’accento sull’iniziale sviluppo del soggetto, e sull’impossibilità di una sopravvivenza di quest’ultimo in un contesto che ecceda nel perseguimento di un interesse privato[211] conduce infine Adorno a lamentare l’esuberanza della totalità in direzione dell’individuo. L’aforisma «Il tutto è il falso» indicherà , nel famoso capovolgimento della formula hegeliana, il precario equilibrio tra momento e totalità, individuo e società, particolare ed universale.

A questa invadenza del tutto corrisponde, in Foucault, la minimalità dello spazio subiettivo, il residuo che la formulazione e l’estensione del comando lasciano al quale della libertà singolare. Al soggetto è consegnata la mera intenzionalità, dal momento che una volontà indirizzata appare incapace di raggiungere il suo oggetto, se non in modo casuale. Alla totalità indifferenziata di Adorno potrebbe somigliare in Foucault la tracimazione delle relazioni di forza, l’onnipresenza del potere  (e purtroppo però, per Foucault, ogni relazione è già potere).

 

La dinamica sociale scaturita dal prevalere dell’interesse privato - la nullificazione che produce nell’individuo -, diventa in Foucault uno dei motivi che spiegano e fanno da presupposto (al)l’introduzione di  nuovi meccanismi  incrociati di potere-sapere. Ad esempio, in alcune conferenze tenute da Foucault[212], l’introduzione della pratica dell’esame (ed il conseguente sviluppo delle scienze umane) all’interno della   ‘società disciplinare’ è motivata dalla necessità di un controllo sociale minimale[213] reso necessario dalla nuova distribuzione economica sorta alla fine del secolo XVIII. 

Un altro punto comune esiste anche tra la teoria della società amministrata fondata sulla coazione, e la società disciplinare descritta da Foucault. Nella fase classica della Scuola di Francoforte esiste una circolarità tra la necessaria amministrazione e la tendenza di quest’ultima ad assumere una posizione autonoma e talora contrapposta a quella di ciascun amministrato[214]. Questa tendenza assume la forma della coazione perché nasce dalla contrapposizione, ma resta tuttavia una forma sottile di controllo che tende, attraverso molteplici meccanismi, a ricostituire una falsa conciliazione fra soggetto ed oggetto: il soggetto diventa  egli stesso oggetto, secondo un’intuizione che caratterizzerà gran parte della riflessione postmoderna.

L’industria culturale, che gestisce ma anche indirizza il gusto, è uno di questi meccanismi di controllo. Da questo momento in poi, vero diavolo in musica, ogni riuscito tentativo di interfacciare il gusto dell’utenza verrà contrabbandato come proliferazione della strategia industriale e rifiutato con monolitico disprezzo da tutti gli intellettuali ed i compositori di grido.

Un ulteriore ghetto autoesclusivo. Una ideologia capace di preformare i linguaggi ed accecare la vera ricerca di soggetti/oggetti estetici.

 

Numerose altre analogie tra i due autori sono nell’individuazione, molto più caratterizzata in Foucault, della strumentalità e trasversalità   di scienze tradizionalmente immuni dall’ingerenza del potere o della totalità, e che vengono invece ricondotte allo stesso ‘diagramma’, o al medesimo ‘campo di forze’. Adorno  fa riferimento al caso della sociologia empirica, che fornisce dati che possono facilmente essere strumentalizzati «da ogni forma di amministrazione»[215], utilizzando sistemi come l’indagine demoscopica, la quale «merita di essere insieme considerata e disprezzata»[216]. L’errore risiederebbe, per Adorno, nello scambiare la volontà di tutti  con la verità assoluta, per il solo fatto che «non è possibile accertarne un’altra»[217]. Foucault, dal canto suo, teorizza,  all’interno del sistema disciplinare, la coestensività tra scienze umane (sapere) e potere, attraverso la formazione di strutture di controllo (esame). Anche per Foucault pensare ad un ordinamento sociale basato sulla volontà di tutti è profondamente illusorio, perché si ignorerebbe la reale incursività del potere. Quest’ultimo utilizza il meccanismo disciplinare per rendere strumentali anche scienze umane come sociologia, psichiatria, psicologia. ‘Disciplina’ è quello strumento giuridico (e non solo) di verità (di verità plurali) che consente una ‘strutturazione’ del diagramma o della rete. Queste discipline vengono a costituire una sorta di controdiritto.  E a un  contropotere   si riferisce lo stesso Foucault alludendo a quello che viene dal basso e che «permette a gruppi, comunità, famiglie o individui di esercitare un’azione su qualcuno».

 

Questo contropotere (e, in subordine, anche il controdiritto), come la semplice ‘resistenza’ prevista da Foucault, ha la rilevanza di una mera presa d’appoggio della quale il potere si serve in ogni caso. Entrambi sono già inclusi nel diagramma delle forze agenti. Negli spazi minimali in cui Foucault dà spazio alla possibilità di una opposizione tesa a sostenere effetti apparentemente legati ad una volontà dei soggetti politici agenti, potrebbe aprirsi una possibilità di intevento volitivo del soggetto. Ma ciò non corrisponde alla logica complessiva del sistema: queste ‘aperture’ devono da noi essere intese come opzioni già previste dall’andamento casuale del potere.

 

Al confronto tra l’istanza normalizzatrice adorniana e la tecnologia normalizzatrice di Foucault, occorre specificare che,  specie per il secondo, dal punto di vista della sovranità,  ogni tentativo di fondare una teoria che determini l’autonomia dei soggetti di conoscenza risulterebbe fallace. Le stesse discipline,  già coinvolte per effusione del potere, formerebbero il primo nucleo di quel soggetto ipoteticamente libero sul quale qualsiasi teoria viene a fondarsi. Questo soggetto è invece eteronomo già in partenza, come l’istanza normalizzatrice lamentata da Adorno è in qualche modo già inserita nel diagramma al livello dei singoli nodi individuali. E’ per questo che ciascun dire, anche nel caso delle cosiddette ‘resistenze’, è un detto che si fonda sulle operazioni disciplinari di controllo. L’istanza normalizzatrice diviene un «controllo coagente sempre più serrato del corpo e di ‘tecnologie normalizzatrici del comportamento’»[218].

Sembrerebbe, così, che volendo immaginare l’uscita dallo stallo occorra dedicarsi alla ricerca di brecce, sacche interne, tali da consentire al soggetto, vale a dire ai soggetti, di progredire in modo volontario. Cioè secondo qualità e con un percorso di senso.

 

III

Se ci si rivolge in modo capillare (benché sintetico) alle teorie di Foucault ci si accorge subito dell’eccesso di intrusività del potere sul soggetto. Individuare in alcuni dei soggetti possibili spazi residuali di relazione estranei all’ingerenza del potere e tali da consentire al soggetto l’utilizzo di libere cose (merci) in circolazione è importantissimo. Soltanto attraverso questa relazione sarà possibile assegnare un ‘senso’ di percorso all’agire dei soggetti, dalla sfera della capacità critica a quella della capacità creativa. L’analisi sociologica e giuridica (nella sua validità) dovrà portare allo stesso punto di quella estetica; solo così lo sguardo sulle forme dell’arte potrà ricevere conferme.

 

Nella Volontà di sapere [219], Foucault riferisce della necessità di fondare una analitica capace di mostrare il cammino del potere, di tagliare finalmente la testa al monarca, di affrancare la nozione stessa di potere dal privilegio teorico della legge e della sovranità[220], nell’intento  di smascherare una duplice impudenza: l’autoaffermazione del potere quale principio del diritto (attraverso l’identificazione tra volontà del monarca e legge, secondo il postulato che il discorso vero viene pronunciato da ‘chi di diritto’) e la finzione che il suo campo di azione sia limitato alle semplici procedure del divieto e della sanzione. La miglior efficacia del potere risiede così nella sua capacità camaleontica: più riesce a nascondere, più è in grado di restituirsi i risultati che si era proposto. Sarebbe infatti intollerabile al soggetto immaginare una completa privazione di libertà (libertà dalla molteplicità dei rapporti di potere, dalla loro effettiva capillarità): camuffato nella  semplice limitazione negativa - di non infrangere il divieto per non incorrere nella sanzione -,  il potere concede l’illusione dell’esistenza di una sfera personale ed esistenziale ancora inviolata, ed inviolabile a condizione che  il comando resti a sua volta intatto. Questa integrità si fonda sulla presunzione che il comando resti in sé e per sé: in sé nella sua mera formulazione, per sé nella restituzione al concetto senza aver subìto resistenze. Ancora in sé perché mantiene una forma, e per sé quando percorre la pluralità di campi disponibili mantenendosi non contraddetto.

Ma il comando può ancora (mai) sopportare questa purezza? Non è piuttosto sempre mediato dalla pluralità degli ostacoli che pure alla fine supera o coi quali si scontra (illecito)? Quando il potere finge l’integrità del comando tende innanzitutto  a farne scomparire la  derivazione occasionale. Ma la norma è sempre occasionata, perché trova la sua legittimazione nella sua alterità, nella capacità di rimandare ad altro. Questa  necessità logica di essere fondata viene utilizzata dal ‘potere’ per attuare la prima delle sue impudenze, per collegare alla verità ciò che è solo detto dal legislatore, e detto per rimediare o per ricucire con strategia e circostanza (a)gli strappi derivati dagli scontri dei vettori.

 

La mistificazione relativa al comando non si esaurisce qui: è nella semplicità ed unicità del meccanismo divieto-sanzione che si raddoppia. Mai il comando riesce a percorrere intero il suo percorso, a chiudere il cerchio, e ritornare integro ‘per sé’, se non  immaginando, contraddizione in termini, una ‘terza forza’ neutra. Questa ‘terza forza’, che è la paura della sanzione, è invece effettivamente in grado di scoraggiare l’illecito ed è, per Foucault, parte del gioco: entra in campo modificando le relazioni e frantumandole. Per questo il comando non può mai essere integro, perché non riesce mai ad essere unitario: la sua efficacia è data proprio dalla sua adattabilità, e quindi dalla possibilità di frantumazione e scissione.

           

Dall’altra parte del comando si colloca la seconda impudenza, sotto le spoglie di un’ampia libertà concessa alla persona. Ma ‘tutta’ questa libertà è infine solo quella residuale: essa è cioè sempre soltanto seconda, pur concedendo integro il comando. La libertà, ancorché sia condivisa quella altrui, ha un limite più forte e principale nel comando. Ed ha anzi per di più un limite di principio perché il comando sembra stabilire quali sono i campi in cui la libertà individuale può sciogliersi e quali quelli in cui deve irrigidirsi. Il comando deve poter trasformare la piccola resistenza incontrata in un «punto d’appoggio», in un appiglio dal quale lanciarsi alla realizzazione dei (di) suoi effetti, per conservarsi liquido e multiplo.

Ecco allora che la estraneità tra comando e libertà personale tende ad affievolirsi, confondendo e mescolando in un’unica soluzione i due momenti: quando il comando entra nel merito, quando è in grado di incidere le qualità, stabilendo quale sia la nostra minor libertà, esso s’è già mescolato con la libertà singolare, ed ha confuso questa libertà con la realizzazione di effetti che a questa restano estranei. Allora anche l’unicità della sfera di libertà è menzogna: non è autonoma che per quantità, e quindi mai realmente autonoma. Al soggetto, al vecchio soggetto, sono possibili  ‘scelte’ circoscritte e numerate, azioni già previste nel loro genere: altre gli sono precluse, e confinate in un campo che Foucault definisce ‘esclusivo’, perché il potere si dimostra in grado di assimilare ‘recintando’, escludendo.

 

Non avrebbe propriamente senso parlare di ‘scelta’ e quindi nemmeno di libertà: il potere ha già deciso il ‘quale’, ha già programmato le devianze, ed è in grado di affrontare ed utilizzare qualsiasi resistenza. Ciò conduce Foucault a passi ulteriori e inevitabili.

 

Foucault procede negativamente. Il potere non è identico al sapere, come alcuni avevano ritenuto, anche se la relazione tra i due concetti viene definita coestensiva. L’intreccio, e talora la sovrapposizione, è dovuto alla cellularità ed alla serialità, le costanti metodologiche che richiamano al sistema (ché tale ora ci appare) mobilità e pluralità. Ne La volontà di sapere  si afferma che il potere non è forma di assoggettamento dissimile dalla violenza per la sola sussistenza di una regola: questa violenza non è mai costitutiva della nozione di forza in sé, come accade per il diritto naturale. Lo precisa Deleuze quando considera l’accezione nietzschiana della ‘forza’ in Foucault: ogni forza è già rapporto, il suo unico oggetto «è costituito dalle altre forze»[221]. La violenza è soltanto la conseguenza della forza, e si esplica nella modificazione coatta di ciò che è estraneo al vettore considerato. Non bisogna confondere  uno dei risultati con ciò che definisce la forza: essa è tale per il solo fatto di essere azione, relazione, interazione. Non potrebbe pertanto esistere isolata, ma solo forza come «azione su azioni», come variabile capace di agire su altre variabili.

Ancora, «il potere non è una forma»[222], non va confuso cioè con alcuna  forma-Stato: e anche in questo senso va liberato dal privilegio teorico della sovranità; esso non è dato dall’insieme degli organismi giuridici e amministrativi che garantiscono la sottomissione del cittadino, perché non si esaurisce nell’opposizione binaria dominanti-dominati. Non garantisce la gerarchia[223]. Così, se da un lato non è costituito dalla violenza (che ne diventa strumento eventuale) dall’altro non si esaurisce nel dominio (che ne è effetto mascherante).

 

Il potere di Foucault è sempre obiettivo, da due punti di vista. In primo luogo perché è intenzionale: ogni potere si esercita per conseguire intenti o obiettivi. Poi perché è oggettivo: non è fondato sulle scelte individuali del soggetto. La oggettività indica la immanenza  al campo delle relazioni di forza,  non è esclusiva di intenzionalità , ma l’intento realizzato non tiene conto della scelta individuale. Il presupposto è nietzschiano, e riguarda la casualità d’esito nello scontro di forze. Foucault stesso delinea questo principio in Nietzsche, la genealogia, la storia , in relazione alle  idee di ‘provenienza’ (Herkunft)  ed ‘emergenza’ (Entstehung). All’ ‘origine’, che è quella che rimanda  ad una altezza ed una profondità metafisiche[224] Nietzsche aveva opposto la provenienza come stirpe, appartenenza al gruppo, e, soprattutto, l’emergenza come «entrata in scena»[225] delle forze. La genealogia consentirebbe di evitare la «potenza anticipatrice d’un senso», e di ristabilire «il gioco casuale delle dominazioni»[226].

Se ogni vettore segue la propria direzione (e per questo è intenzionale), l’esito dello scontro è però casuale, non riesce a mantenere il ricordo individuale degli effetti desiderati. Inoltre, e soprattutto, il potere scaturisce dalla relazione stessa dei vettori, è effettivamente oggettivo perché lo scontro avviene prescindendo da qualsiasi volizione, o volontà individuale.

Per questo noi sosteniamo che l’elemento volontaristico si attenua nell’emergenza della mera intenzionalità. ‘Mera’, perché riferita ad una semplice ‘relazione’, e non al soggetto che si dispone verso l’oggetto: «gli intenti (sono) decifrabili, eppure può darsi che non ci sia nessuno che li abbia concepiti e ben pochi che li abbiano formulati»[227].

           

Anche Deleuze esclude una intenzionalità riferita al soggetto, perché il campo del sapere viene ad essere costituito da due forme tra le quali può esistere una relazione, che è però di non-rapporto. Le due forme di sapere sono quelle della Luce-visibilità e del Linguaggio-enunciato, ed ognuna di esse ha proprie caratteristiche: «come potrebbe esserci intenzionalità  di un soggetto verso un oggetto dal momento che ognuna delle due forme ha i propri oggetti e i propri soggetti?»[228]. Secondo Deleuze il luogo riservato all’intenzionalità può essere soltanto nell’intreccio tra le due forme del sapere, un intreccio che ancora non si piega sul sè, non costituisce quel dentro-come-piega-del-fuori in cui il soggetto potrà trovare residenza. Questo intreccio lascia parlare una intenzionalità microscopica, particellare, microcellulare,  ben lontana dal vecchio soggetto (essa, tuttavia, già illustra alcune caratteristiche delle nuove forme di soggettività).

Se rispetto alla realizzazione di effetti il potere, che è immanente al campo, riesce sempre a conseguirli (un effetto vale l’altro nel gioco casuale dei reciproci domini), l’individuo non riuscirà mai a sortire l’effetto desiderato, per la casualità che indirizza in modo incerto le singole intenzioni. Da qui la ‘effettività’ della storia, la quale evita accuratamente un fondamento qualsiasi, anche la prospettiva che cerca di rintracciare  ‘costanti’ nel movimento degli eventi.

           

Il potere  (oggettivo e meramente intenzionale) è  immanente al campo di forza, e l’azione su azioni, la forza, Foucault la confonde con la relazione: quest’ultima è sempre una relazione di forza; presuppone una forza plurale che è tale già nel semplice rapporto tra particelle. Questa particellarità microcellulare esclude che il potere sia confinato nell’ambito del semplice comando negativo, che è semmai espressione di una strategia di realizzazione di effetti. Il comando, la legge, è propriamente una forma di strategia, e il diritto costituisce un intero sistema strategico[229]: esso è innanzitutto una rappresentazione del potere, dove rappresentazione è intesa non come ulteriore maschera, mistificazione o illusione, ma come «modo d’azione reale»[230]. E difatti il diritto trova posto come corollario  del potere, come una delle strategie con le quali i rapporti di forza realizzano degli effetti. E’ così che il rapporto di forza  sembra a noi confondersi  con la semplice relazione tra singolarità: esso è immanente all’intero diagramma, che diventa «diagramma di forze», e presume l’esistenza di singolarità considerate soltanto nel loro reciproco interagire nella turbolenza di vettori incrociati. E’ così che viene rovesciato il binomio diritto-potere, perché il potere concreto è quello che rende effettiva ciascuna sua strategia. Una scienza utile a smascherare questa onnipresenza concreta è l’analitica del potere. Quest’ultima «non prende più per modello o per codice il diritto»[231].

 

IV

Se il diritto è per Foucault una strategia del potere, aggiungeremo che il diritto è una strategia d’esclusione. Sovente legato ad un luogo particolare, il diritto definisce le modalità di comportamento, escludendo chiunque non ne sia a conoscenza. Lo straniero, il paria, l’uomo che in buona fede la ignori, non sono scusabili per aver infranto una legge. Perciò il diritto è in primo luogo configurabile come un recinto ideato non solo per proteggere chi sa, ma soprattutto per difendere chi ha. Tutta l’impalcatura della legge traballa quando si mette in discussione la legittimità della proprietà. Già solo nei termini, l’alterità viene tenuta alla larga.

 

Il diritto si configura come una delle strategie possibili perché strategico è l’incrocio tra vettori, e strategico (effettivo) il risultato casuale di qualsiasi incrocio. ‘Strategia’ è  «lo stesso diagramma di forze o di singolarità interne ai rapporti» di forza[232]. Una forma interna a questa strategia è la legge, col meccanismo divieto-sanzione; una seconda forma è la paura della sanzione; una terza è collegata all’esecuzione della pena. La giustizia, problema centrale già in Sorvegliare e punire, è così un esempio ulteriore della capillarità del potere, e della coestensività tra quest’ultimo e il sapere; una molteplicità magmatica di giudizi e giustizie si aggiunge  per Foucault all’originaria unicità del provvedimento: vi si sommano istanze apparentemente istallate nella zona del sapere, ma che infine «spezzettano il potere legale di punire»[233].

 

Quale spazio resta al soggetto? Nessuno, evidentemente, per il vecchio soggetto di conoscenza. Esso viene frantumato in una miriade di altri soggetti: è talora quello che ha preso coscienza della propria impossibilità di dire, conoscere, essere titolare di diritti[234], talaltra quello che si fa consapevole della propria pluralità,  cercando  altrove (in un «fuori») il significato del sapere ed il luogo della propria residenza (la «stanza centrale» di Deleuze). La conoscenza si trasforma in  sapere prospettico, che non è altro che un sapere storicizzato, mobile a sua volta e fondato sull’esperienza, un sapere che nasce dallo scontro, dalla lotta tra le due sue forme dell’enunciato e della luce; una relazione data, paradossalmente, dal non-rapporto [235]. Anche da questo punto di vista, cioè dall’interno della coscienza e del soggetto, l’intenzionalità viene ad attenuarsi, e diventa addirittura ‘infinitesimale’. Ciò che Foucault rifiuta è che la coscienza intenzioni la cosa, o che si significhi; sia gli enunciati che la luce non intenzionano nulla: «il sapere è irriducibilmente doppio, parlare e vedere, linguaggio e luce,  questa è la ragione per cui non c’è intenzionalità» [236]. E se c’è essa appare «reversibile e moltiplicata».

 

Si può tendere una stringa logica che parte dal soggetto, attraversa il potere e arriva al governo. Sulla soglia del governo si verifica che anche un soggetto collettivo si trova costretto ad attraversare il potere. Ciò è estremamente rilevante perché contiene in nuce la ragione della perdita di rappresentanza. Quest’ultima troverà un contraltare ben visibile in campo estetico.

 

Il ‘governo del sociale’, «come spazio (...) di sperimentazione di una possibile via della riforma, dimostra la non contraddittorietà dei due termini tradizionalmente contrapposti nella concezione liberale classica, l’emancipazione cioè dell’esistenza individuale e l’espansione dello Stato nella vita civile»[237]. La stringa è fondata su tre eguaglianze: il soggetto è potere; il potere è governo; il governo è a sua volta soggetto. Il soggetto è potere perché è «un precipitato di relazioni di potere»[238],  e può avere senso soltanto se letto attraverso il diaframma del sociale, presumendo cioè la preesistenza di relazioni di potere. Ma qui può forse rilevarsi la scarto già segnalato tra la semplice relazione ed il rapporto di potere, tra incontro e scontro. Il potere è governo perché «governare è agire in modo ‘da strutturare il campo di azione possibile di altri’»[239]. Cioè, il governo presume l’esistenza di una sfera di autonomia e di libertà del soggetto nella sua relazione con altri.

Ma questa libertà è soltanto residuale, con margini già qualificati dal potere. E se la libertà è nella resistenza senza la quale non può esserci potere, allora in F. anche la resistenza è uno strumento per la continuità del potere.

           

Il governo è poi a sua volta soggetto, perché esso è dato proprio dalla relazione, dal fatto che trova un suo luogo nello strutturare il campo d’azione degli altri. Il soggetto si situa a metà strada tra il possibile del governo ed il possibile del soggetto, riferendosi alla possibilità della rivolta, alla «intransigenza della libertà». Pure questa intransigenza è strumentale, è a sua volta appiglio per una presa, pretesto della turbolenza infrastratica.

Il governo del sociale sembrerebbe svilupparsi in modo separato dall’insieme dei contenuti giuridici e delle questioni riguardanti l’interesse individuale, cioè la proprietà privata: si rispetta il diagramma foucaultiano che vede lo Stato ed il diritto come semplici strategie del potere ( e questa visione è sicuramente pragmatica, razionale e positiva). Il cittadino non possiede più i diritti che lo Stato e il sistema del diritto sembravano concedergli; gli resta soltanto il dovere: ogni contrapposizione di matrice liberale tra i due settori sembrerebbe  svanire, finisce «l’io possessivo, soggetto di attributi che ne allargherebbero la libera sovranità»[240].

Ma questa consapevolezza non sembra lasciare spazio al possibile, alla libertà di una singolarità (altro ancora è il problema delle ‘singolarità selvagge’), se non nell’ottica di Nietzsche.

 

Il nuovo soggetto di Foucault:  da un lato profondamente lontano dall’uomo e dal garante che fu la divinità, dall’altro simile a una macchina che sfugge al carbonio per rifugiarsi nella realtà  del silicio. Non più  sguardo sull’infinito[241], ricerca della profondità originaria, ma caduta verso la quantità, che è indifferente all’infinito perché illimitata[242]. L’auspicio va tristemente verso una forma «che non sia peggiore delle due precedenti[243].  Quest’uomo possiede tutte le qualità e tutte gli sono indifferenti (aristotelicamente non possiede quindi nessuna qualità)[244]; possiede tutte le virtù, ma le manda a dormire[245]; dalla sua relazione con il ‘fuori’ ritaglia un ‘dentro’ come piegamento; tuttavia si autointrude per evitare ogni esclusione[246]. Il soggetto è, in definitiva, inquieto, diviso, frantumato; il suo movimento è la sua nuova fragilità, la sua «eccedenza rispetto a ogni possibile individuazione»[247].

Ecco lo slittamento positivistico verso ciò che è possibile numerare, enunciare. Scambi microscopici che effettivamente si svolgono sullo stesso piano delle più avanzate tecnologie informatiche: ed il molto piccolo è suscettibile di essere facilmente scambiato, confuso, sovrapposto. Le stesse specie di sapere vengono definite coestensive perché il loro intreccio sfugge, in fondo, ad una analitica che non si perda nella ricerca di ciò che è impossibile individuare.

 

Avrebbe ancora senso parlare di diritti umani irrinunciabili, o ritagliare uno spazio di libertà non solo residuale, nell’incombenza della forza come necessità? Questa forza si è detta vettoriale, multiforme, infrastratica ed immanente al piano delle relazioni interpersonali, quando non addirittura identica a quest’ultime. L’intero sistema foucaltiano potrebbe definirsi  proteiforme, perché il potere assume mille sembianze diverse, ineffabili e tuttavia efficaci, in grado di sortire effetti giuridicamente rilevanti. Per questa ragione il potere «non si possiede, ma si esercita», e la rete che presuppone è tale da essere un campo di trasmissioni incrociate piuttosto che un piano inerte. Anzi, vi si intersecano mille piani, e le forme tradizionali della forma-stato, della violenza, della repressione, dell’alternanza dominanti-dominati, vi compaiono come maschere occasionali.

 

Tra le urgenze più pressanti, quella di favorire una ‘uscita dal sistema’ che possa ritagliare nuovi spazi al soggetto, non spazi ad un nuovo soggetto, ad un soggetto plurale.

Un nodo centrale è rappresentato dall’ effusività del potere, già presente al livello delle semplici relazioni interpersonali. Per Foucault, difatti, ciascuno trasmette un certo potere, del quale è titolare. 

Ma la titolarità di un potere pare a noi comportare soltanto l’attitudine a trasmetterlo, anche alla presenza di un soggetto in grado di esprimere soltanto la mera intenzionalità.

Esistono relazioni che nulla hanno a che vedere con lo scambio di vettori di forza? e, soprattutto, queste relazioni possono prescindere  dalla possibilità del soggetto di essere consapevole, o di controllare ed indirizzare la  «titolarità» di un certo potere? L’attitudine a trasmettere quest’ultimo può effettivamente concretizzarsi in una omissione, anche in assenza di una precisa volontà?

 

Questa l’alternativa: o la effusività, la capacità mimetica e camaleontica è tale da trascinare con sè anche doni e sacrifici, o si stabilisce una differenza, una gerarchia, una rigidità ‘arboricola’[248], non ‘rizomatica’, tra la relazione e la relazione di potere. Questa distinzione sembra di natura logica, e non intende anticipare alcuna conclusione di tipo diverso. Se si qualifica il potere come linfatico, cellulare, particellare; se si afferma che investe ogni manifestazione socialmente e giuridicamente rilevante, allora si sarà soltanto riprodotto il sistema immanente come trascendente, e di una trascendenza soltanto estetizzante[249].

 

Se il potere si maschera, esistono probabilmente dei volti, dietro altre maschere, che talvolta dimenticano di farsene schermo; e maschere che come vetro trasparente appaiono inaccessibili allo scambio tra vettori, perché appartenenti a dimensioni diverse. Stranamente, più l’analitica del potere si complica, più sembra nascondersi la possibilità di «uscite dal sistema» che le consentano di autoriferirsi e poi di eteroriferirsi. Un sistema realmente aperto dovrebbe più appropriatamente assumere la forma di una spirale, con un punto di fuga individuato da un vettore costantemente crescente.

 

Qualcosa di simile è in Hors Sujet [250] di Levinas, il problema è quello di individuare il luogo dei diritti fondamentali dell’uomo, di arrivare ad un «diritto originario» nel quale siano intesi i diritti a priori , quelli cioè «indipendenti da qualsiasi forza (...)», anteriori a qualsiasi  concessione,  giurisprudenza o tradizione. La spirale in fuga si dipana dal rigido e spietato determinismo naturale e sociale per avvicinare l’unicità di ogni individuo, ciò che lo fa appartenere al genere senza tuttavia negare l’eccedenza della sua singolarità: l’individuo non è identico alla sottrazione degli altri membri dal gruppo.  Il punto di partenza di Levinas è quasi assiomatico: gli preme dimostrare l’evidenza dell’esistenza di diritti naturali. Ad essi è dovuta la concreta unicità  di ogni essere umano, prescindendo dalla sua appartenenza o non appartenenza ad un gruppo  sociale, al di là di costruzioni logiche, storiche, esistenziali.

 

E’ questa la nostra spirale: la possibilità  per l’individuo di essere altrove. Anche Levinas non smette di sottolineare che l’unicità di ogni uomo consiste nella sua alterità, «unicità al di là dell’individualità di individui molteplici nel loro genere»; l’alterità come sottrazione all’ordine stabilito dalla natura o dalla società. Ma alterità anche dal genere, e che, paradossalmente, rimanda  al genere: l’apertura sta nella differenza come «non-indifferenza». L’altro non sta in rapporto con l’io attraverso una semplice norma di reciproca delimitazione (perché talora diritti inviolabili cedono alla pressione di una buona volontà  concepita nella sua interezza, l’universalità della kantiana massima dell’azione), ma attraverso un rapporto che è di «prossimità». L’altro, in definitiva, sta di fronte all’io.

 

Questa fenomenologia dei diritti umani è, probabilmente, esemplare per alludere all’uscita da sé ed eludere, contemporaneamente, la semplice autoreferenzialità del soggetto[251]; e tuttavia la semplice relazione tra individui è ancora qualcosa di più generale, ed antecedente al rapporto di prossimità, per il quale l’uno è di fronte all’altro, l’uno riconosce all’altro una generica qualità di vicinanza , di titolarità di diritti.

Relazione è già percezione[252]  della presenza  altrui attraverso qualità comuni.  L’io può riconoscere l’altro essente soltanto nella dimensione dell’essenza, e non in quella dell’essere; può riconoscerlo soltanto se perviene a questo riconoscimento del quale-in-comune, qualità che non sono identiche alla somma delle  quantità di ciascuno[253].

 

La stessa logica, in un linguaggio che proceda per giustapposizioni casuali, viene a cadere, perché il senso impazzisce e lascia dietro di sé soltanto una metodologia giocosa. Se il senso rimbalza di continuo, e non si riconduce all’altro, non può identificare la qualità di quest’altro, ma soltanto la successione numerica di altri indifferenziati.

 

Questo pare essere l’errore di Jean-Luc Nancy, il quale pure si è dedicato alla nozione di comunità si è dedicato, con esiti incerti. Per ‘comunità’ egli non intende nulla di organicistico, intimistico, infrapolitico. Ne La comunità inoperosa[254] Nancy prende le distanze  sia dall’interpretazione cristiano-personalistica che da quella legata alla Volksgemeinschaft  nazista, indicando invece un percorso che  procede  dall’assunto di una nozione ben difficilmente traducibile o identificabile se non in modo astratto: quella  di comunità come  «essere-in-comune». Qui la particella «in» non significa «essere insieme», né «essere con», ma allude invece alla semplice veicolarità, all’ ‘essere’ inteso come vettore in movimento. Quest’ultimo, nell’uscire da sé, nel raggiungere il limite che gli è possibile, tocca l’esteriorità irriducibile di ciò che pure è ancora interno.

 

Il sistema di definizioni di Nancy è basato  sulla esclusione reciproca di concetti tipici della filosofia (esistenza, individuo, proprietà, comunità). Il movimento avviene attraverso l’eliminazione dell’ intermediazione dialettica, dal momento che l’opposizione dentro-fuori e soggetto-oggetto, come Adorno aveva segnalato nelle sue lezioni[255], raggiunge l’aporeticità del troppo esteso, la tautologia di un soggetto  talmente profuso in sé da rischiare la completa astrazione da tutto quel che potrebbe invece conoscere[256]. Adorno, infatti, aveva già riconosciuto come nesso essenziale la tesi «che la profondità del soggetto si costituisce solo in quanto esso si aliena a sé (...), e cioè esce da sé ed entra nell’altro»[257]. Tale profondità, raggiunta in fin dei conti sempre dal soggetto, avverrebbe a sue spese, perché «più lo sprofondamento del soggetto in se stesso è completo, tanto più, per essere veramente tale, deve escludere ciò che giunge al soggetto dall’esterno», e diventare sempre più «refrattario nei confronti dei contenuti che devono essere considerati come estranei al soggetto»[258].

La tautologia cui fa riferimento Adorno consiste, propriamente, nel movimento del soggetto. Quando quest’ultimo, per conoscere, esce da sé stesso e procede di profusione in profusione,  migliora al limite massimo  la sua conoscenza, ne raggiunge  il limite esterno, la soglia inaccessibile, diventando tanto astratto (il termine postmoderno è ‘smaterializzato’) da perdere ogni contatto con l’oggetto da conoscere.

E proprio nello scontro/incontro con l’oggetto si giocherà la partita fondamentale del nuovo soggetto.

 

Nancy procede senza le zavorre adorniane sul problema dei luoghi e tempi del valore. Per Nancy, ciò che è singolare è già in comune, e ciò che è comune va inteso singolarmente. L’unico «senso» filosofico di questa identità consisterebbe nella semplice reciprocità dei due concetti. La comunità, insomma, finirebbe con l’essere l’ «esposizione» di ciò che rivela, che dice, «della mia nascita, della mia morte, di tutto ciò che esiste fuori di me»[259]. E qui risiede, probabilmente, il momento foucaultiano del pensiero di Nancy: la collettività è l’esposizione delle singolarità le une alle altre: «collettività intere, gruppi, poteri, discorsi, si espongono qui e ‘in’ ciascun individuo così come tra loro»[260].

La «proprietà», ogni singolare proprietà anche come espansione del proprio,  è tale soltanto nel suo estremo abbandono, nella sua consegna a ciò che è esterno[261]. E la stessa filosofia è ciò  che è in gioco nell’ «essere in comune».

 

E’ importante dedurre il motivo per il quale non debba (o sia il caso di attenuarne la pratica individuale) esserci proprietà privata come ‘estensione del proprio’. Quando il soggetto rompe il confine del proprio oltrepassa la frontiera due volte. La prima per raggiungere l’altro; la seconda per tornare a sé ad un livello di maggiore profondità o astrazione. Il movimento, ben conosciuto dagli idealisti, aggiunge strati di ‘arricchimento’ comunitario ad ogni passaggio, e in fin dei conti rende più astratto o ‘smaterializzato’, se si vuole, il soggetto. Detto con semplicità, sembra ‘togliere’ qualcosa all’individuo per contribuire alla formazione di un soggetto poroso, aperto, plurimo. Ma nel complesso nulla lascia pensare alla possibilità di una astrazione totale, e tale da impedire al soggetto di riconoscere l’altro (cosa o persona). Questo movimento sarebbe tautologico.

 

Tornando a Nancy, il suo percorso lo porta a confrontarsi direttamente con Heidegger, precisamente con le tematiche relative al Mit-da-sein:: non esiste un Esser-ci che abbia un senso come concetto o cosa, perché l’esistenza non è né una cosa né un concetto, ma è «la semplice posizione della cosa»[262]. 

Vi è doppia fungibilità tra essenza ed esistenza: «l’essenza dell’essenza è l’esistenza», vale a dire che l’essenza non è altro che una funzione di movimento, un posizionarsi, un «esser-gettato»,  un vettore che chiarisce anche il sé come un caso obliquo, possibile soltanto grazie ad un «altrui».

Ed ecco il soggetto, plurale in un senso ulteriore rispetto a quello di Deleuze: qui conta più la sua pura «transitività». E Nancy prende le distanze anche da Levinas, per il quale il sé consisterebbe nell’essere l’ostaggio d’altri; conterebbe invece la sola «esposizione»; l’altrui ridotto a una sorta di categoria pura della declinazione: «tutta l’ontologia si riduce a quest’essere-a-sé-ad-altrui»[263].

 

Ma la parola di Nancy risulta troppo compiaciuta; infiniti rimandi interni, infraconcettuali, infrastrutturali. La riflessione avviene a ridosso dell’estremo margine linguistico; e dal momento che un lungo lavorio è già stato dato sui motivi fondamentali della speculazione, l’interesse sembra spostarsi sulle particelle intermedie, sui luoghi infinitesimali delle pratiche discorsive. In questo modo si può spiegare l’affannosa ricerca di uno ‘stile’ che consenta al pensiero di muoversi in modo nuovo all’interno di  confini terminologici necessariamente allargati con espedienti tecnici. Uso di corsivi, stringhe logiche individuate da corsivi, alternanza di parole virgolettate o non virgolettate, con maiuscola o senza, e via di seguito in un gioco combinatorio studiato in modo da favorire l’apparenza dell’espansione del pensiero, ma sostanzialmente legato, poi, a varianti concettuali che si muovono comunque all’interno di forme già presentate. Ciò sembrerebbe indicare che in definitiva l’intuizione che è alla base del lavoro filosofico sia solo di natura linguistica: individuato un nesso particolare, come ad esempio la stringa <<essere-in-comune>>, si procede allo sviluppo di questa invenzione, ad uno sviluppo strutturale, e fortemente ancorato all’azione di una logica tradizionale, fondata sull’analisi delle possibili (delle inevitabili) variazioni comportate dall’avvento della nuova stringa. In questo caso, l’uso di un trattino comporta una serie lunghissima, interminabile, di varianti, e si può ben intuire come l’unico interesse rappresentato da un procedimento di questo tipo consista nell’ammirazione per l’invenzione della stringa di partenza, e nella costatazione del conseguente uso virtuosistico della logica nei suoi successivi sviluppi.

Un linguaggio stratificato - non certo nel senso archeologico e foucaltiano del termine - è un beneficio da tenere in gran considerazione, ma del quale fruire in un modo che corrisponda alla effettiva complessità degli insiemi e dei nuclei di pensiero che stanno svolgendosi.

La parola non deve anteporsi al contenuto, ma scaturire dalla necessità e dalla sequenza piramidale, talvolta gerarchica, delle intuizioni che si presentano. Altrimenti il gioco diventa inutile, e il senso non si concede nemmeno lo svolgersi del possibile del concetto.

           

Ci si può tuttavia interrogare sulla legittimità di alcune ipotesi linguistiche. Un esempio: nel protendere al limite sia l’esteriorità del singolare, dell’individuale, del particolare, e contemporaneamente l’interiorità del comunitario il pensiero incontrerebbe un assioma che può «essere enunciato in questi termini: il singolare è in comune, il comune è singolarmente e il senso ha luogo secondo questa reciprocità»[264].

Sulle prime due sequenze della stringa sorge la sola obiezione sul concetto di «limite», secondo noi strettamente connesso con le possibilità reali di uno «sprofondamento» del soggetto. Ma come spiegare la terza parte?  Come può il senso, un senso qualsiasi, risiedere all’interno di una linea di congiunzione? Ciò può avvenire soltanto se il limite viene sfondato, se cioè il senso non si ferma sulla soglia, ma la oltrepassa.        Il senso, in altri termini, può risiedere nella particella «e» soltanto se esistono due materiali, persone, concetti che si rimandano vicendevolmente l’un l’altro. Stare di fronte senza vedersi, da indifferenti, non può in alcun modo rappresentare una costituzione di senso. Anche solo linguisticamente il ‘senso’ rinvia a un vettore direzionale.

Il ‘senso’, cioè, consente un ‘oltre’. Questo oltre, se è tale, non può che essere al di là della linea, oltre il confine e il limite. Il senso non può essere il  limite.

 

Nancy definisce il limite come abbandono, come un nulla che perciò non ha un dentro e non ha un fuori. Ma un limite inteso come linea di demarcazione non è configurabile nella realtà dei fatti, proprio perché conosciamo e comunichiamo. Non saremmo capaci di sorprenderci, o di provare curiosità, se questo limite fosse un nulla senza dentro. C’è sorpresa e quindi anche godimento estetico, perché il limite viene costituito dal soggetto come soglia che stabilisce il dentro e il fuori. ‘Rompere’ questo confine, accorgersi all’improvviso delle ‘aperture’ possibili: è questo che rende palese istantaneamente che un limite vero e proprio non esiste. E’ sul nesso della percezione individuale, sui confini della proprietà, che si gioca la possibilità del senso.

 

Non si può reperire il senso spostandosi di gradino in gradino su una immaginaria piramide (gerarchia), o procedendo di piastrella in piastrella lungo piazze quadrettate (stringa lineare). Esso non può risiedere nella semplice successione numerica ordinata , o per insiemi di cui scorgiamo in modo evidente il diverso contenuto numerico.

Se ‘metafisico’ è già ciò che rimanda ad altro (finanche la sequenza uno-due) è pur vero che la contiguità non perde di vista il limite e non riesce a raggiungere la qualità, e cioè il rinvio ad un altro illimitato e illuminante. Il brivido, il piacere estetico, senso e qualità, sono invece in questo allontanamento non numerico e non razionale[265].

La capacità di rinunciare al confine, di proiettare lo sguardo sull’altro, di infrangere la ritualità del proprio e la primitiva abitudine di marcarlo attraverso l’apposizione di nome e cognome: è qui che il senso gioca la sua ultima vera possibilità. Che è anche la prima di un modo/mondo nuovo, che sta per attestarsi. Cancellare il pregiudizio d’autore non è un semplice gioco estetico; lanciare i propri file nella rete ipermediale non vuol dire abbandonarli all’ignoto; concepire opere collettive, uscendo dal ruolo di compositore o smettere di eseguire opere d’altri uscendo da quello di esecutore non è un capriccio di fine millennio. Tutto ciò è la risposta estetica, pragmatica, di chi ha esaurito tutte le proprie insofferenze per l’asfissia del giuridico e del proprio. Studiare gli oggetti d’arte come merci non vuol dire essere liberisti, ma semplicemente cancellare questa parola dalle opzioni possibili, perché in realtà è il proprio in quanto recinto che si sta mettendo in gioco. Dare rilievo all’atto volontario, dimostrare che esistono spazi residui di libertà, dà alla rinuncia al proprio la gratuità e bilateralità di un dono gratuito anonimo. La consapevolezza della scelta di ‘rinunciare a’ non rende il comportamento esclusivo, a senso unico.

Se il senso è nell’altro, il progresso sarà l’altro nel futuro (ripetizione del dono, attese mai più vuote di contenuti); la storia sarà l’altro nel passato e nel presente (la cronaca è già storia, anche nei suoi rivoli di contraffazione).

 

Con Comparizione [266], seguito di Comunità inoperosa, Nancy approfondisce il problema della costituzione di senso, che nella storia occidentale ha riguardato non tanto il significato dell’esistenza del singolo, del «solo»[267], quanto del senso nel momento in cui esso viene condiviso. Da ciò il titolo: ciascuno di noi compare dinanzi ad una condizione comune che «si» espone denudata, e che «ci» espone nell’ambito di una ineludibile presenza. Siamo sempre  costretti all’interno di un denominatore comune e, contemporaneamente, ma non senza conflittualità, presenti rispetto ad una condizione che ci vede essere in comune assolutamente.

Il senso, come è lecito aspettarsi, «non ha luogo che per più d’uno. Anche e soprattutto laddove l’unico, il ‘singolare’ esige il ‘suo’ senso»[268]. In questo punto, specialmente, si rivela la consapevolezza del «numero», che è «venuto ad imporsi in ogni pensiero del ‘comune’»[269], come elemento costitutivo della nostra stessa civiltà occidentale[270], e fino a comporre, nelle sue spaziature, nel suo aprirsi alla «arealità» (un puro spazio d’area, superficie), la possibilità della comparizione. Qui soltanto risiederebbe il senso.

Sul senso si evidenzia la difficoltà oggettiva di Nancy, tesa ad evitare cadute sul tema della ‘qualità’. Difatti, l’approfondimento sul ‘senso’, che è ciò che più interessa, torna solo come occasione: «quel che si presenta (...) è precisamente la forma (...) della ‘questione’ che è più di una questione: come la comunità si appropri del senso che è» [271] . E il senso, per Nancy, ci sopravanza sempre perché non vi è esistenza (fin dalla nascita) che non sia  «in-comune», e pertanto le nostre modalità di appropriazione di senso sono insufficienti a raggiungerlo. 

Tutto ciò appare chiaro in una nota: «noi non cessiamo d’avere a che fare con un’assenza di fondamento e di compimento (di sostanza, di soggetto, di senso, di proprietà, di principio, d’unità o di unicità, ecc.). E’ su questa soglia che tutti i nostri discorsi vengono meno, ma è anche ciò che dà la possibilità più propria al pensiero, perfino in questa difficoltà che per il momento ci interrompe la parola»[272]. E’ una ammissione di grande chiarezza e onestà. Un senso qualsiasi apparirebbe poi nella politica, luogo privilegiato perché  più esposto e nudo tra gli esistenti. Qui la stessa esistenza accede a questo «senso ‘qualunque’, attraverso un «accesso impraticabile che tuttavia accede»[273].

 

Ulteriori, numerose, obiezioni, pertanto, sembrano così articolabili: 1- può il senso risiedere soltanto nella transitorietà (veicolarità) della particella ‘e’, ‘in’, ‘tra’? 2- E’ in gioco il pensiero della dualità, che ci pare ancora concepita, alla fin fine, come opposizione, e non come ‘onda’, o ‘onda-principio’. La prima conseguenza del problema della dualità  è il rapporto tra sé ed altro, che viene letto ancora sulla matrice hegeliana-marxiana[274]. 3- La rinuncia al senso, per il quale non si trovano più parole, viene posta in relazione col problema della profondità del soggetto; è proprio nell’estensione del soggetto che può invece ritrovarsi il seme della relazione e della qualità. 4- Può un «senso qualunque» legittimare la politica e avere una forza giuridico-sociale? 5- Sono dimostrabili le affermazioni-pilastro di questa ontologia, e cioè che «l’inesponibile (o l’impresentabile) è l’inesistente»[275] e che «la non esistenza non ci siamo più a condividerla, essa non va condivisa»[276]? 6- Come rispondere ai quesiti lasciati consapevolmente irrisolti? e cioè, come dare diritto all’assenza di un fondamento dell’ essere-in-comune? come «sostenere il tracciato dell’esteriorità», dove escluso è l’altro, l’ebreo, l’arabo, il nero, il giallo?

A questi problemi Nancy non sembra fin qui aver dato soluzione.

 

Il contraltare mediato del soggetto alla fine attecchisce nel campo delle nuove soggettività. Le ‘cose’ agiscono come soggetti. I soggetti si esteriorizzano; questa emergenza incontra l’altro indifferenziato - cosa o persona -, più o meno mercificabile. La sua qualificazione si annida nel percorso di senso. L’uscita da sé si perfeziona solo quando il soggetto ha riconosciuto l’altro.

 

Se alla merce si addice un carattere di feticcio, una sorta di misterioso simbolismo che semplicemente non fa che rappresentare la possibilità di uscita da sé -immissione nel sociale- attraverso il momento dello scambio, anche a quest’ultimo si è riferito un forte portato simbolico.

E’ qui che il soggetto gioca la sua partita più radicale confrontandosi con l’oggetto. Jean Baudrillard, occupandosi dell’economia politica come modello di simulazione, ha definito la legge strutturale del valore come un codice che rimanda alla doppia allusività reale/immaginario tipica della società postmoderna. In particolare, quando il capitale enuncia palesemente la legge dell’equivalenza come argomento pubblicitario non farebbe altro che utilizzare una doppia maschera; una vera e propria manifestazione come occultamento. La (duplice) simulazione consisterebbe proprio in questo: oggi, «una merce deve funzionare come valore di scambio per meglio nascondere che circola come segno, e riproduce il codice»[277]. E il simulacro s’è spostato, perché «il valore di scambio ha per noi, nel gioco strutturale del codice, il medesimo ruolo che aveva il valore d’uso nella legge mercantile del valore; simulacro referenziale»[278].

L’eccezionale emergenza simbolica del sistema è tale da spingere Baudrillard a postulare l’impossibilità di sconfiggerlo sul piano della realtà: ad ogni sfida non si potrà non rispondere con qualcosa di altrettanto determinato, secondo l’ottica del negozio, dello scambio. E’ facile intuire che il punto d’arrivo di questo rinvio ad oltranza non può che essere rappresentato dal collasso, dalla morte; e che il soggetto diviene a sua volta oggetto di uno scambio improponibile, la cui posta in gioco è la vita. Difatti, «se la dominazione proviene dal fatto che il sistema detiene l’esclusiva del dono senza contro-dono (...), allora l’unica soluzione è di ritorcere contro il sistema il principio stesso del suo potere: l’impossibilità di risposta e di ritorsione. Sfidare il sistema con un dono al quale non possa rispondere, se non con la propria morte e il proprio crollo»[279]. Soltanto una scommessa che possa interrompere la doppia linea dello scambio potrà davvero sottrarre il soggetto al potere, a patto di renderlo oggetto di scambio.

 

Ancora forme ibride di soggettività sono nell’incontro virtuale consentito dalle tecniche ipermediali di comunicazione. E’ sempre merce la cosa che, pur se prodotta dal lavoro di un soggetto, viene immessa in una rete di comunicazione in modo da mascherarne la provenienza, impedirne l’attribuzione a un autore? Il soggetto-bots[280], entità ‘virtuale’ (più che reale, nel sortire effetti), trasformandosi in impalpabili file che viaggiano in reti telematiche, è più uomo o software che simula personalità, individualità?

Molti gli effetti, già segnalati su queste pagine[281]: l’attenuazione del vincolo di proprietà; la scomparsa progressiva del copyright; il consolidamento della proprietà collettiva. Nuovi oggetti creano nuove forme di soggettività; nuovi soggetti, trasformati in bit, creano nuovi oggetti.

 

Alla configurazione dello scenario tipico della comunicazione globale non sono mancate critiche, ad esempio da parte di Paul Virilio. Egli ha rilevato, tra i pericoli della virtualità: l’avvento di una stereorealtà (lo sdoppiamento della realtà sensibile e il conseguente smarrimento dei riferimenti dell’essere); il turbamento e disorientamento di tutti quelli che, smarrita la percezione unitaria del reale, perdono anche le nozioni fondamentali di ‘democrazia’ e ‘società’; la delocalizzazione dell’alterità, del rapporto con l’altro; l’avvento di una ciberneutica della politica che si svolga all’insegna della conquista di un tempo unico mondiale e di un mondo unipolare, gestito unicamente dalle multinazionali[282]. Estremamente rilevanti le obiezioni di Armand Mattelart, che individua i limiti della global marketplace, sorta di impero globale in cui i capitali, i prodotti e servizi, il management delle tecniche di fabbricazione appaiono certamente globali, ma nel senso di un modello «imperiale/tecnologico» imposto dall’egemonia culturale ed economica degli Stati Uniti. Anche qui, la perdita della nozione di spazio avrebbe un contraltare nella logica dell’azienda-rete che conia addirittura il neologismo glocalize per indicare la contrazione tra ‘globale’ e ‘locale’ apportata dall’avvento delle autostrade informatiche[283].

Si consolidano i nuovi ‘comandamenti’ dettati dal processo di mondializzazione dei mercati,  conseguenza inevitabile dell’avvento delle nuove tecnologie: «il secondo comandamento deriva dalle ‘rivoluzioni scientifiche e tecnologiche’ di questi ultimi trent’anni nel campo dell’energia, dei materiali, delle biotecnologie e soprattutto dell’informazione e della comunicazione. (...) L’innovazione tecnologica permanente, al servizio soprattutto della competitività delle imprese sui mercati globali solvibili già saturi, o con tassi di crescita bassissimi, si traduce nel predominio dell’innovazione dei procedimenti anziché dei prodotti; e ciò comporta ulteriori perdite di posti di lavoro. La salvezza promessa è dunque riservata a pochi»[284].

 

L’elenco fatto da Deleuze e Guattari (Mille piani) a proposito di capitalismo e schizofrenia viene adeguato da Francis Pisani al Www (World Wide Web) che consente di navigare in Internet: «connessione (qualunque punto può essere connesso con qualunque altro); molteplicità (qualunque nodo può avere parecchie dimensioni); eterogeneità (modi, onde e flussi sono infinitamente diversi); metamorfosi (la rete è in costante ri-elaborazione); mobilità dei centri (sono parecchi e si spostano); rottura (se la rete viene interrotta o il traffico bloccato in qualunque punto, i flussi trovano nuovi percorsi); apertura (il sistema non ha limiti, cresce e si modifica)...»[285]. Significativamente, si cita Foucault a proposito delle mutazioni dell’ordine e del disordine applicate indifferenziatamente agli antichi o ai (post)moderni: «oggi possiamo dire che il disordine che serve da base al nostro pensiero e al nostro agire non ha lo stesso modo di essere dell’ordine dei moderni»[286].

Le informazioni non conoscono più la mera, semplice veicolarità che le conduce da un mittente a più destinatari: su Internet tendono ad essere circolari, a viaggiare tra una pluralità di utenti. E’ appena il caso di ricordare, però, che tali informazioni si sottraggono contemporaneamente al controllo del potere ma anche alla verifica di attendibilità da parte di terzi (compito svolto nei media dalla figura professionale del giornalista). Possono pertanto essere facilmente contraffatte, e minare la credibilità del sistema.

 

Alla fine di tutto il percorso, le tradizionali categorie (arcaiche e fondanti) del pensiero socioeconomico e giuridico appaiono profondamente mutate; lo scenario accoglie la mutazione dei soggetti politici e dei soggetti estetici (operatori e/o fruitori).

 

Alcuni ‘imperativi generali’ sono stati messi a fuoco: -sfuggire al potere; -potenziare la volontà; -rispondere allo svuotamento del soggetto costituito  con l’attenuazione e progressiva scomparsa della figura dell’autore per professione; -alla crisi di rappresentanza politica far seguire l’espressione della volontà individuale (ciò è tecnicamente già possibile); -consolidare il senso come direzione verso l’altro qualificato: ciò ha un notevole impatto volontaristico perché esiste una deliberazione forte che talora conduce alla rinunzia della costituzione quale soggetto operante; -assumere la rinunzia come forma dell’incontro con l’altro; -essa è relazione di qualità perché non rimbalza indiscriminatamente (numero, quantità) su soggetti indifferenziati.

 

E’ possibile ora ribadire anche le specifiche estetiche.

Sfuggire al potere: -vincere la scommessa col potere producendo liberamente opere/dono anonime e gratuite; -vincere la scommessa rinunciando allo scambio e lanciando semi d’opera in rete (Internet o altre: è prassi già usata in letteratura, ma poco sfruttata dai musicisti: le opere vengono completate/contaminate/modificate da una pluralità di utenti).

Potenziare la volontà: -uscire dal ruolo: interpreti lasciano la forma vuota del concerto, del repertorio, del virtuosismo come primato ed eccellenza agonistica. Compositori non lavorano soltanto alla individuazione del linguaggio ma alla messa in comune dei linguaggi. Ciò creerà da un lato un movimento di rilancio della World music globale, e dall’altro scatenerà la conservazione delle istanze locali (World etnica). Anche immettendo in rete lavori ‘firmati’, cioè individuati, i compositori potranno aggirare la globalizzazione dei mercati.

Uscita da sé del soggetto, attraverso le forme dell’ opera collettiva: evoluzione del laboratorio tipico degli anni Settanta, nuova opera da lavoro comune; opere intermediali (CD-rom) richiedono staff di lavoro estremamente compositi; opere lanciate in Internet senza paternità.

Crisi di rappresentanza: alla crisi di rappresentanza politica fa già eco la crisi dei ruoli tipici delle forme d’arte, con la nascita delle figure ibride del compositore-esecutore (molti compositori scendono in campo eseguendo o dirigendo direttamente le loro opere) e dell’esecutore/compositore (molti esecutori non sentendosi più gratificati dall’assenza di un linguaggio strumentale adeguato e dal trasferimento di creatività sull’autore, diventano essi stessi produttivi).

Incontro con l’altro: -estetiche del plagio, come forma esasperata, ma naturale evoluzione, delle prassi di ‘citazione’ musicale e contaminazione; -rilevanza di questo fenomeno, poiché esso offre una via d’uscita all’opera/merce attraverso l’opera/dono. Tale dono mantiene le caratteristiche dell’anonimato e della gratuità.

 

I pericoli sono molteplici. L’inevitabile ‘confusione di confine’ tra soggetto ed oggetto si espone, naturalmente, al pericolo della mistificazione, alla possibilità di uno smarrimento del senso. Una volta acquisite le nuove e molteplici forme di soggetti mutanti (cyborg) ed oggetti virtuali, la falsità della stessa nozione di ‘virtuale’ potrà offrirsi alla riflessione critica nella forma di una scommessa che impegna la complessità dei valori e referenti conosciuti (della merce, pretesto dello scambio col potere, e dei soggetti, ostaggi di quello stesso veicolo di transitività tra sé ed altro).

 

E’ proprio il caso di confrontarsi senza indugi con l’emergenza delle nuove forme di soggettività, senza sottovalutarle o sorriderne, utilizzando anche gli strumenti predisposti dalla tradizione critica e dalla scuola analitica francese; questi ultimi sono indispensabili, ma non sufficienti:occorre, cioè, uno sforzo ulteriore che non può essere solo individuale; bisognerà raccogliere energia da un gruppo eterogeneo di intelligenze. La limitata diffusione mondiale delle nuove tecnologie ci concede ancora il tempo necessario allo studio delle sconvolgenti dinamiche del nuovo millennio[287]. Se non saremo in grado di attivarci, di sopportare il confronto col potere utilizzando gli strumenti che abbiamo individuato, ci esporremo al rischio che anche nella società informatizzata tutte le opzioni vengano previste. Lo scenario non vuole essere apocalittico, ma il pericolo è che tutte queste dinamiche di libertà, predisposte per ‘uscire dal sistema’, possano a loro volta trasformarsi in formidabili pratiche di controllo.

 

Le tecnologie di senso chiamano a un riconoscimento e a una rinunzia: la qualità dell’altro; il pregiudizio d’autore, il limite del proprio.

 

 

 

IL SENSO DEL DISCORSO

 

 

 

Il senso del discorso

In numerose parti del mondo si sta cercando di organizzare (comporre, confondere) la musica lasciando prevalere sulle questioni formali il senso del discorso. La mera grammatica utilizzata ha definitivamente assimilato - metabolizzato - molte tecniche approntate nella fase del cosiddetto ‘sperimentalismo’.

Si tratta di trovare un nome per questa musica.

 

Border Music

Può aiutarci una stringa:

frontiera-confine-limite-bordo-margine

La frontiera è ‘star di fronte’; ci si sfida a entrare.

Le musiche di frontiera sono quelle che hanno fatto un passo in più.

Stanno lì, ci guardano. Ci invitano a intervenire.

Il confine è l’oltre proibito.

Essere al confine vuol dire che un passo ulteriore non sarebbe possibile.

‘Stare al confino’ significa essere già stranieri. Tutto ciò va capovolto.

Il limite vuole essere superato.

Ma ‘stabilire un primato’ è un modo improprio di dire, perché il limite

è flessibile, plurale, mantiene parecchie pagine di riserva.

Il limite, quello di velocità, è solo convenzionale, è ancorato ad un territorio.

“Essere fuori-limite” è aspettativa di tutti gli imbrigliati.

Bordo del foglio (cosa c’è ‘oltre’...);

margine del discorso (ciò che conta è il silenzio);

fuori margine (hide tracks);

memoria tampone, rinvii concettuali, salti logici...

 

Rinvio concettuale / Alterità

Il rinvio pone la questione dell’ alterità: l’altro che mi sta di fronte è messo lì a delimitare lo spazio che posso pretendere, oppure l’altro è quello col quale tento un rapporto di prossimità, quello che è ‘differente’, come scrive Levinas, grazie al fatto che non mi è ‘indifferente’? Se stabilisco con l’altro un rapporto di ‘proprietà’, e generalizzo questa assimilazione - bambino, donna, adulto subordinato, oggetto - raggiungo un livello di astrazione per il quale mi sarà impedito alla fine di distinguere effettivamente l’altro. Se l’io viene pensato come un io occidentale, ponendogli di fronte un orientale oppure un meridionale (o un pensare meridiano), ciò avviene perché non si riesce a sfuggire al vero problema, vale a dire l’individuazione concreta della persona che mi è altra, specialmente se la considero prossima e la confronto con quella a me più vicina e simile.

 

Rinvio concettuale / Prossimità

Quando riconosco questa prossimità non potrò certo pormi il problema della reciprocità, del contraltare, del controdono (io do una cosa a te, tu dai...): questa esigenza vorrebbe la ‘proprietà privata’ come necessaria, conciliando con la persistenza del potere all’interno dello stratagemma atavico dello scambio. Ma Baudrillard aveva sottovalutato la possibilità di un dono unilaterale gratuito, che oggi è realizzabile attraverso le pratiche dell’abbattimento del copyright, l’insorgenza del plagio, il proliferare di attività di tipo esclusivamente volontaristico. Se ne può fare articolo di costume oppure se ne può indagare la ragione profonda, la stessa che porta la vera ricerca radicale  ai nuovi linguaggi, ai suoni più o meno tecnologici, ai discorsi estetici capaci di rimandare oltre di sé, alle forme di libertà creativa concesse al fruitore.

 

[ ------> strutture------> ]

 

Rinvio interno al brano.

(secondo l’elementare forma della ripresa variata, è il grado più basso e meno efficace, dal momento che secoli di musica ‘colta’ ormai ci hanno abituati alla forma ABA e alle sue varianti: la stessa circolarità del brano, con la ripresa finale del tema o delle suggestioni iniziali - dell’incipit generalizzato - nel caso della musica contemporanea, è ancora una prassi visitata con frequenza dai compositori. Anzi, acquisita la piena legittimità del compact disc come oggetto estetico compiuto, si può segnalare la prassi di ripetere la track iniziale alla fine della compilation, per garantire una compiutezza di discorso all’intero lavoro - tale track può essere variata o ripetuta, ma generalmente si preferisce apportare varianti se viene collocata nel corpo del compact, e ripetuta, se chiude il cerchio, alla fine).

Rinvio a cliché di catalogo, cioè ad altri brani del medesimo compositore.

Rinvio/citazione.

Rinvio/suggestione (è una citazione ambientale, di atmosfere musicali altrui).

Rinvio costitutivo (l’opera ha la sua genesi, fondazione, formazione, sulla prassi della contaminazione, e cioè su  un rinvio fortemente strutturato).

Rinvio mistico (è la più rara eventualità, propria di quei brani in grado di suggerire un’estasi da ascolto inspiegabile).

Rinvio...

 

[ Eteroriferimenti -smaterializzazione d’opere (cose) e soggetti- ]

 

Eteroriferimento / 1

Eteroriferimento dell’opera: essa lancia il fruitore lontano da sé.

 

Eteroriferimento / 2

Eteroriferimento dell’opera: capacità di rinvio ad altro da sé, a qualcosa di esterno, prossimo. L’opera extracolta può guardare verso l’oriente, l’est, il meridiano.

Può diventare klezmer, gitana, meticcia; consegnare un linguaggio capace di parlare ad altre cultura. Soltanto nel suo farsi altro l’opera può riuscire accattivante e sopportare l’estensione temporale che ancora la caratterizza. Bellezza come eteroreferenzialità.

 

Eteroriferimento / 3

essere artisti soltanto in misura del proprio essere altro, rifiutando giudizi unilaterali, privi di direzione, di senso (quindi riduttivi), che non si confrontino con la pluralità delle produzioni, dei silenzi, delle percorrenze tipiche della complessità di un musicista contemporaneo.

 

Frontiere / Meridiani

‘Diritto universale all’oltraggio’ sarebbe quello della velocità a danno della sacertà. Un pensiero lento, meridiano, va realmente salvaguardato? (o piuttosto questo pensiero lento sopravviverà comunque, contrappeso alla velocità ipermediale, e a una spinta verso l’esterno corrisponderà una sacca di resistenza e di concentrazione interna?).

Il diritto alla differenza qualitativa può diventare pericolosa distinzione tra meridione e settentrione, tra meglio e peggio. Velocità non significa incapacità, necessariamente trasgressione. Salti logici sono concessi anche ai poeti e ai custodi dei Graal. Le equazioni, se capovolte, risultano discriminanti all’incontrario. E la pacifica compresenza non può che risultare infiltrata. Beneficamente, in modo da mescolare insieme, e non esser più capaci di distinguere che le unità.

Se si ha presente la possibilità del senso (che tutti insieme si sta andando da qualche parte), non ha rilevanza la conservazione della notizia, le ‘caratteristiche’ etniche, l’appartenenza a generi e specie. L’identità è trasfusa.

Gli attuali orientamenti, centrifughi e centripeti, andranno o verso la divisione e la decadenza, o verso la costituzione di un popolo del mondo, di un’arte del mondo, di una politica universale.

Le acque, l’aria, le intercapedini.

 

Confini / rinvio / canti sradicati (1)

Dischi registrati rigorosamente sul posto. Con attente pretese filologiche.

Tendono a riprodurre la cultura del luogo. E appartenere alle biblioteche del futuro, ché altrimenti qualcosa andrebbe irrimediabilmente perduto. Alessandrinismo. Fa rima con sperimentalismo.

 

Confini / rinvio / canti sradicati (2)

Quelli dei popoli che da sempre risiedono altrove. Canti di migrazione. Canti che vengono dalla guerra. Canti che non sarebbero mai voluti andar via. Meritano rispetto.

 

Confini / rinvio / canti sradicati (3)

Gli autentici compositori ci mettono le mani, e allora cose morte diventano improvvisamente significanti. Cose ‘etniche’ acquistano un sapore particolare. Qualcosa di profumato, insomma.

 

Margini

«La modernità è libera di guardare il pensiero meridiano mettendolo nelle rassicuranti caselle che permettono di classificarlo come esotismo privilegiato, embrione di integralismo o apologia della marginalità» (Cassano). Ma la modernità è lo stato di fatto. Non ancora della maggioranza. La ‘marginalità’ è la vera maggioranza. Essa deve far confluire il proprio essere meridiano nel tentativo collettivo di crescita. Se ciò non accade, prevale la velocità per la velocità. Ogni tecnologia può risultare sufficientemente utile allo spirito.

C’è «aggressività tecnologica»...? C’è sicuramente. Ma c’è anche aggressività (fisica) integralista.

 

Border Music

Stringa ulteriore:

dissipazione-dispersione-disgregazione-deriva

 

[ Strategie di smaterializzazione ]

 

 

Strategie di smaterializzazione (Icone:)

deriva

 

dispersione

 

dissipazione

 

estetica dell’abbandono

 

etica della sottrazione

 

confusione

 

 

Erosione (strategie di smaterializzazione)

Scorrimenti carsici

 

...........................ogni volta che si prova......... a formulare un pensiero.....

 

                        ........................preferisco accensioni di senso

 

 

‘memorie del sottosuolo’ (la città piegata, la nostra città piagata)

 

artisti disciolti

 

le prassi c’invogliano a frantumarci

 

a casaccio sul bagnasciuga

 

 

Senso (1) ---->

il senso è un vettore

implica direzione

da/verso qlcsa

 

 

Ogni atomo comporta divisione e connessione

                        Rete

                                   Rete neurale

 

 

Accensioni   di senso

            da Capo al Fine

                        --------->stringhe

 

 

trivellare superfici

strato su strato mille piani intricati e sovrapposti

 

 

<---- Senso (2)

il senso è un vettore qualsiasi?

se c’è direzione si va da/a, e questo può bastare

se c’è direzione c’è già qualcosa,

c’è già moltissimo

 

intanto, c’è movimento

 

qualcosa che va

c’è un luogo d’arrivo - e partenza

(perché talvolta ci fermiamo)

 

ma se mancassero sarebbe perfetto:

un dio motore davvero energico

 

ma cose vanno, cose si fermano

sussiste un senso residuo

 

Un vettore è il senso residuo, la noce della relazione

Se non ci fosse senso io e altro non saremmo in due

Non potrei pensare altro che un numero due ipotetico

‘Uscire da me’ dà una propulsione di senso

‘Uscire da me’ è già direzione

 

è già eversione, diversione

                        uscire dal sistema

 

 

Dissipazione (strategie... )

Intersezioni (Chambers)

Dissipazione dell’Occidente

L’apertura al mondo (world) -da Londra alla vicina New York- è l’ultimo respiro energetico (recupero?) dell’Occidente. Simile a uno spasmo (---->agonia).

E infine dissipazione: creativa, esistenziale, dei percorsi, del pregiudizio d’autore e d’esecutore (davvero figure arcaiche...).

 

Dissipazione del Senso

La nuova complessità è un’estensione di senso. Oppure è la sua dissipazione a programma.

In questa forchetta di significato sta già il dramma della dispersione.

 

Dispersione (strategie... )

Intersezioni (Chambers)

Dispersione del soggetto.

Il soggetto (europeo) subisce lo spaesamento per la trasvalutazione del linguaggio.

È soggetto ad azioni di disturbo. Il soggetto verrebbe dopo la lingua (Heidegger).

 

Disgregazione (strategie... )

Disgregazione: i suoi semi sarebbero nell’anteriorità della storia e del linguaggio.

Ma è uno dei soggetti possibili.

 

Deriva (strategie... )

Deriva dei testi, abbandonati al trascinamento. Deriva delle pratiche.

 

Etica della sottrazione (strategie... )

Etica della sottrazione

spazi sempre più angusti

scelti volontariamente

per esiliare/isolare lo spirito

Etica della sottrazione

gesto etico, evidentemente

morale solo temporanea

che stabilisce forme

nelle quali poter sopravvivere

senza troppo dolore

Etica della sottrazione

un luogo soprattutto interiore

dal quale per emorragia

dell’esterno indifferenziato

possono sortirsi effetti

fin qui insperati.

 

Prassi di esclusione

prassi compositive

impediscono

di percorrere differenti altrove

che non siano sonori.

 

Sperimentalismo (superamento)

La nuova ‘sperimentazione’ cerca (e spesso trova) nuove forme di offerta musicale. Concerti gradevoli, musiche pensate per piacere, non rinunciano alla ricerca ma abdicano al distacco esibizionistico (snob) dello “sperimentalismo”.

 

Border music: interferenza

La differenza tra sperimentalismo e sperimentazione è nell’interferenza. 

Tra ruoli (compositore da un lato e interprete dall’altro) spettacoli (concerto-rituale/ concerto invenzione) supporti (compact disc come semplici raccoglitori o come oggetti d’arte con piena dignità ed autonomia).

Tale interferenza è figlia della modernità.

Ma supera la modernità permutando le forme e triturandole in un caleidoscopio di generi.

Più della forma, prevale il rinvio all’altro.

Dal quale dipende il riconoscimento della ‘stazione di partenza’.

E che costituisce il parlato della musica, il discorso di ‘senso’ che si va a costruire.

L’attenzione al senso del discorso, al linguaggio, al che cosa stiamo dicendo piuttosto che al come lo diciamo.

 

Border music: musiche di frontiera. Modelli

===> World e Global music. Utilizza stilemi appartenenti a diversi generi musicali o/e a diverse zone geografiche. Può usare clusters pianistici o tecniche del respiro circolare, per mescolarle a progressioni ‘soltanto’ modali (jazz). Può utilizzare voci del popolo dei Tuva ed un formicolante quartetto d’archi come live elettronics (---> Kronos Quartet).

 

Antiaccademia / transiti

Nuove figure (compositori?) hanno in comune la scelta individualistica (fuori dalle scuole) di porsi sul confine, evadendo programmaticamente o di fatto le tradizionali categorie di appartenenza di genere. Che la loro provenienza sia colta o guadagnata sul campo non conta qui assolutamente nulla, perché l’approdo popular, neomodale, folk, new age, extracolto, è anch’esso un transito.

 

Antiaccademia / Modelli (esempi... )

La musica di frontiera si lascia alle spalle molti presupposti ‘accademici’, infrange i ruoli (tra esecutore e compositore):  (---> Balanescu Quartet e altri), dando spazio all’improvvisazione e pari dignità estetica alla produzione musicale di musicisti provenienti da settori non convenzionali (dal rock, ---> Frank Zappa; dal jazz ---> John Zorn).

Arduo indicare soltanto ‘alcuni’ modelli musicali.

Tra gli stranieri ---> Pärt, Preisner, Gòrecki,  Bryars;

e ancora fra gli ‘ibridi’ --->Harold Budd, Brian Eno, il sassofonista Jan Garbarek

Tra gli italiani un precursore ---> Luciano Cilio

 

[ ------> strutture------> ]

 

(... esempi) / Ghiaccio

Circa 30’, tredici episodi collegati per tonalità, umori e incisi tematici.

Strutture:

-sottrazione interlineare e verticale, condensazione/elisione motivica (--->strategie di smaterializzazione);

-citazione di atmosfere tradizionali, utilizzo di veri e propri segmenti di repertorio (---> estetica del plagio);

-sovrapposizioni armoniche e dinamiche, realizzate in studio attraverso tecniche di overdubbing di tracks, e dal vivo attraverso una sofisticata trascrizione e l’uso di una tecnica esecutiva in grado di simulare la presenza di apparecchi elettronici (amplificatori, distorsori, etc.);

-stratificazione di pedali e risonanze;

La musica non tenta di essere descrittiva, né impressionistica; posso chiamarla ‘musica per immagini’, ma non allude solo ad immagini pittoriche ma a quelle interiori

Intimismo, concentrazione (---> Estetica della sottrazione ---> concentrazione/sottrazione del  suono  ---> sul suono);

-fusione e confusione di stili, generi, atmosfere: melting-pot, e non semplice accostamento, ma il tentativo di realizzare il gioco del rimbalzo di senso (---> eteroriferimento) utile a comunicare la densità del sentito attraverso un lavoro sul linguaggio.

 

 

Tutte le stringhe (zapping concettuale) mentre ‘parlano di’, contemporaneamente ‘sono’ un materiale oggettivo, linguistico  (discorso <---> senso), di struttura che attua il rinvio. Una partitura.

 

 

MUSICHE PER OGNI CONSUMO

 

 

 

 

Consumo di oggetti esposti, esposizione del consumo, consumo dell’esposizione del consumo, consumo dei segni, segni del consumo.

Henry Lefebvre, 1971

 

 

 

 

Opere e consumi

 

In fin dei conti, l’opera è un oggetto che ‘può’ essere commercializzato, venduto, consumato. La qualità di quest’opera musicale prescinde dal suo veicolo, inteso estensivamente come le caratteristiche e le precondizioni che ne consentono il consumo, e non ha nulla a che vedere con la effettività di ciò che la rende ‘cosa da vendere’.

Questa semplice premessa ha conseguenze di straordinarie importanza, poiché a causa dei teorici della seconda scuola di Vienna, e degli epigoni di Darmstadt, fino a poco tempo fa l’estetica non era riuscita a spiegare e ad assimilare la musica commerciale, e la sua validità, cioè la capacità dell’opera di mantenere una effettiva capacità di creare relazioni, rimandare ad altro, possedere un senso (inteso sempre come vettore di significato capace di rinviare a qualcosa di differente, il cosiddetto ‘eteroriferimento’ dell’opera).

 

Per essere più espliciti, la qualità e il veicolo hanno certamente una qualche relazione,  ma la qualità prescinde tanto dal veicolo quanto dalla comunicazione e dall’influenza dell’industria culturale: solo così può esistere un’opera di valore anche nel caso delle più becere canzoni pop. Questo valore, in sé, può risiedere ad esempio nella funzione sociale o politica svolta, nella sua struttura, nel contributo di evoluzione delle forme musicali e dei linguaggi, e in generale nella capacità di senso del brano.

 

L’opera è anche rappresentazione di un’idea. Come tale viene tutelata, con alcuni eccessi (tipo società degli autori)[288]. Senza arrivare ad un’abolizione del copyright dovrebbe invece esistere la possibilità di un’opera collettiva., e di un’opera frutto del cosiddetto ‘dono unilaterale gratuito’. Queste forme caratteristiche sembrano essere quelle che potrebbero dare all’opera musicale il suo significato[289].

 

Anche se viene generalmente trascurato in un’epoca incapace di riferimenti storici men che prossimi (ciò avviene nelle università, nelle accademie, nei conservatori più retrivi, ed è tipica di luoghi istituzionali che hanno perso qualsiasi capacità di produrre cultura), dal punto di vista delle macrostrutture estetiche la linea che unisce la materialità dell’opera e la sua capacità di significato è stata rintracciata nella dissertazione dottorale di Marx, e nella critica della Ragion pratica di Kant, come dimostrato altrove[290]. L’ intuizione del problema, non la soluzione, è invece riconducibile sorprendentemente ad Otto Weininger. La qualità dell’opera ed il suo consumo di massa non possono prescindere da entrambe le stringhe:

-materia / potere / industria culturale / commercializzazione / vendita / consumo

-idea / resistenza / memoria / intenzionalità / utilizzazione consapevole.

 

I criteri per analizzare e per produrre appaiono plurimi; gli insiemi che girano attorno all’opera risultano estremamente complessi. Ad esempio, un fenomeno (o una corrente) potrà apparire anche interessante se studiato con finalità sociologiche, ma andrà subito stigmatizzato dal punto di vista delle strutture musicali in senso stretto. Alla sponda opposta, opere estremamente stratificate andranno ugualmente combattute, al contrario, per la loro incapacità di comunicare con il pubblico, e condannate per una ricerca fine a sé stessa (è il caso della produzione extracolta di moda fino a un decennio fa e di derivazione darmstadtiana: di recente tutti hanno velocemente cambiato pelle, adottando di fatto quanto teorizzato nel lontano 1984)[291].

 

 

Un consumo ‘adulto’

 

L’opera può essere consumata senza per questo perdere qualità estetica. La questione, posta in relazione al problema dei consumi giovanili, potrebbe creare qualche malinteso. Invece anche qui ci si trova né più né meno che di fronte al problema che riguarda tutte le tipologie di consumo. Mi chiedo se esista un consumo ‘adulto’, o se si possa parlare propriamente di ‘consumi per soli adulti’… Un consumo ‘adulto’ infatti prescinde evidentemente dall’età del consumatore, e coincide con quel consumo che riesce a mantenersi il più possibile consapevole, ad indirizzarsi verso questo o quel prodotto musicale assecondando la tasca del fruitore, propensione e volontà di ascolto - orientamento, differenziazione tra prodotti ed esigenze del momento, tra motivi di studio o di svago, intrattenimento o ascolti ‘d’arredamento’. Questa consapevolezza nella capacità di scegliere non ha nulla a che vedere con l’età del consumatore perché la capacità d’individuazione, la selettività, e soprattutto la lucidità non sono certo variabili dell’età. Esse anzi vengono offuscate per consuetudini, lotte di sopravvivenza e resistenza, tutte cose che caratterizzano l’attuale fase della storia occidentale, anche per le inevitabili e parziali ‘compromissioni’ che oggi qualsiasi agire comporta.

Allora bisogna individuare le tipologie generali di consumo, valutare quanto queste siano applicabili all’universo giovanile, stabilire la convenienza di un intervento e la sua ‘effettività’ (possibilità di riuscita in relazione alle condizioni del mercato, il quale sembra presentare poche brecce tra monopoli consolidati).

 

 

Gli ipermercati culturali

 

Se la tipologia del consumo giovanile ha un carattere di generalità, questo non ci esonera dal tentare un intervento. Esso non avrà un carattere ‘correttivo’, né surrogherà o si sovrapporrà a quello delle industrie culturali, ma concernerà l’offerta più variegata di opere/merci. E, soprattutto, considererà lo studio dei flussi di mercato con la stessa serietà e competenza degli analisti di vendita degli ipermercati reali o virtuali, ma con finalità differenti dal mero utile, finalità ad esempio di conservazione della memoria (onde evitare facili revisionismi), di lucidità nelle scelte, di capacità di orientare il mercato anche dal basso attraverso forme di resistenza o di contropotere (come avrebbe scritto Foucault). Sembrerebbe così almeno necessario ampliare la scelta della mercanzia sugli scaffali degli ipermercati della cultura, intendendo con questo auspicio l’arricchimento e la diversificazione dell’offerta musicale, e comprendendovi anche le tipologie ritenute oggi erroneamente ‘ostiche’. Infatti, da un lato è vero che il mercato sceglie, che viene orientato almeno quanto orienta, che distribuzioni su larga scala diventano antieconomiche per chi produce. Ma è pur vero che nella possibilità di dischi ‘collettanei’ frutto del lavoro di più autori, o attraverso opere con tracce estremamente diversificate, potrebbe sia garantirsi il ritorno economico delle major, sia non escludere la possibilità di una scelta a priori. Nella mancanza di capacità di suggerire tali strategie alle case di produzione, una enorme responsabilità ricade sulla critica giornalistica, di sempre minore qualità, e sullo snobismo selettivo ed acido della musicologia specializzata. Invece, ampliando la scelta, o considerando la possibilità di consentire maggiori opzioni all’interno dei dischi più venduti (cosa accadrebbe se ogni cantautore di successo consentisse all’inserimento di un brano ‘altro da sé’ nel suo disco di successo?), o nelle liste gratuite di file Mp3, le possibilità di riuscita potrebbero essere interessanti, anche se percentualmente poco significative, o corrispondere alla resistenza che s’impunta sulla soglia esterna del potere diventandone la ruga inaspettata. Non escluderei anche colpi di scena e capovolgimenti temporanei tra le forze in campo. Un brano frutto di un’operazione intelligente, acuta, strategica, potrebbe sorprendentemente occupare il mercato, ritagliarsi una nicchia di sussistenza, svolgere (fino alla sua inevitabile assimilazione) una funzione di salutare, temporanea, icona di progresso.

 

 

Linguaggio e tecnica della  musica ‘mercificata’

 

Le opere frutto di nuove consapevolezze estetiche, e potenzialmente in grado di occupare una nicchia di mercato e di incunearsi come piccola resistenza presentano caratteri che stanno definendosi abbastanza velocemente, ma che vanno considerati in progress, a causa della straordinaria velocità delle innovazioni tecnologiche, e dei gusti dei fruitori/consumatori. Ne elenco alcuni.

1- Molti brani non sono congelati all’interno dei confini di genere.

2- Essi hanno accesso e utilizzano le tecniche della contaminazione, la quale non è affatto quella che ci propinano i giornali (mettere in una canzone pop una tabla o un sitar per renderla world o etno[292], oppure minimizzare la portata del fenomeno asserendo che “tanto la contaminazione c’è sempre stata”[293]). Come tali sono con/fusi, frutto dell’ibridazione, meticci.

3- Le opere/merce utilizzano le nuove tecnologie e spesso ne sono condizionate (vedi il caso del già citato formato di compressione audio denominato Mp3, e all’opposto, sul versante della eccellenza qualitativa, i nuovi supporti audio-video DVD e soprattutto SACD). Tale condizionamento non ne inficia il valore estetico.

In particolare, tutta una serie di modalità e tecniche sono collegate allo sviluppo informatico. Occorre però fare dei distinguo.  Sarà opportuno, ad esempio, rifuggire dalla sorda aspirazione d’appartenenza al repertorio cristallizzato ed evitare il crisma della novità per la novità, agitato come bilancino di validità estetica e a mo’ di spauracchio dai teorici di Darmstadt.

Dal punto di vista delle nuove tecnologie, appare importantissimo l’uso dei recenti registratori multitraccia, o la possibilità ormai alla portata delle tasche di chiunque, di lavorare in audio digitale anche a casa propria. L’aspetto che riguarda l’arricchimento della creatività, e pertanto la cura e lo sviluppo delle immagini sonore, è stato reso straordinariamente facile dallo sviluppo dello standard Midi, che consente da anni di colmare lacune dell’immaginazione con strepitose sonorità di tutti i tipi, alla faccia dei benpensanti e dei guru della musica elettronica. Tale sviluppo e tale ‘massificazione’ hanno dato fastidio a quanti ritenevano di detenere un potere-sapere nell’esercizio esclusivo delle tecnologie, e nella trasmissione di questo sapere ad una ristretta cerchia di allievi (a tutto vantaggio dell’altra chimera della musica veterosperimentale, quella della ‘scuola’ compositiva di riferimento: per valutare il tasso di accademia di un compositore basterà considerarlo equivalente al processo di identificazione che nutre per i suoi allievi…)[294].

4- Le nuove opere sfruttano naturalmente inedite modalità di comunicazione: in rete, opere collettive scritte e diffuse a più mani, divulgazione via fanzine, passaparola informatico, reti alternative di diffusione autogestita, divulgazione di software  i cui molteplici autori hanno lavorato a titolo gratuito (esempio tipico quello del sistema operativo Linux). Quello che è in gioco, insomma, è il pregiudizio d’autore[295]

5- Le opere tengono spesso conto del mutare degli standard di attenzione dei fruitori: essi sono ormai abituati dal genere ‘canzone’ a fruire di lavori che non superino i quattro minuti; la loro attenzione cala a causa dell’abitudine a percepire entro pochi secondi i messaggi pubblicitari; il loro consumo va differenziandosi in relazione alle occupazioni quotidiane e va orientandosi secondo un criterio per il quale ad ogni istante della giornata, e a ciascuna esigenza di lavoro, svago, riposo, rilassamento, sessualità, corrisponde una determinata musica. Pertanto, non una generale omologazione della produzione, ma una differenziazione che tenga conto dei parametri estetici della nostra quotidianità, e che riaffermi la validità estetica di ogni produzione.

Il plagio e le sue estetiche[296], la possibilità di alterare, invertire, in fondo saccheggiare qualsiasi aspetto della cultura ufficiale[297], gli jinglemakers e la musica da spot, le compilation dei dj e le loro estetiche scratch[298], le nuove musiche metropolitane, quelle usate nei megastore per favorire la vendita, o nelle aziende per aumentare la produzione, le siglette di attesa telefonica, il proliferare del protocollo Midi tra i sedicenni, delle musichette personalizzate dei cellulari, di quelle rigorosamente pirata dei siti Web, delle segreterie telefoniche e dei videogames, le musiche/icona pensate direttamente o esclusivamente per un supporto multimediale, le tecniche del morphing acustico[299] creano un reticolo di nuove musiche per il quale gli strumenti di analisi consueti risultano non solo inadeguati, ma addirittura fuorvianti.

 

 

Massificazione e progresso

 

Come si può constatare nelle prassi quotidiane dei musicisti che si mantengono al di fuori delle accademie, la straordinaria ‘massificazione’ temuta e combattuta da Adorno ha invece fatto sì che la musica arrivasse, nella sua valenza di gioco creativo o di puro intrattenimento e passatempo, ad una gran quantità di non addetti ai lavori. Peò anche molti compositori professionisti hanno ampliato le loro possibilità notazionali utilizzando a profusione i nuovi mezzi, oggi finalmente diffusi perfino nelle scuole e messi in rete grazie a normative che consentono la creazione di laboratori musicali informatizzati[300].

 

Alle pratiche dell’agire solo in parte hanno corrisposto adeguate formulazioni teoriche. Tra gli autori più consapevoli, nel 1990 Fredric Jameson ha ipotizzato una insufficienza adorniana sulla questione dell’opera d’arte e della sua massificazione. Il suo libro, tradotto in italiano soltanto nel 1994, mette in luce la distanza tra le esperienze di fruizione di massa ed i codici tradizionali usati per rivisitarle. Dopo averla posta, lascia la questione in modo interlocutorio: «(…) bisogna allora escogitare una definizione e un’analisi dei surrogati dell’arte per tutti quegli spettatori e ascoltatori che, pur credendosi impegnati in un’esperienza culturale, non sembrano tuttavia sapere cosa sia l’arte né aver mai raggiunto una ‘genuina esperienza artistica’, né infine aver saputo d’essere stati fin dall’inizio privati di essa»[301]. Finalmente Jameson ipotizza che la perfezione tecnologica della cultura di massa «sembra infatti rendere più plausibile la nuova dignità di tutti questi oggetti d’arte commerciali, in cui una specie di caricatura della concezione adorniana dell’arte come innovazione tecnica si sposa ora con il riconoscimento della più profonda saggezza utopica inconscia propria di quelle masse di consumatori il cui ‘gusto’ la convalida»[302]. Si colgono tra le righe sia ironia che auspici, subito illustrati: «(…) forse oggi, in un tempo in cui il trionfo delle teorie più utopiche della cultura di massa sembra completo ed egemonico, abbiamo bisogno del correttivo di una qualche nuova teoria della manipolazione e della mercificazione»[303].

Sempre del 1990,  anch’esso tradotto in italiano nel 1994, è il lavoro di Richard Middleton. Quest’ultimo, con maggiore acutezza di Jameson individua nella popular music i caratteri della eventualità di opere collettive o gratuite, grazie alla quale si potrebbe sfuggire dalla vendita delle opere «come se fossero oggetti di consumo»[304]. Egli descrive bene il controllo solo parziale delle case discografiche sul mercato: «le case discografiche cercano certamente di controllare la domanda, di incanalarla in direzioni conosciute, ma non sono mai sicure del loro mercato; il massimo che possono fare è offrire un ‘repertorio culturale’ per coprire un ventaglio di probabilità in modo da minimizzare i rischi – ed è proprio questo che dà una spiegazione alla colossale sovrapproduzione di dischi, gran parte dei quali è in perdita». Middleton prosegue spiegando come la musica non possa, ancorché prodotto di massa, «essere solamente un prodotto, un valore di scambio, anche nella sua forma consumistica più rozza»[305]. In definitiva Middleton sottopone le tesi adorniane ad una critica giusta quanto spietata, e si ricollega a Benjamin per ridefinire i termini dei prodotti culturali in relazione al loro consumo di massa. Molti temi sono toccati e portati a buon esito, anche se talvolta se ne sottovaluta la portata, come nel caso della nozione di ‘massificazione’. Avevo espresso la medesima necessità di un allontanamento da Adorno e dai teorici di Darmstadt in un pamphlet del 1993, ed in numerosi altri luoghi[306].

 

Altri due autori sono interessanti, John Walker e Dick Hebdige, anche se appaiono piuttosto confinati all’ambito pop. Per il primo la consapevolezza che «la passione dell’avanguardia per la sperimentazione formale, la ricerca di originalità e il continuo esercizio critico non sono affatto incompatibili con le richieste del mercato della musica»[307], può consentire ad alcuni musicisti pop di sperimentare, purché mantengano entro certi limiti la trasgressione. Walker sottovaluta e semplifica le relazioni e le compromissioni tra potere e contropotere, e li considera vettori rigidamente contrapposti. Eppure lo stesso Walker, citando da Simon Frith segnala che: «imparare ad essere artista significa imparare a giocare con il senso della differenza, diventare una pop star implica vendere tale differenza alle masse. Qui non si tratta di una contrapposizione tra arte e commercio, ma del commercio come arte, come spazio da riempire con la creatività, la personalità e lo stile dell’artista»[308]. Dick Hebdige si spinge notevolmente più avanti, anche se non sta occupandosi dello specifico musicale. In relazione a Barthes: «lungi dall’essere silenziose, il numero delle voci che parlano attraverso e in vece delle cose mute è sterminato. L’enigma dell’oggetto non è tanto nel suo silenzio, nella sua supposta essenza, quanto piuttosto nel brusìo che cresce intorno ad esso»[309].  Egli è consapevole della funzione di resistenza espressa anche attraverso l’appropriazione e la trasformazione di beni di consumo: «La nuova economia - un’economia di consumo, di significanti, di sostituibilità e avvicendamenti infiniti, di flussi e manovre - a sua volta produsse un nuovo linguaggio del dissenso. I termini che erano stati definiti in negativo dalle èlite culturali dominanti furono rovesciati e adattati a dare significati oppositivi in quanto assunti (nel modo suggerito da Marcuse) dai difensori (esponenti della controcultura) del cambiamento e convertiti in valori positivi (edonismo, piacere, futilità, disponibilità e così via)»[310].

 

Musiche per il consumo di massa, che non abdichino alla qualità, perché il valore estetico è nell’eteroriferimento dell’opera, cominciano ad affacciarsi soltanto da qualche anno in un ambito che non sia esclusivamente quello pop. Vengono fuori con stupore da qualche spot di successo, o dalla colonna sonora di un film-spazzatura, o creano fenomeni stravaganti come le migliaia di copie vendute da un pezzo sacro di Pärt o da una sinfonia di Gòrecki. Questi fenomeni, gli autori, i meccanismi di produzione automatica di musica (siglette, musiche libere dal copyright, compilation alla John Zorn, etc.) vengono combattuti sia dall’accademia che dalla veteroleografia consolatoria, come lo sono stati Glass ed altri minimalisti americani ed europei che avevano dato voce nell’ambito colto alla cultura esclusivamente pop della riproduzione di serie.

Ma con questi brani e queste tecniche, probabilmente, gli studiosi devono ancora fare i conti per comprendere dove stia andando la musica, e soprattutto quale possa essere la sua funzione comunitaria.

 

 

Le nuove musiche di frontiera

 

In questa prospettiva, certo complessa, si pone il lavoro di alcuni musicisti, per i quali si era cercato a lungo un nome. Essi appaiono sul confine, lo oltrepassano, propongono l’abbattimento delle barriere di genere. Qualificati fino a qualche anno fa come ‘musicisti di frontiera’, oggi confluiscono naturalmente nella ‘border music’, neologismo inventato per la mia rubrica su “il manifesto”[311]. Non si tratta quindi di una nuova etichetta, ma di un modo molto semplice per qualificare una produzione che, pur apparendo in continuità con quanto accaduto fino ad oggi dal punto di vista dello sviluppo naturale della storia della musica, si oppone invece (risultando talvolta in aperto conflitto), ai teoremi ed ai veti imposti dal credo di Darmstadt. Per questo la musica di frontiera viene ostacolata da quanti professano ancor oggi il culto veterosperimentale: teorici degli anni Settanta (cui pure va riconosciuto il merito di aver costruito una teoria della postavanguardia, e averla conservata attraverso la memoria, ma che poi non dovrebbe però essere oppressiva, benché reazionaria), compositori che hanno trasformato l’avanguardia in accademia,  enti lirici e ‘fondazioni’, che pensano di difendere i repertori uccidendo il contemporaneo, o che il contemporaneo arrivi solo ai primi del Novecento, con l’unica eccezione di Boulez. Ecco la necessità di stabilire una linearità con la storia della musica, in particolare attraverso l’aspetto della ‘contaminazione’ intragenerica/infrastilistica, extragenerica (mescolando differenti discipline artistiche, come il cinema, la diapittura, la video-art, etc.) ed infragenerica, e nello stesso tempo segnalare il differente ed il discontinuo tra questa produzione contaminata e la più recente espressione di una contemporaneità che è apparsa spesso decisamente formalistica ed alessandrinistica, con la conseguenza, ormai riconosciuta perfino dai compositori di penna più snob, della divaricazione e della frattura quasi insanabile tra compositore e pubblico nella fruizione dell’opera.

 

La ‘musica di frontiera’ o ‘border music’ può alludere alla world o global music, alla ambient, in parte alla fusion, e, solo in casi circoscritti, ad alcune atmosfere della new age più evoluta. Ma si tratta di riferimenti sempre temperati dalla nostra rilettura, che dà a queste ‘etichette’ un connotato di grande novità rispetto a tutto quello che era stato fatto alla fine del Novecento. In particolare bisogna precisare la vicinanza con la ambient (al capostipite Brian Eno, in accoppiata con Harold Budd e Jon Hassell), e la distanza dalla new age, perché altrimenti la pubblicistica non specializzata tende a banalizzare ed a collocare i musicisti di frontiera nell’alveo della semplificazione esasperata tipica di quest’ultimo filone. Nella ‘border’ c’è maggiore consapevolezza di cosa possa significare proporre una musica che sia figlia del nostro tempo, riuscendo tuttavia molto più comunicativa rispetto alla cosiddetta produzione ‘colta sperimentale’, cosa che per la verità, in sé sola, non c’è voluto molto a realizzare, considerata l’asfitticità e la totale assenza di ‘senso come significato’, purtroppo tipiche di molta produzione meramente retorica, speculativa e autoreferenziale.

 

La musica di frontiera utilizza stilemi appartenenti a diversi generi ed a diverse zone geografiche. Potrà usare la tecnica dei clusters pianistici o quella del respiro circolare, e poi accostarle ad una progressione modale jazz. Può utilizzare voci etniche e miscelarle ad un formicolante quartetto d’archi che funge da tappeto sonoro con il live elettronics. Può affiancare tecnologie avanzatissime a strumenti tradizionali, orientando la ricerca di senso verso i contenuti  piuttosto che verso il vuoto formalismo dei linguaggi. Per questo la musica di frontiera si lascia alle spalle molti presupposti ‘accademici’, infrangendo i ruoli tra esecutore e compositore (come realizzato in alcuni brani da: Balanescu Quartet, Adams, il vecchio Glass, e tra gli italiani l’Harmonia Ensemble e il gruppo Sentieri Selvaggi,  per citare solo alcune formazioni), dando spazio all’improvvisazione e pari dignità estetica alla produzione di musicisti provenienti da settori non convenzionali (dal rock, ad esempio, come Frank Zappa; o dal jazz, come John Zorn). Quelli che parlano questo linguaggio provengono spesso dalla popular (che poco ha a che vedere col nostro concetto di ‘popolare’, mantenendo intatta ed integra la valenza semantica tipicamente anglosassone, e riconducibile a Richard Middleton) o dalla minimal, specialmente europea. Alcuni sono lettoni o polacchi. Altri ‘pendono’ verso le proprie radici di genere, e cioè appaiono sbilanciati verso il jazz o verso la new age, pur restando capaci di operazioni di estrema sensibilità commerciale. I nomi sono noti: Adams, Bryars, Rannap, nelle forme ‘minimal’ più evolute. Pärt, Gorecki, in quelle mistico-evocative. Sakamoto, Zappa, Jarrett (nelle loro produzioni più inconsuete, ovviamente) in quelle pendenti verso generi già definiti. Ma il fenomeno della border music, ancorché attestato inconsapevolmente ma saldamente in tutto il mondo, conosce una sua teorizzazione e definizione soprattutto in Italia, perché qui ha trovato la sua codificazione e consapevolezza estetica (non soltanto pratiche dell’agire, quindi, ma prassi), e quegli elementi tipicamente meticci, di con/fusione, che le hanno permesso di svilupparsi e di arrivare a coprire, non solo sul versante etnico, le richieste di alcune major, come ad esempio la ECM di Manfred Eicher. Una particolare mescolanza di etnico ‘popolare’ (come la nostra eccellenza melodico-tematica) e di tentazione meticcia o ‘meridiana’, per richiamare l’opera di un sociologo (si pensi ad esempio al melting-pot che si realizza in città come Napoli, con fenomeni come il rap metropolitano, una scuola di elettronica, l’ emergenza di musicisti di frontiera…). Gli italiani che, oltre all’autore di questa nota, ritengo possano inserirsi a pieno titolo in questo filone musicale (che è anche un filone di consapevolezza estetica), sono certamente Luciano Cilio, precursore fin dagli anni Settanta delle nostre atmosfere, Ludovico Einaudi, Arturo Stalteri, Eugenio Fels. Molto interessante l’opera di Giovanni Sollima, col quale però non ho mai avuto occasione di confronto diretto[312].

Nei lavori di questi autori la musica si avvale di amplificazioni, uso di tecnologie e supporti Cdr, muovendosi tuttavia sempre all’insegna della comunicazione e della gradevolezza di fruizione. Non si tratta naturalmente di una scatola vuota: coniughiamo la nuova essenzialità stilistica alla completa assimilazione dei linguaggi musicali contemporanei. Il favore del pubblico, per il momento, sembra darci ragione. E non è poco.

 

Piccolo catalogo dei suoni-accessorio

 

Contra Barthes

“Lungi dall’essere silenziose, il numero delle voci che parlano attraverso e in vece delle cose mute è sterminato. L’enigma dell’oggetto non è tanto nel suo silenzio, nella sua supposta essenza, quanto piuttosto nel brusìo che cresce intorno ad esso”: è Dick Hebdige, che ha scritto La lambretta e il videoclip.

 

Please wait music

Analogie di percorso, ma utilizzazioni contrapposte, tra la Ambient (e la sua antenata musique d’ameublement) e le pervasive sonorizzazioni dell’etere. Le musichette d’attesa telefonica possono indurre, più che a placide considerazioni estetiche, ad allontanamenti coatti dalla cornetta, per il fastidio di songs imposte per gratificare l’assenza dell’interlocutore umano. E pensare che proprio gli esperimenti di trasmissione via telefono hanno aperto più di una strada allo sviluppo della musica elettronica! Nel ramo telefonico, di recente alla ribalta di sentenze e leggi sul diritto d’autore, imperversano sui portali Internet anche squilli personalizzati. Da sigle televisive di successo a spot cult, dal beethoveniano destino che bussa alla porta al celeberrimo ultimo grido di Paola e Chiara. Il suono del modem, infine,  è pure entrato nell’immaginario collettivo, visto che fa da sfondo ad infinite pubblicità sull’e-commerce, e-trading, enciclopedie a fascicoli settimanali, gadget del quotidiano (che come in uno specchio diventa inessenziale rispetto all’oggetto donato, il giornale che a sua volta si fa ‘aggeggio’ del gadget).

 

Megastore player

Quando si è scoperto che le famose mucche producevano di più grazie ai suoni di sottofondo ed al libro di Baricco, nei supermercati e negli store si è moltiplicata la scelta di motivi induttivi. Il clima che si vuole riprodurre è quello dei clip in cui adolescenti agghindati ballano e si avvinghiano nello stile dei ragazzi della tale o talaltra consorteria. Le song in oggetto risultano assai gradevoli, e la percezione estetica del megastore è senz’altro enfatizzata dall’accoppiamento suono-colore. L’architettura, ambienti larghi, la spazialità dello sguardo sui piani rialzati, il movimento delle scale mobili e delle luci fanno il resto.

 

Bim Bum Bam Dumbo Song.

Musica per infanti disegnata per accompagnare i consumi musicali dei più piccoli quando la loro attenzione è a mille: sulle giostre. Ogni ‘postazione’, l’elefante Dumbo, la macchina dei pompieri, perfino la piccola Volkswagen prevede un pulsante colorato che aziona la musica pensata ad hoc. Essa orienta e facilita il consumo successivo di video, cartoons, album di figurine, zaini e diari scolastici griffati.

 

La Pimpa, Alice ed il supermercato

Già da anni una catena cooperativa di supermercati ha rivolto attenzione al mondo dei bambini. Trasformano i parcheggi in arene cinematografiche, campi di calcio. Alcune sale diventano ludoteche infantili. Laboratori per infanti, prove tecniche sul consumo di pargoli, per “consumare senza essere consumati”. Anche per chi commercia, il consumatore “può educare il consumo”, e non viceversa. Un consumo di cose necessarie, un consumo da alternative solidali, ad esempio, o che rispetti la natura. Un consumo consapevole, e quindi la consapevolezza che il consumo debba essere studiato, e non escluso.

La catena di supermercati sta studiando da anni una alfabetizzazione multimediale da introdurre nelle scuole: “si pensi alle implicazioni che potrà avere l’alfabetizzazione multimediale nel campo dei consumi, quando l’e-communication (dall’e-market all’e-information) esploderà, in un tempo non più tanto remoto come sembrava solo qualche mese fa”. Sono parole scritte l’anno scorso da Luca Toschi.

 

Home computing

Tecniche di uso domestico del computer per inventarsi dal nulla brani musicali ‘personalizzati’, ad uso e consumo quotidiano e per arricchire le proprie pagine web.

 

Home recording

Dal punto di vista delle nuove tecnologie, appare importantissimo l’uso dei recenti registratori multitraccia, e la possibilità ormai alla portata delle tasche di chiunque, di lavorare in audio digitale anche a casa propria. L’aspetto che riguarda l’arricchimento della creatività, e pertanto la cura e lo sviluppo delle immagini sonore, è stato reso straordinariamente facile dallo sviluppo dello standard Midi, che consente da anni di colmare lacune dell’immaginazione con strepitose sonorità di tutti i tipi, alla faccia dei benpensanti e dei guru della musica elettronica. Tale sviluppo e tale ‘massificazione’ hanno dato fastidio a quanti ritenevano di detenere un potere-sapere nell’esercizio esclusivo delle tecnologie, e nella trasmissione di questo sapere ad una ristretta cerchia di allievi.

 

Campioni di suoni

Sul CD-Rom venduto in edicola, un corso di “musica e computer”, campeggia la seguente frase: “musica composta da semplici esempi di sonorità, non riconducibile ad autori, tantomeno iscritti a SIAE”. Grande! Di cosa si tratta? Sono campioni di suono, loop, pattern, che possono liberamente essere utilizati per ‘creare’ dal nulla le proprie musiche preferite, anche senza saper suonare uno strumento o conoscere la musica. Certo, questa prassi fa storcere il naso ai puristi ed ai più retrivi musicisti colti. Infatti, anche gli ‘incolti’ possono fare una sorta di mosaico, giocando al riempimento, mettendo alcune tracce in ripetizione (loop) o utilizzando incisi, modelli ripetitivi, piccole frasi che fungono da tasselli di base (pattern), e costruire dapprincipio facili insiemi sonori. Poi però possono ‘effettare’ e ‘filtrare’ quello che hanno ottenuto, e stravolgere completamente il brano, personalizzandolo con centomila e una possibilità combinatorie.

Si tratta certamente di un effetto della massificazione, del consumo genericizzato verso fasce ‘basse’: ma è una prassi che ha fatto dilagare la creatività, e che fa conoscere tecniche di permutazione del suono anche ai non addetti ai lavori: un effetto secondario non previsto dalle teorie della mercificazione. Se questo non è popolare, sfugge cosa altro oggi possa esserlo con altrettanta efficacia.

 

“Il Mercato è il Messaggio”

E’ il titolo di un convegno che ha riunito a Roma gli operatori del settore immobiliare italiano ed europeo. Trasforma il più noto “il medium è il messaggio”, perché in effetti il mercato è una sorta di medium privilegiato, in grado di enfatizzare i desideri, come già largamente dimostrato a Francoforte, ma pure oggettivamente di anticiparli, interpretando il flusso, il trend, e di appagarli attraverso oggetti, che sono certo reificazioni del desiderio. Il gioco tra contenente e contenuto che si scambiano potrebbe procedere all’infinito, come usano fare i francesi: qui basta certificare che se il messaggio è “ciò che da una parte va a finire all’altra”, il mercato, i consumi, la proprietà, attuano strategie delle quali non ci siamo ancora impossessati, e che invece sarebbe opportuno conoscere approfonditamente per trasformare gli oggetti d’uso in doni unilaterali gratuiti. Cosa altro sarebbe un file Mp3 scaraventato in rete, a quale categoria di leicità potremmo ricondurlo se non a questa?

 

Mouse-Musique

Ludovic Navarre-St. Germain, Moby, Dj Krush: sono stati definiti “musicisti del mouse”, perché con tecniche differenti procedono alla creazione di pezzi ibridi, fatti di frammenti ‘campionati’ (trasformando suoni ripresi altrove in frammenti numerici utilizzabili nuovamente), o di sequenze trasformate in modo originale. La decontestualizzazione fa sì che ci si trovi di fronte ad opere nuove, di assonanza jazz (Ludovic Navarre), Lo-fi (Moby), più propriamente vicine alla musica da discoteca, senza interruzioni del flusso ritmico (Dj Krush). Il genere ha rifatto persino una delle Gymnopédies di Erik Satie, e possiede cose mirabili, come la Intro a “Code4109” di Dj Krush, o Machete e Run on in “MobyPlay”. Navarre, dal canto suo, nel suo disco per la Blue Note “Tourist”, ammette opportunamente di aver usato alcuni “complices”, musicisti che suonano davvero. La loro presenza è... accessoria.

 

Scratch

Lo scratch è una tecnica usata dai dj per alterare i suoni dei dischi nata nel Bronx agli inizi degli anni Settanta. Per John Walker «Lo scratch rappresenta chiaramente una forma di intervento del consumatore che trasforma e personalizza i prodotti del music business». Purtroppo però aggiunge: «Per chi lo pratica, lo scratch costituisce una maniera per controbilanciare la passività che caratterizza altrimenti la fruizione di beni di consumo».

 

Morphing

Con le tecniche del morphing si procede di alterazione in alterazione da suoni preesistenti, accostandoli liberamente. La ‘composizione’ sta in questa giustapposizione creativa (vogliamo chiamarlo sviluppo o variazione?), più che nella creazione di algoritmi che esprimano nuove sonorità. In ciò risiede la maggior possibilità di successo della nuova musica elettronica, che si differenzia dal mero sperimentalismo e dalla ricerca di suoni inediti che ha paralizzato la creatività dei compositori per decenni.

 

Consumi per soli adulti

L’opera può essere consumata senza per questo perdere qualità estetica. La faccenda, posta in relazione ai consumi giovanili, potrebbe creare qualche malinteso. Invece anche qui ci si trova né più né meno che di fronte al problema che riguarda tutte le tipologie di consumo. Ci si chiede se esista un consumo ‘adulto’, o se si possa parlare propriamente di “consumi per soli adulti”… Un consumo ‘adulto’ infatti prescinde evidentemente dall’età del consumatore, e coincide con quel consumo che riesce a mantenersi il più possibile consapevole, ad indirizzarsi verso questo o quel prodotto musicale assecondando la tasca del fruitore, la propensione e la volontà di ascolto - orientamento, differenziazione tra prodotti ed esigenze del momento, tra motivi di studio o di svago, intrattenimento o ascolti ‘d’arredamento’. Questa consapevolezza nella capacità di scegliere non ha nulla a che vedere con l’età del consumatore perché la capacità d’individuazione, la selettività, e soprattutto la lucidità non sono certo variabili dell’età, anzi.

 

Ultime Resistenze?

La resistenza  si esprime anche attraverso l’appropriazione e la trasformazione di beni di consumo: “La nuova economia - un’economia di consumo, di significanti, di sostituibilità e avvicendamenti infiniti, di flussi e manovre - a sua volta produce un nuovo linguaggio del dissenso. I termini che erano stati definiti in negativo dalle èlite culturali dominanti furono rovesciati e adattati a dare significati oppositivi in quanto assunti (nel modo suggerito da Marcuse) dai difensori (esponenti della controcultura) del cambiamento e convertiti in valori positivi (edonismo, piacere, futilità, disponibilità e così via)” (D. Hebdige).

 

 

STORIA ESTETICA DEL PLAGIO MUSICALE

 

 

Introduzione

 

La ‘contaminazione’, naturalmente, è sempre esistita. È  scritto in alcune storie della musica, ed è deducibile anche usando semplicemente la logica, in relazione alle modalità stesse della composizione musicale, la quale da un tema o una cellula sonora di qualsiasi tipo (tratta anche da altri autori) fa scaturire un intero brano. Da quando tuttavia l’ ‘imbastardimento’ della produzione musicale è diventato un fatto compiuto, e tutti i media parlano di contaminazione, si sono creati due partiti. Da un lato quelli che la propugnano ad ogni pie’ sospinto anche quando non di ‘contaminazione’ si può parlare, ma di semplice accostamento confusionale di stili; dall’altro quanti si atteggiano ad algidi difensori della purezza e denigrano un corso musicale che a loro dispetto percorre trasversalmente tutti i generi. Per questi ultimi, la contaminazione è esistita da sempre, quindi non ci sarebbe da gridare al miracolo oggi; si tratterebbe di un fenomeno alla moda, da minimizzare, usato dall’industria culturale a meri fini commerciali e quindi da portare ad esaurimento dopo averlo spolpato per bene. Lo confondono con il lavoro di quei musicisti colti (come ad esempio Bartòk) che in passato hanno rivalutato le tradizioni folcloriche dei loro paesi. Non distinguono, quindi, tra popular e popolare, e sfiorano anzi il populismo.

Date queste premesse potrà allora risultare utile rintracciare il tema conduttore del fenomeno del plagio all’interno della storia della musica, dimostrando che, effettivamente, la deriva della contaminazione si è affacciata con forza nel corso dei secoli e nel lavoro di musicisti anche importanti. Ma contestualmente ribadendo l’idea che oggi sta accadendo qualcosa di nuovo e di profondamente diverso. Qualcosa che marcia al passo con la globalizzazione dell’economia e che può essere usato bene o male, così come era già avvenuto quando ci si accorse della ‘riproducibilità’ tecnologica delle opere d’arte (Benjamin).  Queste nuove modalità di produzione di opere possono essere rivolte al mero discorso economico (e quindi da stigmatizzare, come ci insegna Ignacio Ramonet) o tendere a qualcosa di più, al melting-pot, alla proliferazione di linguaggi capaci di arricchire tutti attraverso la differenza di ciascuno: l’altra faccia della musica globale.

Il plagio e le estetiche nuove che ne derivano non sono altro che uno strumento di contaminazione, uno strumento ricco di implicazioni giuridiche, politiche e filosofiche. Il plagio artistico consiste nella veicolazione gratuita di idee e atmosfere musicali: non si tratta della mera copia, naturalmente. La diffusione di uno ‘stile’, infatti, non ha nulla a che vedere con una copia, e pertanto evita di pagare qualsiasi pedaggio. Dal punto di vista filosofico, attraverso la gratuità dell’offerta, il plagio artistico consente di sfuggire alla logica dello scambio, con la prassi del dono unilaterale gratuito. Io do una cosa a te, e basta: tu nemmeno sai chi sia a dartela, si tratta di un contributo alla storia del progresso comunitario.

Questa visione, che a tutta prima appare utopistica, oggi diventa pratica comune. Le idee circolano da sole, senza pregiudizio d’autore. Esse vengono sentite come proprie da ciascuno, ed anzi il fenomeno sembra ormai innescare un problema opposto, quello della conservazione della memoria storica. Vale a dire, almeno, della conservazione del nome di quanti abbiano introdotto innovazioni o nuove idee, esattamente come accade nel campo informatico per i software open source.

 

 

Profili storici

 

Origini del fenomeno

Già l’uso di modi ispirati a quelli greci è in qualche modo da considerarsi una sorta di grosso plagio stilistico. In realtà, mentre comunemente (ed erroneamente) si ritiene che la civiltà musicale abbia seguito un percorso lineare, genericamente ‘progressista’, e cioè di maggior complessità delle forme o di evoluzione gerarchica delle stesse (cioè dall’elementare allo strutturato, dal facile al difficile, e così via), proprio l’uso medioevale della modalità smentisce clamorosamente questo assunto. Nella Grecia antica, infatti, i modi potevano assumere forme anche assai più complesse: per esempio oltre ad essere diatonici (antenati delle nostre scale moderne), potevano diventare cromatici e addirittura enarmonici, utilizzando quindi rapporti tra suoni che noi occidentali abbiamo completamente dimenticato (eccettuato naturalmente i lavori microtonali contemporanei di qualche interesse, quelli di Harry Partch, Lou Harrison, Lamonte Young, John Cage...).

Prima dell’epurazione fatta da San Gregorio Magno, che ‘ripulisce’ i canti da più antiche e suadenti effusività orientali, il canto liturgico medioevale conosceva una estrema libertà geografica: da quello monodico basato su otto modi di derivazione bizantina, a quello ‘occidentale’, che presentava differenti tipologie, tra le quali anche quella mozarabica. In tempi di barricate come quelli presenti non farebbe male ricordare il contributo offerto dalla cultura araba alla musica occidentale.

Durante il Rinascimento, mentre in Germania Lutero rinnovava le fonti dei canti liturgici ed in Francia Calvino proibiva di usare la musica se non nelle sue espressioni più sobrie (vale a dire con melodie cantate all’unisono), in Spagna accadeva qualcosa di molto interessante. Si creava una sorta di melting-pot, di crogiolo capace di raccogliere elementi franco-fiamminghi ed italiani, e fin qui nulla di strano, perché i fiamminghi avevano rivoluzionato le forme vocali (anche con ardite composizioni: il Deo Gratias di Okeghem arriva fino a 36 voci!) e l’Italia aveva perfezionato l’arte strumentale.  Ma il bello era che in Spagna questi elementi si fondevano con stilemi gotici, celti, baschi, arabi e berberi. Bernard Champigneulle, nella sua piccola e provocatoria Storia della musica spiega la commistione con  gli arabi: istallati in Andalusia fino all’inizio del Rinascimento, essi avevano segnato nel profondo la civiltà spagnola. La straordinaria presenza di elementi tanto variegati fanno della cultura spagnola rinascimentale un meraviglioso precedente di commistioni e... plagi d’inestimabile valore artistico.

In Spagna pomposi oratori sostituiscono i villancicos d’ispirazione etnica locale. In Germania, Inghilterra, Fiandre ci si ispira alla scuola di Versailles, ma rifacendola alla maniera italiana: sono quelli che Couperin chiama i ‘gusti fusi’. Keiser ad Amburgo fa seguire in una stessa opera testi in francese, italiano e tedesco, a seconda dell’atmosfera della musica o della forma prescelta.

Il grande Georg Friederich Händel compone ispirandosi alle forme napoletane, ma ha la tecnica degli organisti tedeschi ed uno spirito tipicamente... inglese, specie nei brani di circostanza che lo fanno affermare in Inghilterra. Händel dichiarava tranquillamente di prendere spunto da temi di Stradella e Keiser. Ma gli addebitano prestiti da...  ventinove compositori! Nel solo Israele in Egitto compaiono ben diciassette ‘citazioni’.

Il grande codificatore delle prassi del sistema temperato (che solo apparentemente è un passo avanti nella storia della musica, contrariamente a quel che ritenne Schönberg), Johann Sebastian Bach, trascrive concerti barocchi di Marcello, Vivaldi, Johann Ernst; scrive corali su temi luterani, riscrive se stesso adattando numerosi brani a differenti strumenti. Ispirato dalla celebre Piango, gemo, sospiro e peno, di Vivaldi, Bach ne trae un Andante per il Concerto in si minore BWV 979 (trascritto da autore ‘sconosciuto’), e vi si ispirerà nel fugato del Preludio Fantasia BWV 922, quello poi trascritto dal pianista Egon Petri per la Busoni-Ausgabe. E così via: dai tre concerti per organo da Vivaldi (BWV 593,594,596) alla fuga per organo tratta da Legrenzi (BWV 574), Bach dimostra ben più che una passeggera infatuazione per la musica veneziana. Quest’ultima viene fagocitata, trascritta, completamente cambiata, oppure usata come modello sotterraneo. L’organista e musicologo Albert Schweitzer, in una biografia, rileva la presenza e l’importanza delle melodie luterane in tutta la produzione corale ed organistica bachiana (molte melodie usate da Lutero e Johann Walther erano poi a loro volta di origini medioevali). Evidentemente, non si trovava scandaloso servirsi di temi celebri, come se si trattasse di ‘citazioni’ implicite, di materiali sonori già assimilati, da riutilizzare proprio come fa l’artigiano quando assembla strutture eterogenee. Non a caso in alcune trascrizioni i nomi degli autori originali non vengono citati (o forse non giungono fino a noi...) come ad esempio nel già menzionato Concerto in si minore BWV 979, o come in alcune pagine del Clavier-Büchlein. Certo è che il codificatore del sistema musicale occidentale non si è sottratto al fascino del plagio artistico, così come altri grandi musicisti a lui contemporanei.

Il grande Mozart, amato dagli dei e filmicamente odiato da Salieri per il suo genio, si divertì a copiare temi di altri compositori. Nella Ouverture del Flauto magico vi sono temi di Cimarosa e di Clementi, considerato il “padre della musica pianistica”. Mozart, come ricorda Luciano Chailly, «ebbe molte accuse di plagio per ‘prestiti’ da Gluck, Haydn, Paisiello, J. Christian Bach, Sarti, ed altri». Giovanni Carlo Ballola scrisse che «se Mozart fosse vissuto ai nostri tempi, avrebbe dovuto passare molto tempo, per i suoi plagi, in un’aula di Pretura». Chailly riferisce che Clementi, ristampando una Sonata, dovette segnalarvi in calce con comprensibile stato d’animo il celebre «plagio di Mozart».

 

L’Ottocento

Nell’Ottocento, con l’imperversare di trascrizioni, parafrasi, adattamenti e facilitazioni per fanciulle, la pratica della citazione dilaga e si esplicita. Nasce contestualmente l’idea di ‘repertorio’ e si consolida quella di ‘autore’. Così, Wagner si sente in dovere di avvertire Liszt di aver ‘preso in prestito’ un tema che compare nella Walkiria, riconoscendo all’altro un diritto di proprietà su qualcosa di immateriale. Questo momento, benché fosse stato anticipato dalla denuncia di Clementi del plagio subito da Mozart, è di fondamentale importanza: il ‘pregiudizio d’autore’ (v. oltre) e cioè la sensazione di sentirsi legittimi proprietari dell’opera creativa, era ormai assimilato, e sarebbe stato rimesso in discussione solo nel Novecento, da Igor Stravinskij. Fino a quel momento, l’opera era considerata come un oggetto artigianale, e gli stessi artisti venivano trattati come artigiani. Non a caso Beethoven fu tra i primi ad avere la consapevolezza del valore economico delle sue composizioni, pur non restando a sua volta immune da ricadute nel plagio. E’ possibile, come caso limite, ricostruire il tema della famosa Pastorale  assemblando alcuni incisi mozartiani (Sonate K 332 e 135; Fuga della Fantasia K 394). Ma la sintesi di quel tema, come segnala Tito Aprea in un suo celebre libro sul plagio, compare addirittura in Bach, nella Cantata  “Dio tu guardi la Fede”, e si tratta di un caso limite, che può illustrare quanto fosse profonda nei musicisti l’introiezione del lavoro e delle opere dei loro predecessori e contemporanei. La nozione di ‘proprietà’ sull’opera e del rischio che altri possa in malafede appropriarsi di idee musicali considerate ‘originali’ e quindi ‘proprie’, è talmente già consolidato in Beethoven da fargli confessare ad Eleonora Breuning «...non avrei scritto in questo modo una cosa simile, ma ho notato che, quando improvvisavo la sera, c’era sempre qualcuno a Vienna che il giorno seguente trascriveva molte mie trovate e se ne faceva bello. Siccome ho previsto che presto saranno pubblicate cose simili mi sono deciso di prevenirle» (citato da Tito Aprea). Assieme alla nascita del concetto d’autore, si moltiplicano i casi di plagio. Donizetti viene accusato di plagio stilistico da alcuni critici, ed altri così lo difendono: [...] vogliamo spendere poche parole sul conto di taluni critici di professione che in qualsivoglia classico lavoro trovano sempre a ridire. Vi è chi sostiene incontrarsi nelle musiche di Donizetti talune cantilene che ad altre somigliano. Senza dir di tante sue teatrali produzioni, questi Zoili invidiosi potran sentire la Lucia, nella quale son tanti nuovi pensieri che lungo sarebbe ad enumerarli: e se vi à qualche cosa che a loro modo di vedere senta di reminiscenza, ciò nasce dal perché essi confondono ciò che può dirsi plagio musicale con lo stile del compositore. Ogni maestro di musica à il suo stile come ànno la lor maniera di dipingere i pittori («I curiosi», Napoli 15 ottobre 1835, citato in Le prime rappresentazioni delle opere di Donizetti nella stampa coeva, a cura di Annalisa Bini e Jeremy Commons 1652 pp., Skira, 1997).

Molteplici i plagi artistici: Wagner attinge da Schubert, Mendelssohn, Beethoven, Brahms, e perfino da una messa gregoriana. Brahms a sua volta prende da Beethoven, Verdi, Dittersdorf. Lo stesso  Liszt, avvertito da Wagner del già citato plagio del tema della Walkiria, gli risponde con filosofia: “Hai fatto bene: così avrà almeno la possibilità di essere ascoltato da qualcuno...”.

 

Il Novecento

Puccini ‘prende’ da Rachmaninov (un tema di Turandot del 1926, tratto dall’Elegia del 1892...), Rachmaninov da Chopin. Puccini a sua volta, nella Tosca, si ispira al celebre Capriccio sulla partenza del fratello dilettissimo di Bach ed alle Images di Debussy. Ma in cambio cede qualcosa dal Tabarro alle Fontane di Roma di Ottorino Respighi. Anche  Cilea prende da Debussy, e Debussy da Schumann, Prokofiev acquisisce un tema dal Trovatore di Verdi, e così via, in un gioco intrecciato di citazioni espresse, occulte, inconsce o consapevoli e colpevoli... fino a Berg, che nel Wozzeck non potendo plagiare un tema perché usa il sistema dodecafonico copia... un ritmo: precisamente quello della Pastorale di Beethoven. Tantissimi i casi di plagio o similitudine nella storia dell’Opera lirica,talora con riguardo ai libretti. Il musicologo Antonio Cassi Ramelli ne cita molteplici casi in un suo importante lavoro del 1973: «i cosiddetti plagi (...) sono in verità ancora meno percepibili in campo musicale e perseguibili di quelli letterari. Che Verdi abbia ripreso l’avvio della romanza del baritono pel Ballo in maschera, Boito quello del tenore del suo Mefistofele, Giordano quello della “donna russa che è femmina due volte”, molti si confidano ancor oggi strizzando astutamente l’occhio destro e scuotendo il capo, mentre molti arricciano il capo, non si sa perché, quando risentono gli squilli dell’inno americano nella Butterfly o la nenia dei battellieri del Volga ripresa in Siberia. Osiamo almeno sperare (...) che nessuno ricordi che lo spunto dell’intermezzo dell’Amico Fritz proviene da un notturno del Martucci e che nella Moldava di Smetana riappare la nostra collaudatissima Fenesta ca lucive.».

Più ci avviciniamo alla contemporaneità, più gli autori presentano elementi che confluiscono nella attuale modalità del plagio artistico. Nel Novecento, quelli che maggiormente hanno contribuito a dar corso a questa acquisizione sono stati Erik Satie, che prende in giro le Sonatine di Clementi con piglio ironico e spregiudicata abilità permutatoria, ed Igor Stravinskij, che fa della citazione la sua principale arma, a dispetto di Adorno che lo considerò inautentico con scarna preveggenza. Stravinskij era grado di sorprendere sistematicamente pubblico e critica con inaspettati prestiti stilistici, sia in direzione dei suoi contemporanei che verso il periodo classico ed il Settecento. In Pulcinella, ad esempio, si ispira a Pergolesi, ne ricrea le atmosfere a modo suo, e lo dichiara esplicitamente, affermando contestualmente la legittimità dell’operazione. In Colloqui con S. confessa: «Pulcinella fu la mia scoperta del passato, l’epifania attraverso la quale tutto il mio lavoro ulteriore divenne possibile. Fu uno sguardo all’indietro naturalmente, - la prima di molte avventure amorose in quella direzione - ma fu anche uno sguardo allo specchio. A quell’epoca nessun critico lo capì, e io fui attaccato di conseguenza per essere un pasticheur (...). Per tutta quella gente la mia risposta fu ed è ancora la stessa: Voi ‘rispettate’, io amo». Anche Massimo Mila riferisce di questa caratteristica.  Tanto che chiude il suo Compagno Strawinsky con la seguente riflessione: «anche la sorprendente piroetta finale, con la graduale conversione o piuttosto convergenza di S. verso il metodo di composizione dodecafonica, non è il recupero d’un contatto smarrito con l’avanguardia ma si inscrive sotto lo stesso segno di parodia creatrice che è il contrassegno del costume contemporaneo».  Mila attribuisce a S. una vera e propria «tecnica dell’appropriazione» verso «ogni fenomeno di natura musicale».  E lo stesso Stravinskij noterà, in Poetica della musica,  che «una vera tradizione non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che anima e informa di sé il presente. In tal senso è vero il paradosso che tutto ciò che non è tradizione è plagio...».

 

La musica concreta

Pietro Grossi raccontava che negli anni Sessanta molti compositori sperimentavano tecniche analogiche di ‘collage’ sonoro e di ‘montaggio’ di materiali provenienti da fonti estremamente eterogenee. Quasi tutta la musica concreta fu costruita in questo modo; inventata da Pierre Schaeffer che firmò, assieme a Pierre Henry, diverse opere di musica concreta fin dagli anni Cinquanta, la definizione ‘musica concreta’ risale però all’anno precedente, forse addirittura al 1948. Grossi fu tra i primi italiani ad utilizzarne le tecniche con piena consapevolezza estetica - cioè immaginandone bene le conseguenze e(ste)tiche - (tecniche che anticipano quelle dei Dj odierni), ad insegnarle come caposcuola, mettendo il suo studio a disposizione dell’Istituzione statale. Tra gli altri italiani, anche il compositore Vittorio Gelmetti lavorò al suo studio negli anni Sessanta utilizzando tecniche simili, realizzando per la Rai (DSE) un ciclo di trasmissioni chiamato “Tutto è musica” e scrivendo diverse colonne sonore utilizzando la tecnica del ‘montaggio’. Altri antesignani furono Varèse, Gerhard, Davies, e quasi tutti gli autori di musica concreta.

Oltre a molteplici innovazioni e primati (l’uso del calcolo algoritmico nella musica elettronica), Pietro Grossi  dette notevole impulso, forte delle sue prassi, ad una visione etico-politica della produzione musicale partendo dall’acquisizione che la musica non fosse né dovesse essere ricollegata ad un concetto stringente di ‘proprietà’: realizzò un pezzo e lo intitolò Collage per dichiararne esplicitamente la ‘fabbricazione’ attraverso tecniche di assemblaggio, e cioè fondendo e sovrapponendo, alla fine radicalmente alterando, molti lavori di altri compositori elettronici. Ripeteva il motto “Tutto per tutti infaticato...”, di Renato Famea, ritenendo che fosse ridicolo nell’epoca della tecnologia, o, se si vuole, nell’epoca della riproducibilità tecnologica, perdere tempo con faticose operazioni ripetitive. Diceva che «non si può paragonare il modo di vivere prima della scoperta dell’energia a vapore con quello successivo: non si possono fare paragoni, però ha vinto lo strumento a vapore. Vince perché è più potente, non perché più bello o migliore. Vince la potenza. E se l’uomo si accorge che può ottenere tutto subito senza fare fatica si domanda per quale ragione non debba seguire la strada più comoda»: una osservazione politica, dedicare energia ad un impiego esclusivamente creativo, senza perder tempo con questioni meccaniche.

Le prassi compositive di Grossi, la sua produzione artistica (la cosiddetta “home-art”), gli statement estetici, sempre mutevoli e divulgati in copie uniche, naturalmente celano una più alta idealità presente nel suo lavoro, e legata al filo rosso Kant-Weininger, di rispetto per l’uomo, distinzione tra il dominio sugli oggetti da un lato e l’invadenza della proprietà dall’altro. Celano ancora il desiderio dell’anonimato a favore del lavoro di gruppo svolto nello studio elettronico, e la necessità di ridimensionare la funzione della proprietà privata sull’opera artistica e intellettuale, perché non c’è possesso sulle buone idee. Grossi risulta, così, uno di quei rari musicisti in grado di leggere trasversalmente le pratiche del fare motivandole con profonde certezze teoriche, etiche, estetiche. Un personaggio non ancora sufficientemente noto, ma che fu in grado di opporre una concreta resistenza politica, anche se emersa in modo saltuario e frammentato, attraverso le sue conoscenze tecnologiche. Si deve a pionieri come Grossi se l’uso del mezzo elettronico si è via via ‘addomesticato’, se oggi ci pare normale che il ‘computer’ possa avere molteplici usi ‘domestici’, e possa essere uno strumento che ci fa ‘risparmiare tempo’ quando nel comporre si improvvisa su tastiere collegate via Midi al calcolatore, che scrive scrupolosamente traccia su traccia, facendoci riascoltare il tutto con la freschezza di suoni campionati (rendering audio). Grandi pionieri quelli come lui, Teresa Rampazzi ed Enore Zaffiri, che hanno introdotto nelle scuole di musica queste tecniche, i primi sintetizzatori, i primi calcolatori. Non è un caso che sarebbe stato poi il mondo della musica ‘pop’ a massificarne l’uso.

 

Dalla Hausmusik alla Mouse musique

La ‘House music’ (che poi è un filone che affonda la sua ratio nella romantica Hausmusik o musica domestica) ha avuto larga diffusione negli anni Ottanta. Costruita con tecniche di campionamento restò prevalentemente musica da ballo o da discoteca (Michel Chion). Precedette, quindi, la cosiddetta ‘Mouse musique’, riferita principalmente al fenomeno commerciale dei St. Germain, che rappresenta una evoluzione del concetto di campionamento, perché viene creata attraverso colpi di mouse ed appositi software di gestione congiunta di file wave e Midi.

Anche per i campionamenti si pone il problema del plagio: quando i suoni o i break ritmici restano riconoscibili essi necessiterebbero di una liberatoria dell’autore. Per questo, in tempi recenti, si è pensato di risolvere il problema commissionando  sound-pool liberi da copyright, royalty-free. Oggi in qualsiasi messaggeria attrezzata si trovano cd-rom con campioni già pronti, intere librerie di suoni o di groove di batteria pronti ad essere messi in loop per essere utilizzati in molteplici applicazioni domestiche.

Quando la tecnica si diffuse negli anni Ottanta grazie al proliferare sul mercato di campionatori molto economici, essa si impose in ambito hip hop, estendendosi in breve anche ad altri generi musicali, dalla break music (dove per ‘break’ si intende ‘blocco ritmico’), al  funk. Tra jazz e funk si è mosso il pianista Wayne Horvitz, che ha lavorato sia con Zorn che con Marclay. Per Horvitz si parla più che di una ‘scomposizione’ di brani, di ‘ricomposizione’ di suoni eterogenei. Ha fondato il gruppo dei President. Marclay è più vicino al mondo dei Dj, i quali sempre con più creatività utilizzano e mixano utilizzando appositi programmi o mixer digitali che consentono lo scratch anche con i moderni compact disc. Ricadute della tecnica del campionamento avvengono oggi in molteplici generi, fino alla jungle.

La pervasività di queste tecniche nelle musiche di consumo è oggi un dato innegabile, dimostrato dalla presenza di musicisti ‘campionatori’ in quasi tutti i generi musicali, da Tom Jenkinson (drill’n’bass), Nigel Casey (house), Michael Reinboth (jazz), a Marco Passarani (tecno), Johnny Halk (braindance), fino ad arrivare a Moby (di provenienza tecno, usa però stilemi blues, ambient, un vero melting pot) ed a Ludovic Navarre alias St. Germain (lounge jazz, sorta di jazz da camera). Un altro esempio è dato dai romani Gabin, diventati celebri per aver ricreato in modo geniale  Doo Uap, Doo Uap, Doo Uap, da un originale di Ellington, e per questo considerati come i St. Germain italiani.

 

Contemporaneità

Non si può dar conto facilmente di quello che accade oggi, se non compilando un ponderoso elenco telefonico. Molti autori usano la citazione volontaria, o portano agli estremi l’espediente della trascrizione, reinventando o sporcando intenzionalmente con interventi estranei i brani del passato. In mente vengono subito le modalità compositive di Zorn, che accosta frammenti in un velocissimo gioco di rinvio concettuale, le operazioni di Garbarek, le allusioni dei neoromantici, le rivisitazioni dei brani di Hildegard Von Bingen.

Una vera svolta è rappresentata proprio da John Zorn, che scrive colonne sonore per cartoni animati (repentini cambiamenti tra rumori e musichette pensate ad hoc), ad esempio con Roadrunner, e lavora con il già citato Dj Christian Marclay, il quale utilizza il missaggio tra brani differenti in modo libero, e lo contamina con suoni e rumori estranei. Le due cose fanno nascere in Zorn l’idea di inanellare citazioni velocissime (Zorn le chiama “sketch”, v. il paragrafo sulle tecniche), in cui i frammenti originari sono quasi irriconoscibili, e dei quali non viene più dichiarata la paternità originaria. Tra un pattern e l’altro, il sassofonista propone ‘insert’ strumentali tecnicamente all’avanguardia. Il risultato è un universo polimorfo, una evoluzione delle intuizioni usate da John Cage in quei brani per radio e performer o per radio e televisione considerati scandalosi al loro apparire (si ricordi che all’elemento della casualità rispondeva l’utilizzazione di frammenti musicali trattati in modo oggettivo, benché prodotti da una semplice radio a modulazione di frequenza). Il filo rosso che è forse possibile tracciare parte da Satie (per le componenti dell’ironia e della musica d’ambiente) e Stravinskij (per la consapevolezza estetica del rifacimento stilistico), attraversa John Cage (indeterminatezza non solo dell’esecuzione ma anche dei materiali prodotti dalla fonte: alea controllata per l’esecutore, vera e propria indeterminatezza per le fonti) ed i tanti sperimentatori elettronici; arriva a John Zorn, ed ai musicisti che utilizzano campionamenti. Ognuno di questi passaggi è stato a suo modo rivoluzionario, e tuttavia in grado di conciliare l’innovazione e la creatività con la memoria e la conoscenza di quanto già avvenuto in sistemi contigui o (geograficamente) lontani, sempre nel presupposto della ‘contaminazione’. Sarà appena il caso di ricordare ancora una volta che questa nozione, oggi abusata, è stata fortemente osteggiata e combattuta dai sostenitori della novità dell’arte, della purezza, della ‘grandezza’ della musica colta o occidentale. Non bisognava essere visionari o veggenti per scorgere all’orizzonte quello che sarebbe accaduto nel mondo della cultura e della letteratura, e che oggi si stringe come un cappio attorno all’anelito della globalizzazione culturale. Il cappio è quello che separa artificialmente le culture, le religioni, erigendo nuovi muri e steccati attorno all’idea di un occidente pieno di progresso al quale si opporrebbe una cultura araba, islamica, da mettere alla gogna. Due concezioni opposte, dalle quali discendono alternativamente tolleranza oppure autoritarismo.

E invece la ‘contaminazione’ sopravvive, nella vecchia come nella recente musica concreta, che utilizza frammenti spuri provenienti da ogni dove (ad esempio lo fanno Andrea De Luca e Lorenzo Brusci); è ancora rintracciabile nelle molteplici utilizzazioni di musiche colte da parte di compositori jazz o anche semplicemente ad opera di jingle-makers (si pensi a Rava che si rivolge a Puccini, ed alle tante rivisitazioni di musica da spot); è individuabile in un corposo campionario di musiche di provenienza leggera da parte di interpreti classici, da Cardini che rilegge Bindi a Bayless che in “Bach meets the Beatles” rifà celebri brani del gruppo anglossassone, o Peter Breiner che ne riscrive le composizioni nello ..... stile del concerto grosso di Bach, Händel e Vivaldi! Ancora contaminazione e gran calderone citazionistico è quello del bravo Daniele Sepe (che talora eccede in enfasi bandistica quanto eccelle in impegno politico), e del gruppo Le Loup Garou, che fonde con grinta stilemi provenienti da disparati angoli del globo. E per ascoltare gli esiti migliori di musicisti collocati in ogni punto della geografia polimorfa disegnata dalle musiche contemporanee (senza esclusione del rock), si ascolti “Caged/Uncaged” della storica etichetta Cramps Records: Arto Lindsay, John Cale, David Byrne, Lou Reed, Elliott Sharp, David Weinstein & Shelly Hirsc (firmano insieme una bella divagazione sul capolavoro Cheap Imitation di Cage), Amy Denio e naturalmente John Zorn ed Eugene Chadbourne. Ancora è infinita la world music che mescola, contamina, plagia. Una quantità di autori e brani solo indicativa di quanto accade nella contemporaneità, a significare la molteplicità di assimilazione e attecchimento di tecniche, prassi, concetti mutuati dall’estetica del plagio. In tempi recenti, poi, le musiche ‘di frontiera’ (la cosiddetta Border music) hanno assimilato nel profondo le modalità compositive usate in stili e generi differenti, appropriandosene in modo originale, e facendone altro, qualcosa in grado di ri/suonare in modo indeterminato, nuovo, globale.

 

 

Tecniche

 

Alla contemporaneità della contaminazione, più o meno inconsapevolmente, appartengono, come si è detto,  le brevissime citazioni degli spot, i rifacimenti, i plagi musicali della musica leggera, i brani sottratti al diritto d’autore e modificati per essere immessi in rete (tagli nella frequenza di campionamento, e tagli operati dall’algoritmo usato dal formato Mp3 e dalle sue evoluzioni), ma anche brani e frammenti liberi da copyright (chiamati via via loops osoundpool) immessi sul mercato dalle ditte che vendono software utilizzabili per creare pagine Web, video promozionali, o musiche di consumo (vedere i cataloghi di campioni diffusi da Sonic Foundry per il noto software “Acid”; da Magix, che dispongono anche di immagini ‘free’ utili per costruirsi video con tasselli ‘prefabbricati’, etc. etc.). Molteplici tecniche sono state inventate, perfezionate, messe a disposizione di tutti, in un primo tempo solo con intenti commerciali. Questa ‘mercificazione’ ha invece sortito un effetto inaspettato: la divulgazione capillare, la massificazione, una sorta di popolarizzazione della creatività. Una creatività ‘a basso costo’, vale a dire ottenibile con pochissima spesa, benché talvolta di buona qualità. Tutto ciò ha fatto in modo che anche un metalmeccanico potesse essere prodotto dall’etichetta di Zorn, con risultati sorprendenti!

L’esposizione delle tecniche parte dalla ‘variazione’ e della ‘trascrizione’, fondative di ogni musica, ma superate nella loro applicazione accademica) e arriva a quelle tipiche del nostro secolo, patrimonio collettivo il cui debito va indirizzato alla straordinaria capillarità dei nuovi media elettronici.

 

Variazione

Uno dei più esaurienti studiosi di forme musicali, Andrè Hodeir, dedica ampio spazio alla variazione: «Come l’uomo, pur così vario nella sua struttura e nei suoi comportamenti nasce da una sola cellula, l’opera deve svilupparsi a partire da un elemento unico. Tutta l’arte di chi crea consiste nel ricavare da questa cellula iniziale il massimo della varietà: è ciò che si sforza di fare la tecnica della ‘variazione’, una delle forme più pure della musica occidentale». Aggiungendo, tuttavia, che: «secondo la prospettiva in cui la si considera, la variazione può essere una forma o un procedimento, o entrambi. Variare un tema significa trasformarlo senza alterarne l’essenziale, sia ornandolo, sia trasducendolo, sia dando preminenza ai disegni secondari che l’accompagnano» (Andrè Hodeir, Les formes de la musique). Indicazione più vicina allo studio delle tecniche compositive è fornita dall’inventore della dodecafonia: «Il termine ‘variazione’ ha diversi significati. La variazione crea le forme-motivo per la costruzione dei temi, produce contrasto nelle sezioni mediane e varietà nelle ripetizioni; ma nel tema con variazioni essa è il principio strutturale dell’intero pezzo» (Arnold Schönberg, Fundamentals of Musical Compositions, London 1967).

La ‘variazione’ si configura quindi come una delle più antiche tecniche usate per costruire un brano musicale. Nella tradizione musicale ‘colta’, al fianco all’invenzione del tema, valore molto sentito in un periodo successivo, da sempre ha contato il momento dello sviluppo, dell’organizzazione dei materiali, dell’invenzione ‘variata’ di cellule magari non originali o non troppo originali. Per questa ragione, come rileva Tito Aprea, moltissimi incisi tematici restano identici a cavallo di epoche e di stili (e, naturalmente, di generi): alcuni salti d’altezze, alcune direzioni dei temi obbligate da un prevedibile e raccomandato ‘buon andamento’ del basso che supporta le armonie, sono stati considerati come un patrimonio comune, come l’abc del linguaggio musicale, del quale tutti potevano servirsi a patto di sorprendere poi l’ascoltatore con inaspettate formule ‘variate’. La medesima forma del ‘tema con variazioni’, addirittura, è poi diventata un modello di scrittura, laddove certe varianti ritmiche, o modalità di divisione e spezzettamento del tema, o procedimenti come dilatazione e concentrazione venivano riutilizzati per richiamare alla memoria dell’ascoltatore le opere precedenti, o quelle dei grandi compositori contemporanei, come se l’intento fosse stato non solo quello di innovare, ma anche quello di riallacciarsi implicitamente ad un linguaggio e ad una tradizione. L’arte dell’implicito citare varia molto tra i differenti compositori, e non è detto che i più ‘grandi’ siano stati anche quelli più innovativi e radicali. E quasi tutti, inevitabilmente, hanno fatto ricorso alla variazione, spesso su temi popolari o di altri compositori.

 

Trascrizione

Anche la nozione di trascrizione ha diverse accezioni. La più interessante, ai fini di questo studio, è quella di ‘cambio di destinazione strumentale’. Attraverso la trascrizione, un brano composto originariamente per un determinato strumento viene trasformato ed adattato alle necessità di uno strumento differente, in modo più o meno fedele all’originale e assecondando problemi come l’estensione, il timbro, la possibilità di fraseggio dello strumento originario e di quello di destinazione. Esistono trascrizioni ‘da concerto’ (compositori come Liszt e Busoni amplificano in modo creativo l’originale con raddoppi, riempimento di armonie, etc.: si pensi all’amplissimo catalogo delle trascrizioni da concerto); e trascrizioni che diventano vere e proprie ‘reinvenzioni’: in tal caso musicisti come Rendano, Siloti, Petri sviluppano creativamente arpeggi appena enunciati, o completano linee di basso con temi inventati da loro. Il nuovo brano, spesso, pur mantenendo nella corretta sequenza i nomi del compositore e del trascrittore (ad esempio: Bach-Siloti), è quasi sempre stilisticamente più vicino al musicista trascrittore mostrando chiaramente quanto nella musica classica sia stato (e sia) molto comune sentire come propria l’idea musicale di un altro compositore.

 

Collage

La tecnica del ‘taglia e cuci’, già ampiamente abusata nella sua versione ‘manuale’, è oggi di facilissima attuazione grazie alla omonima modalità presente in qualsiasi calcolatore. Essa consente di ‘selezionare’ l’area di un testo o di una composizione codificata in formato Midi, oppure una qualsiasi porzione audio di un brano digitalizzato, e di servirsene in qualsiasi contesto. Usando appositi programmi, inventati inizialmente con finalità didattiche, è possibile fondere dati audio e Midi con testi ed immagini, visualizzando e ascoltando ogni frammento come se si trattasse di un ‘mattoncino’ o di una tessera di un puzzle, ricomponendo un contesto originale di proprio gradimento. E’ facilmente immaginabile che con tali software qualsiasi persona, anche se non musicista, può permettersi di ‘creare’, a vari livelli, opere più o meno inedite. Come nota un attento osservatore dei nuovi fenomeni musicali, Gino Castaldo, «esiste anche, ed è in vertiginosa espansione, una tendenza al mescolamento, al riciclaggio continuo e instancabile dell’esistente, che rende ardua ogni precisa distinzione sulla indipendenza dell’atto creativo dal rapporto con quanto è già stato creato».

È importante precisare che la tecnica del ‘collage’ fu utilizzata, in versioni molto meno edulcorate, da quasi tutti i compositori del filone della musica concreta. Naturalmente questi antesignani delle odierne tecnologie realizzavano e trattavano le porzioni audio in modo molto più sofisticato, ancorché distaccato dai desiderata del pubblico.

 

Scratching

I primi ad usare la tecnica dello scratch furono Hindemith e Toch nel 1930! Utilizzarono, naturalmente, vecchi dischi in vinile, e non la chiamarono in questo modo  (Cfr Aa. Vv., Konsequenz, n. 3-4). Lo scratching è stato definito da Michel Chion come quella tecnica che consente di utilizzare «dischi di vinile e piatti di grammofoni alla stregua di strumenti: si controlla il movimento del disco manualmente e si creano così ‘tracciati’ sonori simili a zebrature, come tracce pungenti» (M. Chion, Musica, media e tecnologie, p. 119). Sarà utile aggiungere che oggi è possibile fare scratching anche al computer a partire da formati compressi come Mp3, oppure utilizzando normali i compact disc con uno speciale mixer inventato apposta per le discoteche ed i Dj.

 

Sketching

Zorn nelle sue composizioni usa il termine ‘sketch’, ad esempio  per qualificare il suo brano Roadrunner (Ed. Theatre of Musical Optics). Il termine definisce la prassi di far susseguire velocissimi frammenti audio (‘schizzi’, appunto). Non tutte le composizioni di Zorn sono costruite così, ma lo sono quelle che utilizzano le tecniche del montaggio (che lui desume dal cinema). In sostanza, quella di Zorn è l’estetica del collage. In un suo articolo sul cinema illustra la tecnica del montaggio cinematografico che probabilmente è la stessa usata per costruire i suoi pezzi , visto che tra gli esempi riportati nell’articolo compaiono gli stessi rettangolini presenti nelle sue partiture. Per Zorn: «il montaggio crea una serie di problemi (...) dove la materia dell’esperimento è costituita dal tempo. Spesso il montatore non ha materiale sufficiente per creare un flusso continuo ed è costretto a scegliere altrove immagini per conservare l’illusione del tempo che passa a un ritmo regolare». E ancora: «all’aumento di velocità segue la riduzione della capacità di attenzione. Se in precedenza sembravano indispensabili blocchi di informazione di un minuto, ora bastano dieci secondi». Come si vede, la velocità, il cambiamento,  il flusso delle informazioni tra continuo e discontinuo hanno un ruolo centrale nell’uso della tecnica dell’assemblaggio.

 

Sampling

Secondo Pamela Samuelson «le tecniche di campionamento digitale permettono di ‘tagliare’ una registrazione sonora in parti, le quali possono essere rimescolate e combinate con altre provenienti da diverse registrazioni, producendo una nuova registrazione che non è più riconoscibile come derivata dagli originali». Purtroppo, però, talvolta la cosa non è così semplice, perché alcuni originali vengono dichiarati, magari a scopo pubblicitario, e riconosciuti dagli attentissimi produttori e dalle major discografiche...

Il sampling, o campionamento, è una tecnica che può effettivamente consentire, grazie all’uso dell’elettronica, la ‘cattura’ di qualsiasi suono da tracks di cd preesistenti,  la sua trasformazione in un dato numerico visibile al computer, un evento digitale che può essere utilizzato a piacimento, trattato, alterato, rivisitato fino a renderlo irriconoscibile. I primi ‘campionatori’ erano macchine costose ed ingombranti, che tuttavia permettevano di registrare i suoni, inserirli nella macchina e modificarli nei loro parametri fondamentali (altezza, timbro, intensità, durata). Il sistema del campionamento si diffuse alle tastiere, anche di tipo economico. Oggi, finalmente, si può lavorare sul campionamento con computer di basso costo, ma i risultati, la riconoscibilità dei campioni, la banalità o l’originalità del risultato finale dipendono esclusivamente dalla creatività e dall’abilità degli operatori.

 

Clearing

Il Tribunale Distrettuale degli Stati Uniti emette il primo verdetto inerente al campionamento musicale nel dicembre 1991, vietando al rapper Biz Markie di utilizzare nella canzone Alone Again inserita nell’album Need a Haircut (1991) alcune parti campionate tratte dalla omonima Alone Again (Naturally) di Gilbert O’Sullivan, un cantante noto negli anni Settanta. L’album fu ritirato dal commercio, e ripubblicato privo di Alone Again. Il caso ebbe una notevole risonanza anche per il fatto che dopo due anni Biz Markie diede al suo nuovo lavoro il titolo provocatorio di All Samples Creared. Da questo titolo nasce la pratica del ‘clearing’, che consiste nel dichiarare ai legittimi detentori dei diritti d’autore tutti i campionamenti prelevati dai loro brani (‘rubati’ dai compact disc grazie alle tecniche digitali oggi in uso) versando un corrispettivo in cambio del loro utilizzo.

 

Wall of noise

E’ una raffinata tecnica del collage sonoro, migliorata da Hank Schocklee, produttore dei Public Enemy (Sandro Ludovico, “Campionare, l’arte di attingere ai suoni”).

 

Campionamento libero

Il gruppo dei De La Soul ha dedicato uno spazio web dedicato ai campioni utilizzati nei loro dischi, rispondendo alle faq degli utenti sul loro uso. Altro organismo nato per contrastare il clearing e contestualmente favorire la libera utilizzazione dei campioni, è l’associazione no profit “Musicians against copyrighting of samples”. Uno dei suoi fondatori, il musicista Uwe Schmidt ha messo a disposizione i suoi campioni allegandoli agli album (1992, Cloned: binary, in edizione limitata) (S. Ludovico).

 

Internet

Nelle musiche di libera utilizzazione collegate a software di sviluppo di pagine Web, l’autore vende i brani al produttore del software una sola volta,  il quale ne liberalizza l’uso da parte dell’utente in cambio dell’acquisto del programma. Assai interessante la casistica relativa alle banche dati, per le quali si discute di libero utilizzo (e pertanto di scappatoia dalle maglie del diritto d’autore, v. il paragrafo sul copyleft) da parte dell’ ‘assemblatore’. Su Internet sembrerebbero implicitamente autorizzati i download di frammenti di bassa qualità audio, laddove l’Autore ne possa disporre e ne dia cautelativa informativa all’ ente di tutela.

Già da anni esistono programmi in grado di rilevare casualmente la musica presente in rete consentendo collage sonori più o meno automatizzati. Si va dall’evento live trasmesso via internet, alle musichette Midi, dalle siglette dei telefonini  alla cattura dei suoni trasmessi dalle net-radio. Tutte musiche trattate come veri e propri ‘oggetti sonori’, molto spesso non più riconducibili agli autori originari.

 

Metacomposizione

Tecniche di metacomposizione vengono utilizzate soprattutto in ambito colto. Tra gli autori spiccano il gruppo Timet ed il suo leader Lorenzo Brusci, che, con complesse motivazioni estetiche ed uno studio dei flussi sonori tra discreto e continuo, trasformano l’operazione ‘jazz’ di Zorn in sofisticata elaborazione colta (ma queste differenze tra generi sono solo indicative). Timet pubblica diversi dischi (Restituzioni, La via negativa, Shadows...), su ognuno dei quali è posta la scritta «Chiunque è libero di manipolare questo disco. Se potete ammettetelo». La tecnica usata è quella di considerare blocchi di suono come materiali oggettivi da giustapporre a piacimento. In alcuni lavori c’è l’elenco dei nomi dei compositori ‘sorgente’, senza però precisare il titolo del brano dal quale è stato tratto il tassello inserito nella metacomposizione.

 

 

 

Tipologie

 

Le tipologie di plagio musicale sono molteplici: può parlarsi di plagio tipico e atipico, involontario, stilistico e imitativo, parziale, ritmico, autoriferito, artistico o attenuato, popolare. La classe tipologica qualificata come plagio artistico o attenuato mira a mostrare quale sia stata l’evoluzione della nozione dal punto di vista delle tecniche musicali (negli studi classici di composizione la progressione storica coincide con la progressione dell’apprendimento e la padronanza delle tecniche compositive). Ogni categoria, naturalmente, non vuole essere esaustiva, si qualifica come classe tipologica suscettibile di ulteriori articolazioni, poiché spesso, nella realtà del caso specifico, ogni classe può mescolarsi o integrarsi con le altre classi.

E’ necessario ribadire che la nozione giuridica di plagio musicale va intesa in modo estensivo. Le tipologie giuridiche, difatti, sconfinano in fenomeno estetico nella misura in cui nell’evoluzione delle tecniche musicali si va via via facendo strada la convinzione dell’ineluttabilità del ricorso a temi, ritmi, atmosfere mutuate da opere di altri compositori. Tale consapevolezza, come si è già accennato nel delineare il percorso storico della nozione di plagio, assume in ogni epoca importanti differenze prospettiche, che vanno dal divertito omaggio ai grandi autori del passato alle furibonde accuse di vero e proprio furto di idee. Dire che la nozione giuridica sconfina in quella estetica significa che la vecchia definizione di plagio deve per forza di cosa tener conto delle acquisizioni che si sono accumulate nel tempo, nella storia delle opere, e nel tenerne conto deve uscirne ampliata, non nel senso di aggiungere nuove tipologie, ma in quello costitutivo di modifica della stessa percezione giuridica del termine plagio.

Per queste ragioni, non avrebbe avuto senso procedere ad un elenco delle tipologie di plagio se non precisando chiaramente che se da un lato si sta cercando di ‘incasellare’ e definire casi noti o poco noti, dall’altro si sta cercando di mostrare come sia già insita nel gesto compositivo, e data quasi per scontata nell’uso pratico delle tecniche, una modalità di uso dell’altro, e del rinvio all’altro, in cui appare legittima l’appropriazione creativa di frammenti altrui. Tali frammenti vengono considerati dal compositore alla stregua di materiali oggettivi (escludendo pertanto i casi di malafede).

A questa esigenza di chiarezza risponde la necessità di ipotizzare tra le classi anche quelle di plagio attenuato, artistico e popolare, che seguono un criterio di natura estetica più che di natura giuridica.

Quello che è in gioco, preme sottolinearlo, non è una mera questione musicologica, ma alcune importanti acquisizioni etiche: impossibilità di opere che possano considerarsi completamente ‘pure’; ineluttabilità della contaminazione dei linguaggi; importanza di questa contaminazione per l’avvicendamento delle forme e l’arricchimento delle culture. Due visioni del mondo evidentemente opposte: quella lineare, che respingiamo; quella che declina dalla linea, che accogliamo, perché non escludente a priori la possibilità di scatti in avanti dovuti ad una originalità che potrebbe dirsi ‘causata’.

 

Plagio tipico

Ipotesi di scuola, definisce la casistica tipo che può inquadrare il fenomeno dal punto di vista giuridico. Se «una persona si appropria degli elementi rappresentativi e creativi di un’opera per introdurli in un’altra opera sotto il proprio nome, ci troviamo in presenza di un ‘plagio’, cioè di una contraffazione qualificata e aggravata, ossia di una riproduzione abusiva di un’opera altrui con appropriazione di paternità» (l. 633/1941). Per legge, tuttavia, l’opera simile all’originale, per essere realmente definita plagio, deve suscitare nell’ascoltatore le stesse emozioni evocate dall’originale. Assecondando questa definizione, potrebbero sussistere senza incorrere nel plagio alcuni tipi di utilizzazione di tipo ‘citazionistico’, perché i frammenti usati, ad esempio, negli sketching di Zorn non hanno più nulla in comune con i brani iniziali.

 

Plagio atipico diretto e indiretto

Sono atipici  tutti quei casi che non rientrano nella definizione ‘di scuola’.

Con rilievo al profilo della titolarità del plagio, se un terzo plagia l’opera da una sorgente per conto dell’autore plagiante che si assumerà la titolarità dell’opera, si ha plagio atipico diretto. Se un terzo plagia l’opera a nome di un compositore ignaro si ha invece plagio atipico indiretto (riferito alla figura del compositore ignaro) o falso d’autore (riferito alla figura del terzo, reale autore del plagio).

Se uno studioso (o l’opinione comune) attribuisce l’opera ad un compositore che non ne è autore si ha plagio atipico o errore di attribuzione (la modalità ha rilievo per il fatto che nella pratica da concerto molte opere continuano ad essere eseguite con la falsa titolarità, attraverso la dizione ‘attribuita a...”). Se il plagio atipico viene ricondotto con certezza ad un terzo che volontariamente lo pone in essere a fine di lucro si è in presenza di una truffa (plagio atipico indiretto è quello del Requiem di Mozart, nelle parti completate dagli allievi su commissione della moglie, a danno di un committente il quale a sua volta intendeva assumere la paternità del Requiem - plagio tipico) o di uno scherzo (celebre in campo artistico il caso dei falsi Modigliani).

Si ha ancora plagio atipico nel caso in cui un compositore affidi ad un ghost writer la propria opera affinché questi la completi a pagamento (celebre e molto discusso il caso di Giacinto Scelsi, che però consegnava ad alcuni trascrittori dei supporti magnetici di sue improvvisazioni: il plagio avrà rilievo solo nel caso in cui possano essere documentate porzioni estese della composizione non concepite dal committente).

 

Plagio involontario

Tipologia squisitamente giuridica che inquadra il caso di similitudine fortuita o casuale. Apre una serie di problemi giuridici tra creatori di opera indipendenti

 

Plagio stilistico e imitativo

La diffusione di trattati di orchestrazione e analisi consentono oggi perfino agli studenti dei corsi di composizione di poter scrivere à la manière de..., formula usata dagli autori per esplicitare un rifacimento stilistico. Molti sono gli esempi di plagio di stile, esplicito o implicito, da Ravel che si rivolge a Couperin, a Debussy che ne La Cathédrale engloutie si appropria della tecnica della sospensione accordale usata quattro anni prima da Satie in un Corale, fino a Rossini che nel Petite Caprice per pianoforte fa il verso ad Offenbach, con uno sberleffo aggiuntivo: usa solo indice e mignolo della mano destra, nel gesto dello scongiuro, perché pare che Offenbach portasse male...

Il plagio imitativo è ‘esplicito’ nelle composizioni accademiche; ‘implicito’ nelle composizioni di corrente, ad esempio in alcune opere della scuola seriale; ‘attivo’ quando l’imitazione stilistica procede da consapevole volontà di attribuirsi un vantaggio economico o un vantaggio intangibile; ‘passivo’ se ci si limita a subire l’influenza di un caposcuola o di un autore che si è molto amato (ad esempio il caso di Sakamoto che da giovane, dopo aver molto ascoltato e amato il Terzo concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven scrisse un brano di natura didattica del tutto simile a quello di Beethoven).

Si ha plagio imitativo cinematografico quando nella musica da film si usano alcuni codici per suscitare reazioni convenzionali nel pubblico, una specie di codice inconscio: un collage di queste tipologie è raccolto in un celebre prontuario, l’Allgemeines Handbuch der Filmmusik di Becce-Erdmann-Brav, pubblicato a Berlino nel 1927. Basta comunque ascoltare la musica da film di un compositore come Sakamoto per rintracciare decine di citazioni stilistiche o tematiche. In Little Buddha un tema simile a quello del Dies irae viene orchestrato alla maniera della Pavane pour une enfante défunte di Ravel. Molti ritmi di El mar Mediterrani riportano al Sacre di Stravinskij o ad opere di Bartòk, e via di seguito...

Il plagio imitativo da spot ricorre nel caso dello jingle-maker che costruisce musiche per la pubblicità, e si adatta camaleonticamente a rifare Springsteen e Bach nell’ottica mobile dell’estetica del plagio..

 

Plagio parziale

Può riguardare una successione armonica inusuale ma identica a quella di un altro autore nella sequenza accordale, nelle posizioni e nei legami armonici. O solo una parte del tema di una composizione, intendendo per tema la frase compiuta che identifica il brano di provenienza. Plagio parziale può essere quello del controsoggetto o tema secondario o seconda voce della composizione. Infine può essere quello che riprende la tipicità di un timbro orchestrale, laddove questo sia palesemente ‘rubato’ da un brano preesistente.

Plagio ritmico. Laddove la ritmica sia identificativa di una composizione, essendo il ritmo la caratteristica musicale  che per prima consente l’dentificazione del pezzo, quella cioè che dal punto di vista psicoacustico risulta essere individuata dal fruitore molto prima dell’assorbimento di parti tematiche, timbriche o armoniche, sarà possibile parlare anche di plagio ritmico. Esperimento: una famosa mazurca di Chopin suonata con altezze differenti e resa politonale verrà individuata egualmente da un musicista esperto. Il famoso tema beethoveniano del destino che bussa alla porta verrà allo stesso modo riconosciuto da ascoltatori non musicisti anche con altezze dei suoni alterate. Sembrerebbe sorgere un problema teorico: nei brani di musica cosiddetta ‘pop’ le ritmiche vengono ripetute o considerate di pubblico dominio anche grazie alla loro divulgazione in appositi cd ed a programmi che ne rendono possibile la libera utilizzazione. Tuttavia, laddove un ritmo risulti riconoscibile per alcune caratteristiche tipiche si parlerà di plagio ritmico anche in caso di differente velocità di esecuzione? Ragionando per similitudine, se un ritmo di origine classica (danze e balli) viene usato tranquillamente senza incorrere in plagio, anche altri ritmi semplici o a cadenza regolare dovranno considerarsi di patrimonio comune, prescindendo dalla velocità di esecuzione. Invece, ritmi complessi o irregolari (si pensi ad alcune composizioni contemporanee o a quelle di Stravinskij) verranno generalmente ritenuti plagi ritmici, sempre a prescindere dalla loro velocità d’esecuzione. L’uso e la permutazione ritmica viene generalmente considerata lecita dai compositori. Gli studi etnomusicologici sul gamelan di Giava e Bali, e più in generale tutte le polimetrie arcaiche sono stati saccheggiati da quanti ne hanno tratto cellule da impiegare con procedimenti di inversione, retrogradazione, aggravamento, etc. In linea di principio non si comprende per quale ragione il plagio di un ritmo debba essere considerato meno riprovevole di quello di un tema o di una successione armonica. Per quale ragione, cioè, la componente ritmica, che pur individua per prima la specificità di un brano, possa essere considerata più ‘oggettiva’ della componente ‘melodica’ e quindi trattata come un materiale liberamente utilizzabile...

 

Autoplagio o plagio autoriferito

L’autoplagio è una categoria intermedia tra quelle di derivazione giuridica e quelle di derivazione estetica. Difatti, un compositore può plagiare se stesso per motivi contingenti - laddove non riuscendo a soddisfare una commissione si trovi costretto a riproporre un lavoro precedentemente composto - o per motivi artistici - laddove l’utilizzo di un tema o di una parte della fonte originaria scaturisca da esigenze esclusivamente creative. L’autoplagio può consistere in una autocitazione (di un tema proprio o di parte di un’opera precedente); in una trascrizione da catalogo proprio; in un rifacimento  (assemblaggio da parte dell’autore di parti o interi movimenti tratti da opere precedenti o addirittura parziale riscrittura di opere complete); può ridursi ad autorevisione (celebre il caso dell’Otello di Rossini) o ad una semplificazione di precedenti lavori a fini didattici o strumentali; può spiegarsi come lavoro svolto nel tempo, e intendersi come versione successiva e stratificata nel tempo (con importanti cambiamenti) del medesimo lavoro (si pensi alle molteplici versioni delle mazurche di Chopin o dei preludi di Gershwin).

Di tale casistica si è anche occupata la giurisprudenza, laddove l’autore risulta vincolato da un contratto di edizione che gli impedisca di riprodurre, anche parzialmente, l’opera, o di produrne e metterne in commercio una simile. Si parla, in tal caso, di ‘plagio di se stesso’ (cfr. Marco Fabiani, “Il plagio di se stesso”), caso che potrebbe ricorrere anche al di fuori della tipologia del contratto di edizione (nel caso di diritti di esecuzione o di registrazione di opera musicale). Si propende a cercare un bilanciamento tra la libertà dell’Autore di ricorrere ad espressioni stilistiche che lo caratterizzano (in caso contrario molti brani di Glass sarebbero da annoverarsi nella categoria dell’autoplagio!) e l’esigenza di buona fede richiesta dal codice civile e dalla correttezza dei comportamenti di chi si pone sul mercato.

 

Plagio artistico

Il plagio artistico è insito nelle tecniche e prassi compositive tipiche della musica classica, che come si è visto procede da un tema o da una cellula allo sviluppo della forma musicale prescelta. Si è dimostrato che nella musica colta è piuttosto frequente comporre un brano su tema altrui, oppure autocitare frammenti della propria opera in altre composizioni, o trascrivere lo stesso pezzo per uno strumento diverso dall’originario. Dall’espediente della ‘variazione’ (su/da tema altrui) ha forse origine il senso di liceità che accompagna il compositore quando si serve di idee altrui: un tema interessante poteva in un primo momento essere ripreso solo occasionalmente dagli esecutori, poi essere elaborato, abbellito, infiorettato, come era antica prassi comune, adattandolo alle possibilità offerte da strumenti diversi e piegandolo alle possibilità improvvisative degli esecutori solistici. Si comprende, dunque, come già una semplice ‘trascrizione’ fosse una rudimentale forma di contaminazione tra l’originale d’autore e la sua rielaborazione più o meno variata compiuta da un altro musicista. Si può ipotizzare che queste ‘rielaborazioni’ diventassero ‘trascrizioni’, poi vere e proprie ‘reinvenzioni’ nella misura in cui maggiormente si allontanavano dall’originale, ed infine plagi (atipici ) quando il nome del primo autore scompariva del tutto.

Il plagio artistico, che è quindi un plagio attenuato dal punto di vista giuridico, perché solitamente non si accompagna ad una malafede ma, al contrario, alla sensazione di utilizzare un materiale oggettivo, a disposizione del sentire comune, può essere di vari tipi. Può trattarsi di una citazione: viene riportata in una propria opera un frammento dell’opera di un altro compositore. Può essere una citazione in bella evidenza quando assume la formula di un omaggio esplicito alla sorgente oppure può essere una citazione mascherata quando attraverso piccole modifiche chi plagia cerca di ottenere un effetto del tutto simile a quello della pezzo originale, che non viene dichiarato. In epoca successiva si sviluppò la forma della parafrasi. Si ‘trascrive’ da una composizione per orchestra o si creano ‘parafrasi’ pianistiche dai brani d’opera, poi se ne fanno musiche differenti, vere e proprie reinvenzioni. E’ interessante, a questo proposito, segnalare che la Siae ha solo di recente risolto il problema della ‘trascrizione’ di opera di pubblico dominio, e non ha ancora risolto quello dell’opera trascritta da autore vivente o morto da meno di settant’anni.

Le tecniche odierne, già illustrate, utilizzano la digitalizzazione del suono, vale a dire la sua trasformazione in un parametro numerico, che davvero può considerarsi con facilità un ‘materiale oggettivo’, fatto proprio da chi mostri competenza nel raccoglierlo e alterarlo.  Le tecniche sono quelle già citate del sampling o campionamento, dello sketching (fusione/confusione creativa di frammenti altrui), del clearing o del prestito dichiarato, nel caso già descritto del campionamento in cui pur utilizzando frammenti o campioni di suoni tratti altrove, se ne dichiara la sorgente corrispondendo i relativi diritti.

 

Plagio popolare

Un lasciapassare al plagio è sempre stato costituito dalla musica popolare. Molti compositori si sono rivolti ai repertori tradizionali  (considerati di pubblico dominio) per trattarli liberamente. Da Liszt e Brahms fino alle scuole popolari, con in cima Béla Bartòk e Zoltan Kodàly, a volte con intenti perfino filologici, i musicisti classici hanno permutato modi e temi folclorici o noti trasferendoli in forme colte. Mahler riprende Fra’ Martino, la trasporta, la trasforma in re minore e la inserisce nel terzo movimento della sua Prima Sinfonia. Ma ‘popolare’ non va confuso con ‘popular’. Il termine ‘popular’ ha infatti una più vasta accezione. La migliore definizione è quella data da Richard Middleton, e riassunta da Franco Fabbri. Comprende la canzone, il pop, il rock, la musica da cinema, della televisione, della pubblicità e «gli altri generi che insieme formano il campo musicale definito ‘popular’ dagli anglosassoni». Quindi, ‘popular’ è termine molto vicino all’ambito che interessa la produzione contemporanea contaminata.

Il termine ‘popolare’ va invece riferito in modo più circostanziato alla produzione legata al folclore locale, all’etnico in senso stretto. Può usarsi ‘popolare’ anche nel caso di produzioni provenienti da segmenti sociali identificati con la massa (!). Il passo tra popolare e ‘populista’, in quest’ultimo caso, è quantomai breve: la musica da discoteca, la leggera più commerciale, non sono generi autenticamente ‘popolari’, perché discriminano in partenza i gusti della gente, dando per scontato che la massa non possa interessarsi di musiche differenti da quelle a loro prossime. In questa accezione, la musica extra-light non è nemmeno ‘popular’ (tranne che in alcuni casi, in cui si effettua realmente una contaminazione), ma è spesso ‘populistica’. Sovente i compositori, di ogni provenienza, si sono appropriati di temi e motivi ‘popolari’ in senso proprio, magari soltanto ipotizzando che lo fossero. Al punto che alcuni temi, diventati talmente famosi da essere considerati ‘popolari’, hanno perso la loro stretta riferibilità ad un autore specifico, e sono stati trattati come vero patrimonio comune.

 

 

Temi e problemi

 

Nascita della nozione di autore

Contrariamente a quanto si ritiene comunemente, la nozione di Diritto d’autore fu introdotta fin dal Settecento, visto che il primo atto di copyright viene varato nel 1709 in Inghilterra. Vi si stabiliscono come caratteri del plagio una congrua lunghezza, e l’identità di porzioni del brano ben caratteristiche ed individuabili. Ed alla fine del Settecento risale uno dei casi più noti e rilevanti di accusa di plagio di un autore nei confronti di un altro compositore: i due si chiamavano Clementi e Mozart. L’uso di semplici e brevi frammenti non era ritenuto plagio in senso proprio. In seguito si considerò che una lunghezza ‘accettabile’ per parlare di plagiocoincidesse con le quattro battute che servono ad articolare una frase musicale di senso compiuto, anche se, come argutamente rileva Tito Aprea, talvolta perfino un inciso risulta talmente caratteristico da essere immediatamente riconoscibile. Nella prassi compositiva, dunque, curiosamente, la musica veniva trattata un po’ alla stregua dei software open source di oggi, laddove è implicito nella mentalità di un programmatore Linux la possibilità di lavorare anche per una comunità più ampia che può utilizzare gratuitamente, in clima di reciprocità, il lavoro altrui.

Bach versus hacker ? Novecento che riproduce un sentire del Settecento, con antiche idee che ritornano? In effetti questa analogia è molto vicina alla realtà delle cose e del sentire: per farsene una ragione si può consultare il libro di Pekka Himanen sull’etica hacker, che non a caso comincia proprio con l’ analisi dell’etica protestante del lavoro, e con la similitudine tra sistema monastico e sistema autoritaristico.  Nel tentare un parallelo tra quanto accade da secoli nel mondo musicale e l’attuale evoluzione nel mondo della ricerca elettronica, va tenuta presente una distinzione importantissima: quella tra free software (libero utilizzo senza limiti) e open source (in cui è obbligatorio citare la fonte di ogni miglioramento dei software). Entrambi i modelli sono a struttura aperta, e contrastano con le strutture chiuse di tipo aziendale-economicistico. Per il modello open source, diversamente da quel che si pensa, il plagio è riprovevole, ed il rilascio di diritti si intende assolto a due condizioni: «che quegli stessi diritti devono essere trasmessi quando viene condivisa la soluzione originale o la sua versione perfezionata, e chi vi ha contribuito deve essere sempre citato ogni volta che una delle versioni viene condivisa» (P. Himanen).

 

Le utilizzazioni plurime

La Società italiana per la tutela dei diritti d’autore ritiene che le nuove tecnologie conducano a differenti tipi di “utilizzazione” dell’opera, e che tali utilizzazioni plurime possano e debbano essere egualmente tutelate, attraverso marcatori come Mmp, che consente la marcatura in filigrana, il watermark, attraverso algoritmi di cifratura. Numerosi gli altri standard  Secure Digital Music Initiative. Le operazioni indicate da Mario Fabiani come riconducibili ad una utilizzazione plurima di tipo diverso da quello tradizionale sono l’Uploading (si immette l’opera in rete), il Browsing utente (altri utenti accedono all’opera), il Client caching (consultazione dell’opera in rete), la registrazione dell’opera sul proprio computer, la riproduzione (attraverso i vari formati di compressione, Mp3, Real Audio, ed altri formati derivati o evoluti), e la trasmissione dell’opera ad un pubblico indeterminato.

Dal nostro punto di vista non sembra tuttavia che la ‘consultazione’ di un’opera, ad esempio, con qualità inferiore dovuta alla compressione oppure ad una resa ‘mono’ (privando il brano della sua efficacia stereofonica), possa essere considerata una ‘utilizzazione’. Altrimenti tutti i negozi di dischi, nel proporre  una titletrack al compratore dovrebbero pagare diritti di utilizzazione. E analogamente perfino i giornalai nell’esporre riviste alla consultazione per l’offerta di acquisto, dovrebbero pagare dei diritti per la ‘consultazione’!

Altro punto discusso della normativa è la possibilità concessa agli acquirenti di CD di trarne almeno una copia per un uso differente, ad esempio per ascoltare una compilation in auto, purché tale copia sia dotata di un codice che ne impedisce una ulteriore duplicazione. Ne esistono molti tipi differenti, il più conosciuto è il Serial Copy Management System. Alcuni sistemi di protezione digitale oggi adottati in prova per certi prodotti discografici impediscono anche tale copia, limitando la libertà di utilizzazione dell’acquirente ed inibendone il diritto di conservare in perfetto stato l’originale, e il diritto di ascoltarne solo una porzione, considerando la natura non unitaria del ‘prodotto cd’ (formato da differenti tracce, spesso molto differenti). Si ricorda che per motivi simili (differenti funzionalità implementate nel sistema operativo Microsoft Explorer) sono state intentate molteplici cause contro Bill Gates.

Qualcosa in più di una ipotesi è la possibilità di una protezione ‘attiva’ dei materiali musicali presenti in rete. Attraverso un virus immesso illegalmente in file musicali, alcune major sabotano i sistemi peer-to-peer (vale a dire quei programmi e siti che consentono lo scambio di file). L’utente crede di ‘scaricare’ un file musicale e si ritrova invece con un “MediaDecoy”, cioè con una sorta di ‘cavallo di troia’ che danneggia l’hard disc del computer. Altre proposte restrittive arrivano dagli Stati Uniti, dove diciannove membri del congresso hanno chiesto al segretario della giustizia John Aschcroft di rendere reato il semplice atto di ‘scaricare musica’ dalla rete. Non a caso la proposta ha tra i suoi firmatari alcuni esponenti dell’aria liberal. Iniziative del genere non colpiscono di certo la vera pirateria (che consiste nel duplicare centinaia e migliaia di copie contraffatte di interi dischi, creando un mercato parallelo ed illegale) e finisce invece con il limitare la libera circolazione delle idee e dei materiali. Ogni sistema di protezione digitale, infatti, viene tranquillamente aggirato dai ‘veri’ pirati semplicemente fabbricando una nuova copia digitale, attraverso le uscite analogiche di qualsiasi lettore cd. Dalla nuova copia i contraffattori riproducono digitalmente ed in tutta tranquillità la quantità di dischi desiderata.

Il problema della pirateria è collegato a quello del plagio musicale laddove si vada a colpire la libera circolazione di musiche in rete. Sarebbe come dire che Haendel, Bach e Mozart non avrebbero dovuto memorizzare temi altrui ed arricchire conseguentemente la propria opera e la storia della musica di capolavori. E che magari, per impedire questa assimilazione, fosse stato proibito l’ascolto di nuove opere nei teatri e nei salotti! L’argomentazione, esasperata e paradossale, mostra tuttavia abbastanza efficacemente l’effetto di limiti imposti alla circolazione delle musiche per scopi di conoscenza e studio. Ed implicitamente di assimilazione, rielaborazione, campionamento, metacomposizione, ...

 

Plagio e riproducibilità

La possibilità di replicare “enne” volte un’opera musicale attraverso dischi, video, e così via, la espone al rischio di manipolazione delle masse da parte dell’industria culturale. Ma d’altro lato tale replicazione può servire ad introdurre attraverso l’opera temi rivoluzionari nella politica culturale. Quest’intuizione di Benjamin lo rende il più lucido dei francofortesi. La tecnica della riproduzione, scrive Benjamin, «pone al posto di un evento unico una serie quantitativa d’eventi». Al di là delle implicazioni storiche ed estetiche, la novità della riproducibilità è che in ultima istanza non si può più eludere il confronto col pubblico «degli acquirenti che costituiscono il mercato». Ciò, indubbiamente, cambia il rapporto tra artisti, opere e massa. Definite infatti certe costanti come di sicuro successo, la tentazione forte è quella di cedere al fascino del già detto, dell’autocitazione, della fabbricazione di canzoni, brani, video fatti ad hoc, cioè pensando esclusivamente alle esigenze dell’industria culturale. Tecnicamente è piuttosto semplice ricreare le atmosfere o riutilizzare certe suggestioni armoniche oppure ‘arrangiamenti’ simili per ottenere un effetto di ‘trascinamento’ sulla scorta di un successo da hit. Tale prassi, però, espone l’autore ad un logoramento ed uno svuotamento che alla lunga gli sono fatali. La prassi della ‘citazione’ o del rifacimento (da un mambo, dalla colonna sonora di un film di successo, etc.) è tale che essa va raccolta per quello che è, senza escludere a priori che una qualità estetica, un valore, possa comunque esservi contenuta.

Alle epoche della duplicazione e della riproduzione sembra ora seguire l’era della ‘replicazione’. Le musiche sono simili ai replicanti di Blade Runner: benché clonate paiono vivere come corpi separati in rete, come se fossero dotate di vita propria.

 

Pregiudizio d’autore e plagiarismo

Il plagio dispone a piacimento i confini di appartenenza: distingue tra proprio e altrui solo per abbattere questa frontiera, e stabilire un terreno condiviso. Ogni luogo in comune allarga i propri confini originari, perché sopravanza quelli contigui. Le incursioni pirata negli standards predisposti dall’ ‘autore’ sono già la ricchezza e la bellezza del prodotto ipermediale. Queste ‘varianti’ dell’originale verranno anzi richieste, perché nella variazione e nella velocità aforistica della successione di immagini diverse vi è una via d’uscita dalla noia per il già ascoltato. Un’opera ‘idra’ potrebbe crearsi utilizzando la rete, e abdicando alla propria paternità d’autore, come già si fa attraverso esperimenti letterari. Ed in effetti, su quest’ipotesi lanciata in modo teorico diversi anni fa, oggi è possibile rintracciare molteplici movimenti ed artisti che utilizzando la tecnologia finalmente disponibile (e felicemente massificata) stanno procedendo a rendere evidente il fenomeno del plagio. È nato addirittura un “movimento plagiarista” che fa capo a John Oswald, conosciuto anche al grosso pubblico per aver composto Spectre, cavallo di battaglia del Kronos Quartet inserito anche nel cd del ‘93 intitolato “Short Stories” (i quattro archi fingono inizialmente di ‘accordarsi’ su di un bordone, quasi cercando il suono unico caro a Giacinto Scelsi). Oswald è l’inventore della ‘plunderfonia’, definita come «tecnica e filosofia dell’appropriazione» ovverossia dell’uso del campionatore e della tecnica del montaggio con finalità creative. Le fonti di Oswald sono eterogenee: da Beethoven e Liszt fino ai Beatles, attraversando il jazz. Il compositore canadese è diventato notissimo nell’ambito della musica sperimentale dopo aver prodotto nel 1989 un cd in soli mille esemplari intitolato proprio “Plunderphonic” sulla cui copertina campeggia un’immagine rimaneggiata di Michael Jackson. L’etichetta di Jackson, la CBS, ne chiese naturalmente subito il ritiro, scatenando la circolazione clandestina di cassette e provocando un effetto boomerang di notorietà intorno al lavoro di Oswald (V. Barone, in No@copyright). Come si può dedurre dalla lettura della sua biografia, reperibile facilmente in rete, l’atteggiamento semiserio e satirico del canadese ne fanno un personaggio certamente interessante, la cui produzione è tuttavia ancora considerata ‘di nicchia’.

L’altro aspetto del plagiarismo è l’invito a produrre in modo anonimo, rinunciando al pregiudizio di proprietà apposto dall’autore, alla paternità dell’opera, oppure liberalizzandone l’uso. Qui, ancora una volta, la musica presenta molteplici aspetti in comune con le tematiche dell’hackerismo. È  il caso, ad esempio, del Luther Blissett Project, formato da musicisti che in questo ambito mantengono l’anonimato sul loro apporto ai progetti musicali (come del resto accade anche per gli altri tronconi ‘made in Blissett’), che può essere definito come un situazionismo musicale, prevalentemente divulgato via internet nel formato di compressione Mp3. Il gruppo si colloca in ambito dance, elettronica, sperimentale e si dichiara vicino all’operato di Darko Maver, Evolution Control Committee, John Oswald, dei Negativland.

Tra questi musicisti, l’operato di Darko Maver (Krupanj, Slovenia) lo posiziona subito nelle pieghe della musica sperimentale e politica, rendendolo un riferimento obbligato. L’eclettico artista assume via via parecchi soprannomi, tra cui quelli di “Trax 0487” e “Jaroslav Supek”, e realizza copertine di dischi, istallazioni, sculture, frammenti di parlato (discorsi di natura politica) mescolati a suoni e rumori, finché non scompare prematuramente nel 1999.

Tra gli italiani seguaci del movimento plagiarista e della filosofia ‘plunderphonica’ di John Oswald c’è Giustino Di Gregorio, conosciuto nel ‘95 con lo pseudonimo ‘sprut’, che ha pubblicato per l’etichetta di Zorn, la Tzadik, un disco intitolato sempre  “Sprut”. Tra i gruppi, invece, vicini all’anonimato predicato dal Luther Blissett Project sono i FerrariStationWagon.

 

Copyleft

La linea teorica che ispira il movimento plagiarista ha alcuni tratti in comune con quella che proviene da BenjaminTucker. Partendo da presupposti anarchici, cioè libertari ed antistatalistici, Tucker  ipotizza che se la proprietà privata fosse stata godibile da più persone contemporaneamente, essa non sarebbe esistita in quanto tale, ma sarebbe stata percepita come senza alcun problema cosa in ‘comune’. Poiché nel caso di oggetti materiali ciò non era evidentemente possibile, fu instaurato un regime convenzionale di regole che difendessero la proprietà ed il suo godimento nella pienezza del possesso. Questo tipo di argomentazione (la consistenza oggettiva delle cose) non garantisce egualmente la proprietà sull’opera d’ingegno e sull’opera d’arte. Difatti queste ultime sono tranquillamente fungibili da più persone contemporaneamente senza danno per alcuno. Il regime del diritto d’autore, concepito a soli fini economici (tanto è vero che è un regime a durata limitata), finisce così per impedire la libera concorrenza. Il copyright si trasforma in un vincolo capace di impedire la libera circolazione delle idee ed il loro miglioramento a fini di pubblica utilizzazione.

La tesi di Tucker, affascinante, non impedisce tuttavia di rilevare che un regime completamente libertario finirebbe col favorire la scomparsa del professionismo musicale, cosa auspicata da Fluxus e da alcuni suoi esponenti come altamente liberatoria,  i cui esiti sarebbero tuttavia da verificare (una nuova capillare diffusione della musica, oppure una rinnovata barbarie in cui prevale soltanto l’aspetto più ‘divulgativo’ della ricerca e della produzione?).

Per tornare allo specifico del plagio, ulteriori argomentazioni teoriche a favore della liberalizzazione del diritto di utilizzo dei materiali, principio senza il quale verrebbe a mancare una spiegazione convicente del fenomeno, sono sia filosofiche che tecniche e giuridiche. Joost Smiers riporta l’opinione di Jacques Soulillou secondo il quale «“La ragione per la quale è difficile produrre la prova di plagio nel campo dell’arte e della letteratura sta nel fatto che non basta soltanto dimostrare che B si è inspirato ad A, senza citare eventualmente le sue fonti, ma bisogna anche provare che A non si è ispirato a nessuno. Il plagio suppone infatti che la regressione di B verso A si esaurisca lì, perché si arrivasse a dimostrare che A si è inspirato, e per così dire ha plagiato un X che cronologicamente lo precede, la denuncia di A ne risulterebbe indebolita”». Smiers continua immaginando un caso tipico di plagio: «Immaginiamo che una persona copi il lavoro di un altro artista, asserisca che è suo e lo firmi. Se non c’è né rielaborazione, né commento culturale, né aggiunta, né traccia di creatività, si tratta evidentemente di un vero e proprio furto che merita di essere sanzionato. A questo punto, l’obiettivo dovrebbe essere la creazione di un nuovo sistema che garantisca agli artisti dei paesi occidentali e del terzo mondo redditi migliori, che si apra in modo ampio a un dibattito pubblico sul valore della creazione artistica, che si preoccupi del miglioramento del livello culturale del pubblico, che spezzi il monopolio delle industrie della cultura, le quali vivono sul sistema dei diritti d’autore». La tesi Soulillou/Smiers condurrebbe alla creazione di un sistema più equo che garantisca la possibilità di utilizzazione a fini creativi, sanzionando la contraffazione ma tutelando le debolezze di ‘singolarità selvagge’’ nei confronti delle major discografiche.

Dal punto di vista delle tecniche musicali, il problema del plagio potrebbe in fondo essere risolto abbastanza facilmente; basterebbe infatti compilare una sorta di ‘prontuario’ che utilizzando gli strumenti messi a disposizione dalle più evolute teorie d’analisi musicali consenta di individuare i cosiddetti ‘materiali oggettivi’ (e ‘comuni’) e di discriminare tra plagio tipico e artistico.

Come abbiamo visto, l’evoluzione dello stile, delle forme e dei generi musicali, se guardata al microscopio con gli strumenti dell’analisi, rivela una infinità di concordanze sospette, tanto da farci pensare che sia possibile individuare alcuni tratti e procedimenti comuni nell’uso delle melodie e delle armonie. Queste formule vengono sentite come un essere-in-comune, al quale accedere liberamente. Il problema giuridico potrebbe essere risolto proprio facendo ricorso al prontuario delle ‘figure musicali ripetute’, che apparterrebbero a tutti. L’elenco andrebbe a costituirsi, quindi, come termine di comparazione oggettiva.

Un contributo fondamentale e di indirizzo ad un eventuale lavoro del genere è stato offerto dai ricercatori della Stanford University che hanno pubblicato per il MIT un ponderoso studio sulle cosiddette “similarità melodiche”. Molte altre forme e figure vengono poi già considerate ‘libere’ da secoli, e cioè quelle che diventano modi identificativi di un genere o di una scuola, il Basso Albertino, il “Sospiro di Mannheim” (Diciottesimo secolo); e ancora: salti tematici frequenti (che individuano tipi di armonizzazione melodica); modulazioni convenzionali;  imitazioni e progressioni di scuola; formule cadenzali ...

Altre vie di fuga per un diritto di libera utilizzazione si creano grazie ad alcuni vuoti legislativi, oppure a causa di alcuni casi fortuiti che nascono dal rapporto tra diritti, laddove sia possibile gerarchizzarli. Alcune figure giuridiche che non individuano violazione ricorrono in caso di plagio involontario, quando quest’ultimo riguarda elementi tecnici dell’opera (passaggi obbligati) oppure elementi che appartengono al patrimonio intellettuale comune. Altro aspetto giuridico che offre una possibilità di libero utilizzo di frammenti musicali è di tipo squisitamente tecnico, e consiste nella protezione della proprietà intellettuale. Quest’ultima, a fronte di alcune direttive comunitarie sulla creazione e tutela di banche dati elettroniche non sembra potersi esaurire nell’ambito del diritto d’autore: «l’impressione che si ottiene scorrendo la direttiva è che la matrice concettuale originaria, che fa leva sul carattere reale della proprietà intellettuale, abbia definitivamente abdicato in favore di regole che si rifanno direttamente alla disciplina della concorrenza, dove rileva in via diretta la tutela dell’impresa ovvero dell’investimento economico realizzato in vista della produzione di beni o servizi» (F. Macario). Basterebbe estendere tale concetto, spogliarlo del carattere economicistico e rivestirlo di quello della gratuità per ottenere il libero veicolarsi delle informazioni, almeno di quelle in abstract o indicizzate.

Infine, la tecnica del campionamento (ed in generale tutte le nuove tecniche sorte grazie allo sviluppo dei mezzi elettronici) potrebbe offrire una ulteriore possibilità di liberalizzare i diritti collegati all’opera musicale, purché gli utilizzatori a fini creativi si dimostrino disponibili a rinunciare a parte della qualità audio (e generalmente lo sono, perché comunque i frammenti audio vengono poi generalmente resi irriconoscibili). Infatti, nel campionamento l’ampiezza del segnale, raccolta da un microfono, viene prelevata a determinati intervalli di tempo. Meno frequente è il ‘prelievo’, peggiore sarà la qualità del suono campionato. E’ del tutto evidente che sia i suoni a bassa qualità di campionamento che le musiche compresse attraverso algoritmi potrebbero sottostare a un regime giuridico differente, di maggiore libertà di utilizzo, in ragione della loro scarsa qualità. Si potrebbe arrivare a concepire un sistema misto, laddove per ragioni promozionali un autore o una casa discografica desiderassero promozionare un brano o una compilation, rendendo possibile l’uso e l’accesso a frammenti  in piena disponibilità di quanti vogliano manipolarli in modo creativo. Potrebbe essere un compromesso ragionevole, una soluzione al problema della pirateria ‘creativa’ e la naturale evoluzione del fenomeno del ‘plagio’.

 

 



[1]È noto che, come spesso accade nella storia della musica e in quella della cultura universale, non fu Schönberg il vero inventore della dodecafonia, anche se fu il primo ad appropriarsene con la forza del caposcuola e dell’esteta. Già Busoni nel 1906 anticipava certi procedimenti dodecafonici; nel 1908 Joseph Mathias Hauer concepiva stilemi dodecafonici e ne dava una formulazione nel 1920. Altri precursori furono Klein ed Eimert.

[2] T. MANN, Lettere, scelta e traduzione di I. A. Chiusano, Milano 1986, Mondadori, p. 675. D’ora in poi LE. Mann in una lettera a Maximilian Brantl del 26 dicembre 1947 così definisce questa caratteristica del suo romanzo: «(...) il Doctor Faustus, poi, (...) è il vero e proprio romanzo su Nietzsche, a paragone del quale quel saggio non è che small talk, una chiacchieratina». Nietzsche muore a 56 anni, mentre Adrian Leverkühn, nato nel 1885 e morto nel ‘40, verrebbe a morire a 55 anni.

[3] T. MANN, Doctor Faustus, Milano 1980, Mondadori, p. 696. D’ora in poi DF.

[4] DF, p. 697.

[5] R. FERTONANI, in nota a DF, p. 866.

[6] A. SCHÖNBERG, Manuale di armonia, Milano 1963, Il Saggiatore, pp. 7-13. D’ora in poi MA.

[7] MA, p. 397. Cfr. anche MA, p. 25: «(...) perché nel sistema temperato, che è solo un espediente per soggiogare le difficoltà del materiale, le analogie con la natura sono pochissime. Ciò è forse un vantaggio, ma non certo un privilegio».

[8] LE, p. 681.

[9] L. ROGNONI, in prefazione a MA, pp. XIII-XIV.

[10] Si pensi che Mann, in una lettera del 6 maggio ‘43 indirizzata a Bruno Walter, si informa circa la formazione professionale di un compositore, non avendone idea alcuna, e domanda addirittura consiglio su quale manuale di composizione leggere, concludendo: «Del resto meglio chieder consiglio a Schönberg» (LE, p. 510). E, nel ‘Romanzo di un romanzo’ : «(...) tutte quelle prese di contatto (...)», etc. (LE, p. 727).

[11] In senso generale, la partizione orizzontale/verticale dell’armonia è teorizzata per evidenziare due prospettive differenti, quella dello sviluppo contrappuntistico o orizzontale, che dà una sua autonomia tematica alle voci; quella più prettamente armonica o verticale. Genericamente, la tensione armonica dovrebbe prodursi dal rapporto tra le due dimensioni. In senso più specifico, Mann si riferisce probabilmente alla propensione di Schönberg  a verticalizzare l’armonia (cioè a dedurre dall’accordo gli elementi tematici fondamentali di un brano), un procedimento esposto già nel Manuale d’armonia. Schönberg cerca una diversa ragione connettiva tra gli accordi una affinità e complementarietà che non sia limitata alla semplice conseguenzialità logica della serie. Cfr. anche G. TURCHI, in DEUMM, voce ‘Armonia’.

[12] LE, p. 686.

[13] LE, p. 690.

[14] LE, p. 716.

[15] LE, p. 717.

[16] LE, p. 764.

[17] LE, p. 768.

[18] LE, p. 764.

[19] LE, p. 840. Una spiegazione del comportamento di Schönberg può forse essere quella suggerita da Vittorio Rieti, che lo conobbe a Vienna nel 1921: «Il contrasto fu alimentato, o meglio determinato, da Alma Mahler dalla quale Schönberg fu indotto a ritenere che il fatto che Mann, nel suo romanzo, si fosse ispirato a lui stesso per il personaggio del musicista Adrian Leverkühn e per le sue teorie musicali, non doveva considerarsi un privilegio e un onore ma un plagio. Schönberg purtroppo si lasciò convincere e reagì nel peggiore dei modi rifiutandosi persino di leggere quel capolavoro» (F.C. RICCI, Vittorio Rieti, Napoli 1987, Edizioni Scientifiche Italiane, p. 250). Dello stesso parere anche Glenn Gould che precisa che Schönberg, a causa dei suoi disturbi alla vista, non lesse mai il Faustus: «se lo avesse fatto avrebbe capito che tema del romanzo non erano la sua opera e la sua persona ma, in modo allegorico, il crollo del mondo tedesco postguglielmino. Si fidò invece delle chiacchiere di due emerite pettegole, sua moglie Gertrud e Alma Mahler-Werfel (...)» (G. GOULD, L’ala del turbine intelligente, Milano 1988, Adelphi).

[20] DF, p. 260.

[21] DF, p. 261.

[22] T. MANN, La genesi del Doctor Faustus, in calce a DF, p. 730.

[23] T.W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, Torino 1980, Einaudi, p. 66. D’ora in poi FMM.

[24] Mann ci tenne a precisare in più riprese che il suo personaggio non aveva nulla a che vedere con Schönberg, quale uomo. Ciò non vale naturalmente per la sua musica, produzione basata sul sistema dodecafonico e che in qualche modo segue quella reale di Schönberg, come già in altra sede si è dimostrato (Cfr. G. DE SIMONE, Le parole sospese, Napoli 1988, Edizioni Scientifiche Italiane).

[25] DF, pp. 99-100.

[26] oluc.

[27] oluc.

[28] FMM, p. 87.

[29] oluc

[30] oluc

[31] DF, p. 872.

[32] MA, p. 392. In questa frase già risiedevano  le future obiezioni relative all’eccesso di casualità nella costruzione di brani sperimentali la cui unica aspirazione risultava quella di essere all’avanguardia a tutti i costi.

[33] FMM, p. 94.

[34] T. MANN, Genesi..., op. cit., p. 793.

[35] DF, p. 110.

[36] DF, p. 875.

[37] MA, p. 528.

[38] DF, p. 261.

[39] FMM, p. 66.

[40] DF, p. 354.

[41] T. MANN, Genesi..., op. cit., p. 850

[42] DF, p. 624.

[43] DF, p. 670.

[44] DF, p. 511.

[45] FMM, p. 100.

[46] DF, p. 511.

[47] MA, p. 37.

[48] MA, pp. 72-73

[49] MA, pp. 30-31.

[50] Altrove si è dimostrato che la nozione di ‘entropia’, se applicata all’estetica, non conduce necessariamente all’idea di morte dell’arte.

[51] Ciò accade in T.W. ADORNO, Teoria estetica, Torino 1977, Einaudi, laddove l’arte appare come forma di reazione che anticipa l’apocalisse (p.9), vittima dell’ideale del nero (p. 69) che fa disperare di un’inversione sintropica. L’idea è poi presente in T.W. ADORNO, Minima moralia, Torino 1975, pp. 33,143, 198, 200 ss.

[52] Ciò si desume da MA, pp. 37-38.

[53] FMM, p. 134.

[54] FMM, p. 126.

[55] FMM, p. 123, in nota.

[56] DF, p. 264.

[57]T.W. ADORNO, Minima moralia, op. cit., p. 287.

[58]Altra accezione è quella kantiana, come scienza delle regole di una sensibilità in generale. Sul legame tra le due concezioni cfr. D. FORMAGGIO, “Estetica”, in A.A.V.V., Filosofia, Milano 1966, Feltrinelli, p. 63.

[59]Questa assonanza  tra opera, ricerca e possibilità (di qualità), in relazione a Musil è rilevata anche da L. NONO, Verso Prometeo,  Milano 1984, Ricordi, p. 11; e da Massimo Cacciari, ibid., p. 84.

[60]Apparentemente contrario M. TUTINO, “Costruirsi un ruolo”, in Annuario musicale italiano, quarta ediz., vol. I, Roma 1989, p. 338: «un altro dato curioso è la rinnovata attenzione alla musica rivalutando l’importanza dei ‘generi’». Qui i ‘generi’ vanno intesi come ‘speciÈ sinfonica, cameristica, pianistica.

[61]Rispetto all’apertura di campi di possibilità ci si riferisce ad una mera possibilità combinatoria che può evidentemente favorire, in condizioni di maggiore ampiezza strutturale e grazie alla presenza di più eventi, una più ampia apertura verso sistemi diversi, e perciò stesso superiori.

[62]Certo non propendendo verso le note  posizioni sull’ artigianato musicale: così C. LAGO, “Quell’abile e visionario artigiano”, in Annuario Musicale Italiano, cit. p. 337

[63]Che si sia  già tentato di storicizzare quanto dovrebbe più propriamente essere ancora considerato ‘contemporaneo’ è dimostrato, ad esempio, dal volume di  D. TORTORA, Nuova Consonanza, Firenze 1991, LIM: qui l’intento (auto)celebrativo, in fondo principiato col primo festival intitolato ad Evangelista, raggiunge l’apice, e manifesta anche la debolezza di ogni ‘gruppo’ che si istituzionalizza, si rende apologetico, si cristallizza nel già compiuto. Si cade così in una vera e propria crisi di rappresentanza.

[64]M. DALL’ONGARO, “La Tigre di Carta”, in  Piano-Time anniversario, Settembre 1991.

[65] Ci si riferisce ai dati CIDIM, al progetto ITACO, a numerosi altri materiali di diretta acquisizione (interviste, conversazioni ed altro).

[66]Da una intervista concessa all’autore nel 1982, poi pubblicata in più riprese su quotidiani e settimanali napoletani.

[67]A.A.V.V., “Avanguardia e ricerca musicale a Napoli negli anni ‘70”, programma della manifestazione, Napoli 1981.

[68]«A Napoli non c’è spazio per la composizione, c’è poca avanguardia, anche per la scarsa presenza di interpreti specializzati», F. DI LORENZO in una intervista rilasciata all’autore, poi pubblicata dal quotidiano NapoliNotte, Febbraio 1984.

[69]Una descrizione significativa della crisi del linguaggio è quello tracciata da F. RELLA, in  Il silenzio e le parole, il pensiero nel tempo della crisi, Milano 1988, Feltrinelli. Cfr. anche M. CACCIARI, Krisis, Milano 1979, Feltrinelli.

[70]In questa direzione anche M. TUTINO, “Costruirsi un ruolo”, cit., p. 338: « (...) esigenza (...) che si può riassumere sinteticamente nella fiducia, anche a costo di una certa cecità, nei valori interni delle singole espressioni artistiche, e nel rifiuto di dare per scontata la morte di uno qualsiasi dei generi possibili». E nella medesima posizione appare la maggior parte delle voci interpellate nel progetto curato dall’Editore Flavio Pagano sulle  Autanalisi dei compositori italiani.

[71]Nel celebre articolo “Schönberg è morto”, Boulez si riferisce alla parola ‘struttura’: «a partire dalla generazione degli elementi componenti fino all’architettura globale di un’opera. Tutto sommato, una logica di ingeneramento tra le forme seriali propriamente dette e le strutture derivate è rimasta assente (...) dalle preoccupazioni di Schönberg » (in A.A.V.V., Storia della musica, Torino 1980, p. 206). È  forse opportuno segnalare che Schönberg si considerò sempre più compositore che teorico, e che spesso si dichiarò incapace di definire anche soltanto ‘dodecafonichÈ certe sue opere.

[72]G. PIANA, Filosofia della musica, Milano 1991, Guerini e associati

[73] B. CROCE, Estetica, Milano 1990, Adelphi, p. 6.

[74]Oluc.

[75]B. CROCE, op. cit., p. 130.

[76]B. CROCE, op. cit., p. 21.

[77]B. CROCE, op. cit.,  p. 15.

[78]U. ECO, “L’Estetica di Croce”,  in La rivista dei Libri, n. 7, Ottobre 1991

[79]B. CROCE, op. cit., p. 32.

[80]B. CROCE, op. cit., p.13.

[81]B. CROCE, op. cit., p. 110.

[82]E. FUBINI, L’estetica musicale dal Settecento a oggi, Torino 1968, Einaudi, p. 209.

[83]B. CROCE, op. cit., p. 145.

[84]Oluc.

[85] Lettera di Bastianelli a Croce, in M. DONADONI OMODEO, Giannotto Bastianelli, lettere e documenti editi e inediti (1883-1915),  Firenze, MCMLXXXIX, Leo Olschki Editore , pp. 147-148

[86] G. BASTIANELLI, La musica pura, commentari musicali e altri scritti,  a cura di M. Omodeo Donadoni, Firenze, MCMLXXIV, Leo Olschki Editore , pp. 352 ss

[87] Lettera di Bastianelli in  M. DONADONI OMODEO, Giannotto  Bastianelli Lettere e documenti editi e inediti  (1915-1927), Firenze, Leo Olschki Editore MCMXCII, p. 132.

B. CROCE, Estetica,  Milano, Adelphi 1990, p.  6.

[88] Cfr. G. DE SIMONE, Le parole sospese o del silenzio in arte, Napoli 1988, Edizioni Scientifiche Italiane.

[89] Citato in A.A.V.V., Giacinto Scelsi, Viaggio al centro del suono, a cura di P.A. Castanet e N. Cisternino, LunaEditore.

[90]Ad esempio, in ‘Invecchiamento della musica moderna’, dapprima conferenza e poi saggio del nostro, c’è questa frase: «Già c’è da dubitare che duecento anni fa l’oblio di Bach e il sopravvento del nuovo stile galante fossero realmente una reazione sana e un fatto positivo, come viene per lo più interpretato nella storia della musica» (in T.W. ADORNO, Dissonanze, Milano 1981, Feltrinelli, p. 159). Peccato che qui poco c’entri la storia della musica: Bach moriva nel 1750, ma dopo la morte veniva pubblicata l’Arte della Fuga, il figlio Emmanuel stampava il trattato sulla vera arte di suonare il cembalo, enumerando e raccontando in realtà gli insegnamenti del padre. I numerosi allievi di Bach diventavano abili organisti o maestri di cappella. Tenendo conto che l’epoca non era ancora asfissiata dalla supponenza del concetto di repertorio, si può ben dire almeno che l’oblio sia cominciato un po’ più tardi. Che le cronologie e le letture trasversali non siano il forte di Adorno è suggerito anche dal fatto che lo stile galante si affermò ben prima della morte di Bach, nel 1730 circa e che, anzi, dopo  la sua dipartita acquistò proprio con il figlio di Bach un carattere di maggiore espressività.

[91]Alcune di queste incoerenze sono segnalate in G. DE SIMONE, Manuale del mancato virtuoso, Napoli 1993, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 70 ss. ( in relazione ad alcune affermazioni contenute in Terminologia filosofica ), pp. 74 ss. (in relazione alle inesattezze collocate in Prismi ). Altri percorsi, non necessariamente così critici, sono in  G. DE SIMONE, Le parole sospese, Napoli 1988, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 41 ss.

[92]Ad esempio, il discorso sulla verità dell’arte, e sulla possibilità concreta della sopravvivenza dell’incanto ricorre in più punti dell’estetica, specie dove Adorno si riferisce all’utopia della costruzione. Qui ritorna l’idea di una perdita di tensione dell’arte, dovuta sia alla soggettiva debolezza che all’effetto della costruzione, la quale si traduce nello sforzo di giungere a qualcosa di «estensivamente normativo» (T.W. ADORNO, Teoria estetica, Torino 1977, Einaudi, p. 98). Si ripresenta l’idea del movimento causato dallo scontro tra l’incanto proprio dell’opera e il disincanto del mondo, che tuttavia non può mai essere cancellato (p. 99). I temi della verità dell’arte e della perdita di tensione dell’opera ricorrono in modo simmetrico: a p. 91: «la totalità alla fine inghiotte la tensione»; poco più avanti si espone la verità dell’arte nel duplice senso di mantenimento di certi fini e di prova dell’irrazionalità del vigente. A ciò corrisponde quanto detto a p. 99: «l’attuale perdita di tensione dell’arte costruttiva non è solo prodotto di soggettiva debolezza bensì effetto dell’idea di costruzione»; e poco avanti, l’arte «ha verità in forza della critica che mediante la sua esistenza esercita sulla razionalità divenuta ai propri occhi un assoluto». La struttura si ripropone ancora a p. 140: «l’arte oggi non è quasi più pensabile altrimenti che come la forma di reazione che anticipa l’apocalissi. A un più vicino sguardo anche creazioni artistiche di calma gestualità sono uno scaricarsi non tanto delle emozioni accumulate dal loro autore quanto alle forze che nelle opere stesse si combattono»; e, sulla verità: «Quando un inesistente spunta come se fosse esistente, si mette in moto la questione della verità dell’arte». Tutto ciò, ma è una piccola selezione di risultati da rendere noti in sedi più idonee, fa pensare all’esistenza di cellule strutturali ripetute ed intrecciate con altre, vere e proprie variazioni su temi, quali l’allergia dell’arte alla magia, la sua lontananza dalla teologia, l’ideale del nero, la dissoluzione del sociale, la similitudine tra questa disgregazione e l’entropia dell’arte. Questa metodologia, l’itineranza e la reiterazione di cellule, pare confermare la possibilità che le opere di Adorno seguano un principio di costruzione strutturale che rispecchia il suo snobismo estetico: l’esoterismo della scrittura musicale si contrappone all’exoterismo tipico delle opere facilmente e «falsamente» fruibili. Queste strutture microscopiche provano altresì l’esistenza di uno schema formale piuttosto solido, anche se accuratamente celato.

[93]Ad esempio, in Minima moralia (Torino, 1979, Einaudi) il tema dell’ entropia ricorre ciclicamente a pag. 33, 143, 198, 260-287; quello di individuo a pag. 129, 175 e 177-181, 190, 278. E così via...

[94]«Così, in questo secolo, non c’è biologia ma una storia naturale che forma un sistema solo organizzandosi in serie; non c’è economia politica ma un’analisi delle ricchezze; non filologia o linguistica ma una grammatica generale» (G. DELEUZE, Foucault,  Firenze 1987, Feltrinelli, p. 126)

[95]Per Deleuze/Foucault, strategia è un diagramma di forze o di singolarità interne ai rapporti di forza; essa è presente ad ogni strato atmosferico del «fuori». E il «fuori» ha un al-di-sotto, che è quello delle singolarità microfisiche. Le strategie sono aree, contrariamente alla stratificazione, proprie della terra. Esistono poi singolarità selvagge, «non ancora legate, anch’esse sulla linea del fuori e che ribollono proprio al disotto dell’incrinatura». È la linea di Melville «oppure la linea di Michaux» (G. DELEUZE, cit., pp. 122-123). Difatti, per Michaux: «come nel Mondo ci sono anfrattuosità, sinuosità, come ci sono cani randagi/ una linea, una linea, più o meno una linea.../ In frammenti, in cominciamenti, colta di sorpresa, una linea, una linea.../ ...una legione di linee» (H. MICHAUX, Brecce, Milano 1984, Adelphi, p. 190). Le linee, pertanto, hanno un fuori e un dentro, costituito dalle pieghe, dagli anfratti del piano.

[96]A. SCHOENBERG, Manuale di armonia,  Milano 1980, Il Saggiatore, pp. 34 ss.

[97] Uno sviluppo con intuizioni geniali, naturalmente, ma che della linea mantiene la direzione, curandosi poco di un’altra possibilità, quella dell’esplosione del piano per migliaia di punti in fuga. Una sorta di ‘costellazione’, per fare il verso ad Adorno, che però può essere metaforizzata attraverso la forma della spirale.

[98] Vale la pena di precisare che quella arborescente è una struttura gerarchica: «I modelli corrispondenti sono tali che un elemento non vi riceve le sue informazioni se non da un’unità superiore, e una destinazione soggettiva, da collegamenti prestabiliti» (G. DELEUZE - F. GUATTARI, Mille piani, vol. I, Roma 1987, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da G. Treccani, p. 23.)

[99] Con la Real World.

[100] Celluloid, 1983.

[101] Gruppi che si trasmettono l'arte di uno strumento da padre a figlio.

[102] È un liuto a più corde, dal suono simile a quello di un'arpa.

[103] Arion 64036;  64070.

[104] Arion ARN 64112.

[105] Arion ARN 64055.

[106] Arion ARN 64016.

[107] Playa Sound PS 65101, PS65034.

[108] Playa Sound PS 65104; PS 65085.

[109] Rispettivamente Playa Sound PS 65009, PS 65074; Auvides D8029.

[110] Ducale, CDL 012.

[111] Una sorta di doppio tamburo in legno e rame.

[112] Arion ARN 64277.

[113] D 8033.

[114] Arion ARN 64081.

[115] Arion ARN 64077.

[116] Arion ARN 64063.

[117] Arion ARN 64057.

[118] Narada 3912.

[119] Gourd Music.

[120] Narada 2755.

[121] Forse Dave Holland, ma il nome non viene indicato.

[122] Narada 3014.

[123] Narada 3908.

[124] Y 225002, Y 225037.

[125] Silex Y 225007.

[126] Naturalmente non si intende qui demonizzare il mercato come ancora fa tanta estetica di derivazione francofortese.

[127] Narada 3754.

[128] Narada 2763.

[129] Narada 3023.

[130] È un fiato ad ancia.

[131] Music West 134.

[132] Narada 2756.

[133] Narada 2762.

[134] Narada 3022.

[135] Ocora C 558661.

[136] Silex Y 225039.

[137] Ocora C 580037.

[138] Dallo smembramento del maschio primordiale Purusha.

[139] Le Chant du Monde LDX 274 910.

[140] Arion ARN 64045.

[141] Il già citato Unesco/Auvidis D 8033.

[142] Musique du Monde 82493-2.

[143] Si tratta di uno strumento a quattro corde con una curiosa cassa armonica aperta.

[144] ARN 64078.

[145] Ocora C 580016.

[146] Ocora C559011.

[147] Le Chant du Monde CMT 274978.

[148] Auvidis/Unesco D 8301.

[149] Ocora C 560059.

[150] Auvidis/Unesco D 8015.

[151] Arion ARN 64233.

[152] Rispettivamente Arion ARN 64159 e Arion ARN 64061.

[153] Auvidis/Unesco D 8204.

[154] Arion ARN 64095.

[155] Playa Sound PS 65054.

[156] Ocora C 559 057.

[157] Playa Sound PS 65074.

[158] Accord 200612.

[159] Accord 201112.

[160] Harmonia Mundi SCD8904-5.

[161] FYCD 119.

[162] Radio France/Adda 581189.

[163] Elektra Nonesuch  7559-79282-2, ed Emi 7243 5 55368 2.

[164] Argo 436 835-2.

[165] Elektra Nonesuch 7559-79348-2.

[166] ECM 1505.

[167] E. FUBINI, Estetica della musica, Bologna 1995, Il Mulino.

[168]T.W. ADORNO, Minima moralia, Torino 1954, Einaudi, p. 4.

[169]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 5.

[170]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 6.

[171]T.W. ADORNO, o.l.u.c.

[172]Il potere, tuttavia, rifiuterà i caratteri di assolutezza e universalità.

[173]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, Torino 1970, Einaudi, p. 290.

[174]Per Adorno v’è anche una parte di verità in ciò, possibile d’esempio con Karl Kraus, notoriamente legato a Vienna.

[175]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 291.

[176]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 292.

[177]T.W. ADORNO, o.l.u.c..

[178]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 280.  

[179]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 292.

[180]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 293.

[181]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 293.

[182] F. JAMESON, Tardo marxismo, Roma 1994, manifestolibri, p. 16.

[183]T.W. ADORNO in W. BENJAMIN, Uomini tedeschi, Milano 1992, Adelphi.

[184]M. FOUCAULT, Volontà di sapere, Milano 1984, Feltrinelli, p. 81.

[185]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 277.

[186]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 277.

[187]T.W. ADORNO, o.l.u.c..

[188]T.W. ADORNO, o.l.u.c.

[189]Contro il positivismo, ed i rimproveri che questo rivolge al pensiero, cfr. T.W. ADORNO, Minima moralia, op. cit., p. 148.

[190]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 278.

[191]Il concetto di ‘totalità’ è almeno duplice in Adorno. Ad esempio, sui rapporti fra totalità  e social research, cfr. ADORNO, in VARI, Dialettica e positivismo in sociologia, Torino 1972, Einaudi, pp. 96 ss.

[192]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 279.

[193]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 126.

[194]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 128.

[195]ISTITUTO PER LA RICERCA SOCIALE DI FRANCOFORTE, Lezioni di sociologia, a cura di M. Horkheimer e T.W. Adorno, Torino 1966, Einaudi, p. 58.

[196]T.W. ADORNO, Minima moralia,  op. cit, p. 150.

[197]ISTITUTO PER LA RICERCA SOCIALE DI FRANCOFORTE, Lezioni di sociologia, op. cit, p. 58.

[198]K. MARX, Democrito e Epicuro, dissertazione dottorale del 1841, Firenze 1979, La Nuova Italia editrice.

[199]La repulsione è quella dalla declinazione; perciò essa è formale e materiale allo stesso tempo. Tutti i frammenti sono tratti da K. MARX, Democrito ed Epicuro, op. cit., pp. 43 ss.

[200]ISTITUTO PER LA RICERCA SOCIALE DI FRANCOFORTE, Lezioni di sociologia, op. cit., p. 59.

[201]K. MARX, Democrito e Epicuro, op. cit., p. 43.

[202]ISTITUTO PER LA RICERCA SOCIALE DI FRANCOFORTE, Lezioni di sociologia, op. cit., p. 61.

[203]Difatti la vera matrice sembra essere proprio  kantiana, come messo in rilievo da O. WEININGER, Sesso e carattere, Pordenone 1992, Edizioni Studio Tesi, p. 222: «...solo chi sente che l’altro uomo è anch’esso un io, una monade, un distinto centro del mondo con un modo particolare di sentire e di pensare e con un particolare passato, sarà per ciò stesso immune dall’utilizzare l’altro semplicemente come mezzo per uno scopo. Egli, conformemente all’etica kantiana, sentirà anche nell’altro la presenza della personalità (come parte del mondo intelligibile), e pertanto la onorerà, e non ne sarà soltanto contrariato. Condizione psicologica fondamentale di ogni altruismo pratico è quindi l’individualismo teorico. E’ dunque qui che si trova il ponte che dal comportamento morale verso se stessi conduce al comportamento morale verso l’altro, quella mediazione la cui mancanza nella filosofia di Kant fu considerata a torto da Schopenhauer come un difetto di questa, e che fu intesa come una sua necessaria insufficienza, radicata nei suoi principi sostanziali».

[204]Intervista rilasciata  a Gérard Raulet , pubblicata su «Telos» nel 1983 col titolo Structuralism and Post-Structuralism.

[205]FOUCAULT-RAULET, Structuralism and Post-Structuralism, in «Telos», op. cit.

[206]VARI, Adorno e Foucault, Palermo 1990, Ila Palme. E’ qui possibile reperire la traduzione italiana dell’intervista citata nel testo.

[207]VARI, o.u.c., p. 164,

[208]VARI, o.u.c., p. 163.

[209]VARI, o.u.c., p. 164.

[210]VARI, o.u.c., p. 163.

[211]VARI, Adorno e Foucault, op. cit., p. 168.

[212]M. FOUCAULT, La verità e le forme giuridiche , Napoli 1991, privo di edizione.

[213] Questo controllo è svolto con l’aiuto di forme di potere parallele o, in altro senso, di contropotere.

[214]T.W. ADORNO, Scritti sociologici, Torino 1976, Einaudi, p. 59.

[215]VARI, Dialettica e positivismo in sociologia, Torino 1972, Einaudi, p. 86.

[216]VARI, o.u.c., p. 102.

[217]VARI, o.l.u.c.

[218]P. DEWS, in VARI, Adorno e Foucault, op. cit.

[219]M. BLANCHOT, Michel Foucault come io l’immagino, Genova 1988, Costa & Nolan, p. 39.

[220]M. FOUCAULT, o.u.c., p. 80.

[221]G. DELEUZE, Foucault,  Milano 1987, Feltrinelli, p. 75.

[222]G. DELEUZE, Foucault, op. cit. , p. 75.

[223] M. FOUCAULT, La volontà di sapere, op. cit., p. 82.

[224]Ma forse già qualsiasi  insieme che rimanda ad altro da sé è in fondo metafisico.

[225]M. FOUCAULT, Nietzsche, la genealogia, la storia, Torino 1977, Einaudi, p. 39.

[226]M. FOUCAULT, o.u.c., p. 38.

[227]M. FOUCAULT, La volontà di sapere, op. cit., p. 84.

[228]G. DELEUZE, Foucault,  op. cit., pp. 112-113.

[229]Questa  distinzione può desumersi da M. FOUCAULT, La volontà di sapere, op. cit., p. 81.

[230]M. FOUCAULT, Poteri e strategie, in “Aut-Aut”, n. 164, 1978.

[231]M. FOUCAULT, La volontà di sapere, op. cit., p. 80.

[232]G. DELEUZE, Foucault, op. cit., p. 122.

[233]M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, Torino 1976, Einaudi, p. 24.

[234]G. PROCACCI, in VARI, Effetto Foucault, Milano 1987, Feltrinelli, p. 191.

[235]G. DELEUZE, Foucault, op. cit., p. 113.

[236]G. DELEUZE, o.u.c., p. 111.

[237]G. PROCACCI, in VARI, o.u.c., p. 188. 

[238]G. PROCACCI, in VARI, Effetto Foucault, op. cit., p. 185.

[239]G. PROCACCI, in VARI, o.l.u.c.

[240]G. PROCACCI, in VARI, Effetto Foucault, op. cit., p. 192.

[241]Cfr. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Milano 1991, Fabbri.

[242]G. DELEUZE, Foucault, op. cit., p. 132.

[243]G. DELEUZE, o.u.c., p. 133.

[244]G. DELEUZE, o.l.u.c.

[245]F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, op. cit., p. 38.

[246]P. A. ROVATTI, in VARI, Effetto Foucault, op. cit., p. 72.

[247]P. A. ROVATTI, in VARI, o.u.c., op. 73.

[248]Il riferimento è ancora a Felix Guattari.

[249]‘Estetizzante’ come apparente, formalmente bello, televisivo.

[250]E. LEVINAS, Fuori dal Soggetto, Genova 1992, Marietti.

[251]L’altro, in Levinas, mi ri-guarda, mi interessa. E’, sostanzialmente, ‘volto’; l’io «si libera dal suo ritorno a sé, dalla sua autoaffermazione, dal suo egoismo di essente che persevera nel suo essere, per rispondere di altri, per difendere appunto i diritti dell’altro uomo». E. LEVINAS, o.u.c., p. 130.

[252]Questa ‘percezione’ è sia la mera costatazione della reale  presenza altrui, sia l’intuizione di una  presenza aurorale, sconnessa da referenti empirici.

[253] Per questa ragione, forse, nelle forme del delirio l’altro viene metamorfosizzato: perché l’io è assolutamente centrale, solitario, ricostituito secondo un’unità ancestrale resa però patologica per interventi traumatici.

[254]JEAN-LUC NANCY, La comunità inoperosa, Napoli 1992, Cronopio.

[255]T.W. ADORNO, Terminologia filosofica,  Torino 1975, Einaudi, pp. 136 ss.

[256]Cfr. T.W. ADORNO, o.l.u.c.

[257]T.W. ADORNO,o.l.u.c.

[258]T.W. ADORNO,o.l.u.c.

[259]J. NANCY, La comunità inoperosa, op. cit.,  p. 63.

[260]J. NANCY, o.u.c.,  p. 183.

[261]J. NANCY, o.u.c.,  p. 185.

[262]J. NANCY, o.u.c., p. 169.

[263]J. NANCY, o.u.c., p. 172.

[264]J. NANCY, o.u.c., p. 10.

[265]Cfr. anche, seppur con diversa prospettiva, E. PIZZICHETTI, “L’ ‘altro’ invisibile, l’Anonimo e Narciso”, in “Atque, materiali tra filosofia e psicoterapia”, n. 07, Maggio ‘93, Moretti & Vitali editori, p. 171: «Finora abbiamo parlato della verità come significato. E’ evidente quindi che si presuppone sempre la percezione di una comunità verso cui si è rivolti con le nostre parole e le nostre domande, e si presuppone, più in fondo, il peso di una possibile risposta. Ogni significato conta e vale solo al plurale. Non si è mai da soli (...)».

[266]AA.VV., Politica, Napoli 1993, Cronopio.

[267]Cfr. J. NANCY, in AA.VV., Politica,  op. cit., p. 15

[268]J. NANCY, o.u.c., p. 16.

[269]J. NANCY, o.l.u.c..

[270]Cfr. J. NANCY, o.l.u.c.: «Tutta la fondazione occidentale (...) mette in gioco una condivisione del ‘senso’ e la costituzione stessa o l’avvenimento del ‘senso’ in una condivisione».

[271]Così prosegue il passo, nella sua interezza: «Come, dal momento che tale ‘senso’ non è un senso particolare (come sarebbe quello della ‘collettività’ distinto da quello degli ‘individui’), ma l’elemento di significanza dell’esistenza in quanto essa compare, e non c’è senso d’uno Solo (il che non significa che ‘tutto il senso’ sia ‘collettivo’, al contrario). E come, dal momento che la comunità si scopre e si denuda come ciò che non è sostanza di un soggetto, dal momento, cioè, che essa non è autoappropriazione di senso» (p. 37).

[272]J. NANCY, o.u.c., p. 49, nota.

[273]J. NANCY, o.u.c., pp. 54-55.

[274] Questa profonda assimilazione è manifesta nella distinzione tra Hegel per il quale è il ‘pensiero’ del reale ad essere soggetto del pensiero, e Marx, dove il reale stesso è soggetto (e non oggetto) del pensiero. Vi è un rovesciamento della filosofia «dal punto di vista della prassi», e tale rovesciamento, il superamento della filosofia come sua sopravvivenza, costituisce l’altro, l’esterno comune ad essa. Il passaggio avviene grazie all’esistenza di un momento nel quale «l’alterità costituisce il sé» (pp. 35-36).

[275]J. NANCY, La comunità inoperosa, op. cit., p. 172.

[276]J. NANCY, o.u.c.., p. 167.

[277]J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Milano 1979, Feltrinelli, p. 46.

[278]J. BAUDRILLARD,o.l.u.c.

[279]J. BAUDRILLARD,o.u.c., p. 53.

[280] si definisce ‘bots’ un tipo di software che simula all’altro capo del modem la presenza di un umano

[281] Cfr. G. DE SIMONE, “Il bello della cosa”.

[282]P. VIRILIO, “Allarme nel ciberspazio”, in “Le Monde Diplomatique”, edizione italiana, Settembre 1995, p. 30.

[283]A. MATTELART, “I nuovi scenari della comunicazione mondiale”, in “Le Monde Diplomatique”, edizione italiana, Settembre 1995, p. 31.

[284]R. PETRELLA, “I Nuovi Comandamenti”, in “Le Monde Diplomatique”, edizione italiana, Ottobre 1995, p. 2.

[285]F. PISANI, “Le frontiere ignote del ciberspazio”, in “Le Monde Diplomatique”, edizione italiana, Novembre 1995, p. 2. L’articolo risponde alle tesi divulgate da Nichols Negroponte, direttore del Media Lab del Mit e autore di Essere digitali, Milano 1995, Sperling & Kupfer.

[286]F. PISANI, “Le frontiere ignote del ciberspazio”, cit.,  p. 2.

[287]Quasi paradossalmente, questa chance è offerta proprio dal ritardo dei cosiddetti paesi più deboli e poveri. Quale miglior messaggio per le aberranti e inconsapevoli politiche di sfruttamento?

[288] Cfr. B. R. TUCKER, Copia pure, Viterbo 2000, Stampa alternativa.

[289]G. DE SIMONE, “Come da copione”, piccola storia del plagio, in “il manifesto/Alias” del 25 marzo 2000.

[290] G. DE SIMONE, “Le ali di pietra. Il potere, i soggetti, le tecnologie del senso”, in “Konsequenz”, prima serie, numero 2/97, Napoli 1997, Edizioni Scientifiche Italiane.

[291] G. DE SIMONE, “L’alchimia del suono. L’antiestetica”, manifesto della nuova avanguardia partenopea apparso sul quotidiano “Napolinotte” del 3 marzo 1984. Tra l’altro vi si legge:  «Non v’è discriminatorietà, in termini di giudizio di valore assoluto, tra le diverse produzioni di un’espressione artistica». Altre tesi sono nel volume G. DE SIMONE, Le parole sospese o del silenzio in arte, Napoli 1988, Edizioni Scientifiche Italiane. Molti aspetti di queste nuove consapevolezze estetiche sono stati divulgati in numerosi articoli e recensioni apparsi sul quotidiano “il manifesto” e sulla rivista specializzata “CD Classica”.

[292] Sulla corretta distinzione tra opzioni della world music, cfr. G. DE SIMONE, “Speciale world music”, in “CD Classica”, n. 78, anno 9, Firenze, Febbraio 1995, pp. 32-38.

[293] Cfr. G. DE SIMONE, “Come da copione”, cit., p. 11.

[294] Cfr. G. DE SIMONE, “Macchine da primati”, speciale dedicato alla musica elettronica apparso su “il manifesto/Alias” del 6 maggio 2000.

[295] Cfr. G. DE SIMONE, “Come da copione”, cit, p. 13.

[296] Cfr. G. DE SIMONE, “Come da copione”, cit, p. 11.

[297] Cfr. D. DE GAETANO, postfazione a J.A. WALKER, L’immagine pop, trad. it., Torino 1994, EDT, p. 170: «(...) ogni aspetto della cultura e della sotto-cultura occidentale o extraeuropea può essere saccheggiato» (titolo e data dell’op. originale: Cross-overs. Art Into Pop/Pop Into Art, London 1987).

[298] Lo scratch è una tecnica usata dai dj per alterare i suoni dei dischin nata nel Bronx agli inizi degli anni Settanta. Per J. A. WALKER, L’immagine pop, cit., p. 155: «Lo scratch rappresenta chiaramente una forma di intervento del consumatore che trasforma e personalizza i prodotti del music business». Purtroppo Walker aggiunge: «Per chi lo pratica, lo scratch costituisce una maniera per controbilanciare la passività che caratterizza altrimenti la fruizione di beni di consumo» (oluc).

[299] Con le tecniche del morphing si procede di alterazione in alterazione di suoni preesistenti, accostandoli liberamente. La ‘composizione’ sta in questa giustapposizione creativa (vogliamo chiamarlo sviluppo o variazione?), più che nella creazione di algoritmi che esprimano nuove sonorità. In ciò risiede la maggior possibilità di successo della nuova musica elettronica, che si differenzia dal mero sperimentalismo e dalla ricerca di suoni inediti che ha paralizzato la creatività dei compositori per decenni.

[300] A Napoli e dintorni se ne contano almeno otto. Uno di essi ha prodotto nell’ambito di un progetto plurifondo europeo il Cd-Rom Caro Iqbal (EU 20001).

[301] F. JAMESON, Tardo marxismo, Roma 1990, Manifestolibri, p. 156.

[302] Ouc, p. 160.

[303] Op. cit, p. 161.

[304] R. MIDDLETON, Studiare la popular music, trad; it. Milano1994, Feltrinelli, p. 21 (edizione e data dell’originale: Studying popular music, 1990) .

[305] Ouc, p. 64.

[306] Cfr. G. DE SIMONE, Manuale del mancato virtuoso. Lasciate i pianisti nelle gabbie, Napoli 1983, Edizioni Scientifiche Italiane.

[307] J.A. WALKER, L’immagine pop, cit., p. 23.

[308] In ouc, Walker cita da S. FRITH e H. HORNE, Welcome to Bohemia! , Coventry 1984, University of Warwick, Departement of Sociology. Cfr. anche il volume: S. FRITH, Il rock è finito. Miti giovanili e seduzioni commerciali nella musica pop, trad. it., Torino 1990, EDT (titolo e data dell’edizione originale: Music for pleasure, 1988)

[309] D. HEBDIGE, La lambretta e il videoclip. Cose & consumi dell’immaginario contemporaneo, Torino 1991, EDT (titolo e data dell’opera originale: Hiding in the light. On images and things, Londra 1988).

[310] D. HEBDIGE, ouc, p. 72.

[311] L’autore ha tenuto una rubrica per l’inserto culturale del quotidiano “il manifesto” fino al 2003.

[312] Tra i dischi che considero come punti di riferimento obbligato per inquadrare la border music italiana ritengo indispensabili, di Ludovico Einaudi : “Salgari” (Ricordi) che avvicina e forse anticipa il Glass operistico, “Stanze” (Ricordi) un indiscutibile capolavoro con l’esecuzione della Chailly, “Eden Roc” (BMG). Di Cecilia Chailly: “Anima” (Eastwest). Di Eugenio Fels: “Alkèmia” (Konsequenz). Il mio “Ice-tract” (Konsequenz 1998 - ristampato da Curci, Milano 2000). Di Arturo Stalteri: “André sulla luna” (MP Records) e “Flowers” (Materiali Sonori). Su tutti, e prima di tutti noi, lo straordinario ed anticipatore “Dialoghi del presente” di Luciano Cilio, ora reperibile in CILIO-DE SIMONE, “Dell’Universo assente” (Milano 2004, Die Schachtel).