MUSICHE
REPLICANTI
Napoli
2005, Liguori Editore
Nuove
opere sono riuscite a sopravvivere e a proliferare in anfratti delle metropoli
occidentali, tra pieghe del mercato, in quella porosità di senso come direzione
che ormai felicemente caratterizza la nostra produzione. Idee come la
contaminazione, il melting-pot, la libertà stilistica (e di formazione) del
compositore (nozione ampliata ai Dj, ai Vj, agli jingle-maker, ai nuovi
remixing), la funzionalità di opere con una qualità estetica svincolata
dall’appartenenza di genere (classico-colto, popular-leggero…), sono state il
frutto di una riflessione critica, di una ampia disseminazione giornalistica,
di una divulgazione in rete o di prassi attivate con rassegne musicali e
concerti innovativi.
Trasformazioni
che hanno condotto ad una svolta, al passaggio epocale dall’estetica musicale
del Novecento a quella dei giorni nostri, dalle musiche colte di derivazione
‘sperimentalistica’ alle musiche ‘replicanti’ e funzionali di oggi.
Il
volume raccoglie alcuni scritti pubblicati in questi anni di trasformazione,
proponendoli in versioni rivedute e corrette, ma rispettose della cronologia di
certe intuizioni. I temi vanno dalle ‘estetiche del plagio’ alle ‘musiche
replicanti’, dal superamento della dodecafonia alle nuove tecnologie musicali.
Studi di repertorio o di ricostruzione storica, e tuttavia già in grado di
localizzare e de/territorializzare escludendo.
L’intento risponde ad una esigenza pratica: rendere reperibili questi lavori nella loro continuità di senso; offrirne una lettura non dissipata; esaudire le richieste di studenti, amici e semplici fruitori occasionali che da tempo ne asupicavano la pubblicazione unitaria.
(Napoli 1990)
(Napoli 1991)
(Napoli 1992)
(Ischia 1993)
(Napoli 1994)
(Napoli 1995)
(Napoli 1995)
(Roma 1996)
(Roma 1996)
(Roma 1996)
(Napoli 1996)
12. IL POTERE, L’ARTE E LE TECNOLOGIE DEL
SENSO
(Napoli 1997)
(Napoli 2000)
15. STORIA ESTETICA DEL PLAGIO MUSICALE
(Napoli 2002)
STORIA
DI UN PLAGIO
L’INVENZIONE DELLA
DODECAFONIA[1]
Uno
strano epilogo
Un
epilogo conclude il Doctor Faustus di
Thomas Mann, dove il Narratore descrive la fine «del compositore tedesco Adrian
Leverkühn»: il discorso che allontana gli amici più cari, le lacrime sui tasti
del pianoforte, le carezze alla partitura, l’ultimo abbraccio allo strumento,
lo svenimento,
Subito
dopo le parole di chiusura «un uomo solitario giunge le mani e invoca: Dio sia
clemente alle vostre povere anime, o amico, o patria!»[3],
stranamente si legge la seguente nota: «Non mi pare superfluo avvertire il
lettore che il tipo di composizione esposta nel capitolo XXII e chiamato
tecnica dodecafonica è, in realtà, proprietà spirituale di un compositore e
teorico contemporaneo, Arnold Schönberg, e fu da me attribuito, in una
determinata costruzione ideale, a un musicista di mia libera invenzione, al
tragico protagonista di questo romanzo. In genere le parti tecnico-musicali del
libro devono parecchi particolari alla teoria armonica di Schönberg»[4].
Una ulteriore nota di Roberto Fertonani, curatore italiano del Faustus, spiega la precisazione come
richiesta da Schönberg per ottenere il pubblico riconoscimento da parte di Mann
dei debiti e prestiti musicali dalla Harmonielehre;
una nota aggiunta a partire dal quindicesimo migliaio. In seguito Thomas Mann
effettuò alcuni tagli, tutti o quasi contenenti fantasie e disquisizioni
musicali, dovuti, secondo Erika Mann, soltanto a considerazioni estetiche e non
alle osservazioni critiche di Schönberg. W.V. Blomster rifiutò invece di
esprimere il suo parere dando ad intendere che probabilmente le ragioni fossero
altre, e rimandando alla polemica Mann-Schönberg oggetto di questo capitolo[5].
La
«gloria futura» di Schönberg
Il
dissidio viene raccontato da Thomas Mann in una serie di lettere, ed ha ad
oggetto il risentimento di Schönberg nato dalla preoccupazione di veder
salvaguardata la sua «gloria futura»: egli redasse un documento a nome di un
certo Hugo Triebsamen nel quale si riproduceva una voce fantastica di una
futura enciclopedia americana: in un futuro anno 1988, Mann sarebbe stato
indicato quale vero inventore della dodecafonia, defraudato da un tale
Schönberg, e ridottosi per questa ragione a fare il letterato fino alla
pubblicazione del Doctor Faustus, del
vero documento d’origine della dodecafonia.
È
il caso di ricordare, a questo punto, che sia la Harmonielehre che le Structural
Funtions of Harmony non rappresentano una esposizione sistematica del
metodo dodecafonico, in quanto soltanto negli ultimi capitoli si parla
genericamente di suoni estranei all’armonia, o di «valutazione estetica degli
accordi di sei e più suoni». Anche l’impostazione generale, l’impianto del
manuale, presume una metodologia[6]
che tende da un lato a valutare criticamente gli elementi del passato,
dall’altro a proiettare quelle figure ritenute inusitate (non brutte o errate)
nel futuro sviluppo della musica. Ecco, ad esempio, la sua valutazione del
sistema temperato equale: «non si sarebbe mai dovuto dimenticare che il sistema
temperato equale era solo un armistizio e che come tale non poteva durare più
di quanto non l’imponesse l’imperfezione dei nostri strumenti; non si sarebbe
dovuto dimenticare che avremmo avuto a che fare coi suoni ancora assai spesso,
e che finché non ne avremmo risolti gli innati problemi non avremmo potuto
lasciar requie né a loro né a noi; sì, nemmeno a noi, perché siamo noi quelli
che cerchiamo, gli inquieti che non si stancano finché non hanno trovato. (...)
Siamo (...) almeno certi che lo spirito irrequieto non cesserà di occuparsi di
questi problemi finché non li avrà chiariti il più possibile»[7].
Quest’ultima
osservazione è interessante, perché notata anche da Mann, e citata in una
lettera a Michael Mann, il ‘buon Bibi’: «l’espressione: “il calore animale
della musica” è sua e io l’ho ‘inserita’ nel libro (...). Del resto anche lui
non permette che la propria invenzione gl’impedisca di considerare la scala
temperata un compromesso del tutto provvisorio (come fa anche Toch)»[8].
Il
Manuale di armonia non è dunque una
esposizione teorica del metodo dodecafonico, che sarà compiuta nel
Favole
furibonde
Il
presunto articolo di Triebsamen viene inviato a Thomas Mann, il quale rispone
dando del visionario all’inglese, chiamando «favole furibonde» le allusioni
alla presunta intenzione di diventare compositore[10]:
«chi sia l’inventore della dodecafonia lo sa anche l’ultimo bambino negro
(...). Perché, dunque, il signor Triebsamen finge di credere che io abbia
voluto insidiosamente impancarmi a inventore di quel sistema? (...)
Difficilmente uscirà una recensione del libro, in qualunque lingua essa sia,
che (...) non citi il Suo nome. Per farlo c’è più di un motivo, e non solo
quello dell’introduzione della dodecafonia. Perché Triebsamen non strepita
anche per l’idea della trasformazione dell’orizzontale nel verticale, un
ampliamento del concetto di possibilità armonica che deriva apertamente dalla
sua teoria dell’armonia?[11]
Non si è accorto che tutta la teoria musicale del libro è imbevuta di idee Sue,
anzi, che per ‘musica’ vi s’intende sempre e soltanto la musica
schönberghiana?»[12].
Ma
né la risposta, né l’invio dell’edizione tedesca con la dedica «al vero
destinatario» sembrano placare Schönberg. Egli «pretende che in una nota finale
si dichiari che la dodecafonia l’ha inventata lui, e non il Diavolo. (...)
Bella gente siete, voi musicisti!»[13].
Così Mann matura la determinazione di accontentare l’autore del Pierrot, nonostante ritenesse del tutto
inutile una nota esplicativa, tanto era ovvia la derivazione schönberghiana
delle teorie musicali del libro. Egli fu convinto, in ultima analisi, dalla
costatazione di Schönberg che «i contemporanei lo defraudavano di troppe cose
perché lui non badasse almeno alla sua gloria futura»[14].
Mann, commosso da questa frase, dà disposizione che tutte le traduzioni, e
appena possibile anche l’originale tedesco, riportino quella nota finale che in
sostanza dice: «Dovete sapere (...) che in mezzo a voi vive un compositore e un
filosofo musicale di nome Arnold Schönberg; è lui che in realtà ha inventato il
metodo musicale dodecafonico, non l’eroe del mio romanzo»[15].
Appena
stampata l’edizione inglese con la famosa nota finale, Mann ne fa dono, con
dedica, a Schönberg, il quale risponde (risulta in una delle lettere dello
scambio, in cui Mann allude alla possibilità di rendere pubblica questa
risposta) grato e soddisfatto: «Ero fermamente convinto che da Lei non potevo
aspettarmi niente di meno che da me stesso e sono molto contento di veder
ricompensata in tal modo la mia fiducia»[16].
Bordate
di vendetta
L’intricata
vicenda sembrerebbe chiudersi qui, o quantomeno sarebbe lecito supporre che
Mann ritenesse archiviato ogni contraddittorio, quando un articolo pubblicato a
sorpresa da Schönberg sulla rivista londinese “Musical Survey” gli «piomba
addosso come una bordata». Così infatti scrive ad Adorno: «ci crede che
Schönberg ha sparato ancora una bordata contro il libro e Lei e me? (...) era
un articolo talmente velenoso che il direttore lo ha definito, a mo’ di scusa
una “testimonianza di carattere”. Tra le altre cose dice che tutti coloro che
hanno peccato contro di lui sono finiti male, e di due signore che lo hanno
fatto, una si è rotta la gamba e l’altra è stata colpita da non so quale
calamità. Si stenta a crederlo. Ma io gli ho scritto di nuovo, dicendogli che
se a tutti i costi voleva passare per mio nemico, non sarebbe più riuscito a
fare di me un nemico suo»[17].
Schönberg concludeva l’articolo con una provocazione: il futuro avrebbe deciso
quale dei due artisti sarebbe stato considerato contemporaneo dell’altro.
La
frase, di per sé offensiva, era condita dall’affermazione che la nota finale
apposta a tutte le edizioni rappresentava né più né meno che un «gesto di
vendetta». È qui che Mann dimostra di aver raggiunto un’età biblica, come
scherzosamente gli dicevano: egli scrive una gentilissima lettera a Schönberg,
scusandosi per non avergli ancora restituito la Harmonielhere, dichiarandosi ancora e per sempre amico del
compositore. Ma, in un poscritto, con eleganza, dichiara: «se ora, sotto la
gragnuola dei Suoi attacchi, dovessi trovarmi in una situazione sempre
peggiore, potrei, ridotto all’ultima necessità, pubblicare la lettera ch’Ella
mi scrisse il 15 ottobre 1948, dopo aver ricevuto l’edizione inglese del Doctor Faustus con la famosa nota
finale, lettera in cui Lei mi ringrazia sentitamente di aver accontentato il
Suo desiderio (...)»[18].
Schönberg
sembra messo alle strette, disarmato dal tono tranquillo e sereno della
lettera, forse anche spaventato dalla minaccia di render pubblica la missiva in
cui si era dichiarato soddisfatto. Tutto ciò lo avrebbe qualificato
quantomeno come un compositore dalle
reazioni istintive e incontrollate.
In una lettera a Stuckenschmidt, autore
di una biografia di Schönberg, Mann racconta il vero epilogo della querelle: «(...) alla mia lettera
rispose che lo avevo rappacificato e ch’era ora di “seppellire l’ascia di
guerra”. Solo che non desiderava dare pubblicità alla cosa, perché temeva di
deludere coloro che, nella faccenda del Faustus,
si erano schierati dalla sua parte. Non avrebbe tardato a venire una qualche
ricorrenza solenne, ad esempio un 80° compleanno, in cui si sarebbe potuto
rendere pubblica la nostra riconciliazione»[19].
Com’è
noto, la ricorrenza venne a mancare, e solo un ulteriore segnale di
riconciliazione, il comune divieto di pubblicazione dello scambio di lettere
alla “Saturday Reveew” concluse definitivamente la vicenda, in effetti con la
vittoria di Mann, cioè della posizione moderata.
L’oggetto
del contendere
Ma
quale fu, precisamente, l’oggetto della contesa? A parte i numerosi riferimenti
musicali presenti ovunque nel volume, e quelli eliminati da Mann forse proprio
in seguito alla polemica, con ogni probabilità doveva trattarsi
dell’esposizione del sistema dodecafonico contenuta nel XXII capitolo. La vera
e propria descrizione della tecnica dodecafonica è preceduta da divagazioni
umanistico-teologiche tra il Narratore e Adrian, durante una passeggiata
all’aperto, sotto gli aceri del Monte Sion. Thomas Mann descrive con
incredibile precisione la lucidità degli occhi, il continuo dolore alla testa
del compositore, riferisce le sue frasi come se provenissero da un uomo che si
sdoppia. I due volti sono quelli del teologo e del musicista. Talora pronuncia
frasi ‘gravi’, lontane dalla quotidianità, quando pare quasi che a mostrarsi
sia una delle pieghe della verità. Un dèmone sembra allora percorrere la mente
dandole una vasta capacità d’analisi, una lucidità insolita, un chiarore
mistico. È questo un artificio descrittivo che inquadra e prepara l’aspetto
demonico del procedimento compositivo basato sulla presenza di tutti e dodici i
suoni in una «parola di dodici lettere», le quali formano una serie dalla quale
tutta l’opera, in uno o più movimenti, deve derivare: «ogni tono dell’intera
composizione dovrebbe mostrare, tanto dal punto di vista melodico che da quello
armonico, il suo rapporto con questa predeterminante serie fondamentale.
Nessuno dovrebbe ritornare prima che tutti gli altri siano apparsi; nessuno dovrebbe
entrare in scena prima di aver compiuto la sua funzione di motivo nella
costruzione totale»[20].
Ecco
così enunciate tre caratteristiche del sistema dodecafonico: presenza dei
dodici suoni organizzati in una serie che costituisce il materiale musicale,
grezzo, dal quale partire, proprio come un pittore che prepara i colori
fondamentali sulla tavolozza; tutta la composizione ripresenta questa serie,
che ne surroga la forma, plasmandola secondo forti linee di senso dal movimento
obbligato; eguaglianza ed indifferenza tra melodia e armonia.
Più
avanti Adrian risponde all’obiezione del Narratore circa il ristagno e
l’impoverimento della musica, che questa nuova tecnica necessariamente
comporta, enunciando una ulteriore caratteristica del sistema: la variazione,
che opera in modo tale da rendere meno noiosa la composizione: «(...) tutto ciò
si potrebbe utilizzare per modificare in modo sensato le parole di dodici
suoni, oltre che come serie fondamentale si potrebbe servirsene per sostituire
a ciascuno dei suoi intervalli quello che ha la direzione contraria. Oltre a
ciò si potrebbe incominciare la figura con l’ultimo suono e concluderla col
primo, e capovolgere poi anche questa forma. Eccoti quattro modi, che a loro
volta si possono trasportare su tutti i dodici diversi suoni iniziali della
scala cromatica, di modo che la composizione può disporre di quarantotto forme
diverse e di tutte le possibili variazioni»[21].
È
impressionante constatare come queste idee siano presenti quasi nella stessa
formulazione (vi è la differenza dello stile del letterato) in Filosofia della musica moderna di
Adorno, il cui saggio su Schönberg fu studiato su manoscritto da Mann.
D’altronde, il debito era stato ampiamente riconosciuto dallo scrittore nella Genesi del Doctor Faustus, dove si
dichiara che tutto il capitolo XXII era stato scritto sulla base di
osservazioni di Adorno, in particolare su quelle contenute nel saggio su
Schönberg: «lo scritto (...) espone (...) la fatalità che fa ricadere nella
tenebra e nella mitologia l’illuminazione costruttiva e oggettivamente
necessaria della musica (...)»[22].
A
parte le tre caratteristiche salienti, che pure è possibile leggere in Adorno,
è interessante riscontrare l’idea di variazione, che diventa tutto e nulla nel
sistema dodecafonico, perché sostituisce la dinamica (percorso di senso)
compositiva. Essa si trova quasi incorporata già nel materiale stesso,
preformandolo «prima che incominci la composizione propriamente detta»[23].
Segue quasi con le stesse parole l’esposizione sull’uso della variazione con la
seria rovesciata, retrograda e rovescia del retrogrado, col relativo trasporto
sui suoni della scala cromatica e la conclusione che «la serie è disponibile
per una composizione in quarantotto forme diverse».
Ma
di maggior interesse è il punto relativo all’indifferenza tra melodia e
armonia, che consente di riportare il discorso sulla orizzontalità e
verticalità della musica di Adrian-Schönberg[24].
Nel
romanzo, la questione dell’orizzontalità e verticalità della musica ricorre più
volte. Il punto più interessante è il seguente: «Adrian s’impegnava
specialmente nel problema dell’unità, della scambiabilità, dell’identità fra la
linea orizzontale e quella verticale. Molto presto acquistò una (...) paurosa
abilità nell’inventare linee melodiche, le cui note potevano essere
sovrapposte, rese simultanee, ripiegate in armonie complesse - e viceversa nel
fissare accordi di molte note che si potevano scomporre in armonie orizzontali»[25].
Più
avanti si trova un accenno al problema dell’accordo e del collegamento fra più
accordi: «m’illustrava la trasformazione dell’intervallo in accordo, che lo
interessava più di qualunque altra cosa, il passaggio dunque dall’orizzontale
al verticale, dalla successione alla simultaneità. (...) La scala non è altro
che la scomposizione analitica del suono nella serie orizzontale»[26]:
è la cosiddetta complementarietà tra gli accordi, che avrebbe dovuto sostituire
l’armonia.
Ma se nelle intenzioni di
Schönberg, come in quelle di Adrian, «l’accordo vuol essere continuato, e appena
lo risolvi in un altro, ciascuna delle sue componenti diventa una voce»[27],
Adorno già critica questo rapporto complementare, definendolo un raro caso[28],
qualcosa che obbedisce a mere regole combinatorie. Adorno individua nel primo
tempo del terzo quartetto per archi il principio dell’ostinato, che avrebbe
l’espressa funzione di «stabilire un nesso che tra accordo e accordo non esiste
più, e praticamente nemmeno nell’accordo singolo»[29].
Questa osservazione è importante, perché la paralisi del rapporto complementare
quale legge armonica nasce proprio dall’indifferenza tra elementi orizzontali e
verticali. La conclusione di Adorno è che «manca l’attrazione reciproca tra i
suoni», lacuna che lascia dietro di sé soltanto «la loro monadica mancanza di
relazioni e l’autorità pianificatrice
che li domina tutti». Ne consegue, come si era anticipato, che l’«unico
risultato possibile (è) il caso»[30].
L’elemento
argomentativo che in Adorno motiva la qualificazione di ‘noia’ è presente in
Mann, ma in uno dei frammenti espunti dal libro dopo la polemica: «alla
polifonia, ai mezzi del contrappunto si faceva ricorso per conferire una
superiore dignità alle voci medie che, com’è noto, nel sistema del basso
obbligato sono soltanto empitivo, soltanto accordi concomitanti»[31].
Anche
lo stesso Schönberg si era occupato del problema della casualità nella sua Harmonielehre, a proposito dei suoni
impropriamente definiti «estranei all’armonia». Qui, in sostanza, si procede
alla dimostrazione che un evento casuale può essere perfettamente logico, e che
pertanto «un fenomeno può essere o meno attribuito al caso solo secondo i punti
di vista».[32]
Ulteriori
corrispondenze sembrano risuonare in un unico accordo formato da suoni
reciprocamente allusivi, in cui quasi non si riesce a riconoscere l’originale
dal suo doppio. Alcune frasi, determinati concetti, vengono interiorizzati
dallo scrittore e riproposti, come da esplicita ammissione, come se gli
appartenessero: un processo di introiezione creativa che media nella genialità
descrittiva i contenuti tecnici e filosofici presenti in Schönberg e Adorno. Un
primo esempio è nella concezione di un «Bach armonista», idea presente
originariamente in Adorno, e ripresa da Mann nella Genesi del Doctor Faustus. Adorno: «In Bach è la tonalità che
risponde alla domanda come sia possibile una polifonia anche armonica (e per
questo Bach è di fatto un ‘armonista’ come Goethe lo giudicava)»[33].
Mann: «Una sera, in casa Adorno (...) parlai di parecchie cose ‘inerenti’ e per
me stimolanti: dell’inferiorità della musica omofona di fronte al contrappunto
di Bach ‘armonico’ (come lo aveva definito Goethe)»[34].
E, ancora, sulla descrizione dell’accordo dissonante[35]
che riprende quella schönberghiana; sulla nozione di contrappunto; sui diversi
elementi della musica sviluppati indipendentemente l’uno dall’altro; nei
frammenti espunti dal Doctor Faustus[36]
e che si ritrovano nel Manuale di armonia
di Schönberg, ad esempio sul suono che «è stato misurato solo in una di queste
dimensioni in cui si estende (...). Trascurabili i tentativi fatti di misurare
le altre dimensioni»[37];
nella definizione della dodecafonia come un sistema che dovrebbe «accogliere
tutte le tecniche della variazione»[38],
quando in Adorno si ritrova: «la variazione diventa totale»[39].
Intrecci
ulteriori
Altra
singolare corrispondenza è la trasposizione nel romanzo del Trio per archi op. 45 di Schönberg,
inserito nell’ultima produzione di Adrian; egli è ammalato, presto giungerà la
follia, e con
È
evidente il riferimento alla difficoltà tecnica della scrittura nel Trio di Schönberg, di cui lo scrittore
riferisce anche nel ‘romanzo di un romanzo’: «in quei giorni è ricordato e
desidero che anche qui sia ricordato un incontro con Schönberg, il quale mi
parlò del suo nuovo Trio appena
compiuto (...). L’esecuzione sarebbe estremamente difficile, anzi quasi
impossibile o possibile soltanto per tre suonatori di grado eccezionale, ma
d’altro canto molto grata in virtù di straordinari effetti sonori. La
combinazione “impossibile ma grata” entrò nel capitolo della musica da camera
di Leverkühn»[41].
Oltre
all’inesauribile serie di tracciati che questa combinazione (“impossibile ma
grata”) potrebbe aprire, Mann dovette subire il fascino dell’ineseguibile che
riesce, ciononostante, ad essere pensato, fissato su carta e misteriosamente
suonato grazie a tre strumentisti dalle eccezionali capacità. La ineseguibilità
sarebbe così soltanto relativa alle capacità tecniche e musicali degli
esecutori, cosa che corrisponde perfettamente alle idee di Schönberg
sull’evoluzione del gusto, della tecnica e quindi della stessa concezione
dell’arte: «Venne poi il Trio per
violino, viola e violoncello che, quasi ineseguibile può essere dominato
tecnicamente solo da tre virtuosi e sbalordisce per il suo furore costruttivo,
per lo sforzo cerebrale che rappresenta e per l’inaspettata mescolanza di
sonorità imposte ai tre strumenti da un orecchio desideroso dell’inaudito e da
una fantasia combinatrice senza pari. “Impossibile, ma di effetto” definì
Adrian in un momento di buon umore questo pezzo (...). Era un intreccio
esuberante d’ispirazioni, postulati, realizzazioni e inviti a dominare nuovi
compiti, un tumulto di problemi che prorompevano insieme con le loro soluzioni.
“Una notte” disse Adrian “nella quale a furia di lampi non fa mai buio”»[42].
Similmente,
e l’analogia è evidente, Mann descrive la Lamentatio
riferendosi ancora al tema della notte, della parola e del suono che si spegne
in lontananza: «(...) quello che rimane è soltanto il sol sopra il rigo (...),
l’ultima parola, l’ultimo suono svanente (...). Ma il suono che ancora vibra
nel silenzio, quel suono svanito che soltanto l’anima ancora ascolta, ed era la
fine della tristezza, ora non lo è più, muta di significato, è quasi un lume
nella notte»[43].
Altrove,
proprio collegato alla parola (nell’Apocalisse, altra opera di Adrian),
si descrive l’applicazione del glissato alla voce umana, glissato ben presente
e che suggerisce anche nel trio la «liberazione dell’urlo allo stato
primordiale»[44].
Naturalmente,
la descrizione del Trio op. 45 è
presente già in Adorno, che riferendosi all’opera ne mette in risalto
l’inconsistenza che «si tocca con mano»[45].
Schönberg padroneggia questa materia dalla difficile lettura dandole un ordine,
contenendola in una forma. E Mann, sempre nella pagina dedicata all’Apocalisse, si sofferma sul concetto di
‘ordine’ che è «l’ovvio presupposto e la prima manifestazione di ciò che
intendiamo per musica»[46].
E, nel capitolo che espone il metodo dodecafonico, Adrian nel discuere col
Narratore si dichiara «legato dalla voluta costrizione all’ordine: dunque
libero».
L’idea
di ‘ordine’ è riscontrabile anche nella Harmonielehre:
«l’ordine che noi chiamiamo forma artistica non è fine a sé stesso, ma un
necessario espediente, giustificato in quanto tale, da respingere però quando
si dà per più di quel che è, cioè come un’estetica. Con questo non si vuol dire
che a un’opera d’arte debbano mai mancare l’ordine, la chiarezza e la
comprensibilità, ma che non meritano il nome di ordine solo quelle qualità che
noi percepiamo come tali, perché la natura è bella anche quando non la
comprendiamo e quando ci appare non ordinata»[47].
Conclusioni
Alcune importanti conseguenze possono
trarsi da tutto quanto fin qui esposto. La più importante è che la coincidenza
‘Entropia/morte dell’arte = Schönberg’ può essere ricondotta alle vere idee di
Schönberg soltanto fino a un certo punto. Quest’ultimo, difatti, nel Manuale di armonia introduce spesso
brevi considerazioni che possono chiarire la sua vera idea sull’evoluzione
della musica: «(...) poiché l’orecchio ha dimostrato di essere così sensibile
nei riguardi di un problema che si presenta negli armonici di un accordo, si
può ben sperare che non farà cilecca nemmeno nell’ulteriore evoluzione della
musica, anche se essa segue una strada di cui gli esteti prevedono già oggi che
condurrà alla fine dell’arte»[48].
Ed altrove, quasi proseguendo e concludendo il pensiero: «ma per chi guarda
lontano anche questo non sarà la fine: egli sa che ogni materiale può essere
oggetto d’arte, purché sia tanto cristallino da poter essere trattato in
corrispondenza alla sua presunta natura, ma non tanto da non lasciar spazio
alla fantasia in zone ancora inesplorate, che le permetteranno di mettersi in
contatto misticamente con l’universo. E poiché ci resta la speranza che il
mondo per il nostro intelletto sarà un enigma ancora per un pezzo, la fine
dell’arte non è ancora giunta (...)»[49].
Particolare rilievo ha avuto, nella musica successiva, l’effettiva possibilità
di utilizzare qualsiasi materiale, dandogli piena dignità per la costituzione
dell’opera.
Così
può affermarsi che l’idea di un procedimento compositivo vicino all’ideale
dell’entropia totale in arte, o almeno all’utilizzazione di questa idea a fini
estetici[50], è
più vicina alla visione di Thomas Mann che a quella di Schönberg. E quindi
risiede originariamente, come si è dimostrato fin qui, nel modello teorico
utilizzato da Mann, vale a dire nell’opera di Adorno. Lì appunto ricorre
spessissimo la nozione di ‘entropia’, talora collegata confusamente con
quella della fine dell’arte[51].
Per Schönberg il bello ha un certo rilievo, almeno come punto d’arrivo, o come
categoria inventata dai fruitori, ai quali è però necessaria[52].
Adorno scrive invece che la nuova musica «ha preso su di sé tutta la tenebra e
la colpa del mondo», che «tutta la sua felicità sta nel riconoscere
l’infelicità, tutta la sua bellezza nel sottrarsi all’apparenza del bello»[53];
essa è specchio del disordine sociale, ed in ciò pur sempre capace di superare
i confini di una realtà dalla sofferente imperfezione: giunge quasi al
dissolvimento formale, nella misura in cui questa forma impedisce all’arte di
essere gnoseologia, perché capace di annullare la possibilità di contraddizione[54].
Per Adorno la riluttanza di Schönberg nel concludere opere grandiose è da
ascriversi alla sua tendenza distruttiva, alla sua «sfiducia inconscia ma
profondamente operante nella possibilità di capolavori oggi (...)»[55].
Tutti
questi aspetti sembrano confermare che Adorno ha accentuato ed esasperato alcune
caratteristiche della musica e della teoria di Schönberg; e che tale
esasperazione è poi confluita nel capolavoro di Thomas Mann, il quale
conferisce al personaggio Leverkühn la glacialità che gli è propria: « “Freddo”
disse Adrian accennando co; capo “è troppo freddo ora per fare il baglo.
Freddo” ripeté dopo un istante, con un brivido visibile, e riprese il cammino»[56].
Ed ecco Adorno: «Chi si lascia sfuggire la conoscenza dell’aumento dell’orrore,
non ricade soltanto nella gelida contemplazione, ma si vieta di cogliere, con
la differenza del nuovo rispetto al precedente, anche la vera identità del
tutto, del terrore senza fine»[57].
Il nostro bersaglio estetico, quindi, non può che essere Adorno, nelle sue
affermazioni più estreme.
UNA
NUOVA RICERCA MUSICALE?
La domanda, forse provocatoria, non
è priva di riferimenti metodologici: ha ancora senso parlare di ‘ricerca’
musicale? E, soprattutto, questo interrogativo può prescindere da considerazioni generali sull’estetica?
Per definizione l’estetica dovrebbe
relazionarsi alla distinzione tra il bello e il brutto, e poi alla separazione
tra il bello naturale e quello riprodotto dall’uomo[58].
La stessa etimologia del termine ‘arte’ ricondurrebbe all’idea dell’artificio
costruttivo, che sottintende una volizione e un progetto. Anche la nozione di
una Scienza dell’arte, che può riferirsi a forme come la bellezza naturale,
risentirebbe di questa contaminazione etimologica, risultando infine incapace
di comprendere certe forme aperte dell’arte contemporanea, come l’alea e l’opera casuale per progetto o per natura.
Non resterà allora che immaginare un
uso esteso della parola ‘estetica’, che si riferisca a campi di possibilità, e
a percorsi ludici (e senza pretese) del dire, nell’ambito di insiemi che,
almeno, siano capaci dell’ «uscita da sé». Se poi questo uscire dal sistema
corrisponda o meno ad una qualificazione (ad esempio alla Bellezza) sarà cosa
da dimostrare. Così, sarebbe ancora lecito discutere d’arte, e nelle due
accezioni tradizionali dell’estetica. Avrà senso parlarne perché oggi la
dimensione estetica sembra prevalente (qui quasi un’etica dell’estetica, altra
dalla morale): e il discorso sull’arte è un ‘detto’ da interpretare; avrà poi
ancora senso parlarne in relazione alla qualità, per la stessa paradossale
impossibilità di individuare le caratteristiche che rendono tale la qualità: il
percorso estetico sarà possibilistico e ludico, vicino esso stesso all’arte,
forse unica residua redenzione anche per la critica.
Oggi
sembra prevalere l’indifferenza gerarchica tra le opere: opere senza
qualità perché come Ulrich, l’uomo senza qualità di Musil, sono «equidistanti da tutte le qualità, e tutte
sono loro stranamente indifferenti»[59].
Corollari di questo dato di fatto:
1- che anche gli oggetti prodotti
casualmente sono opere d’arte,
comprendendo la volizione iniziale del compositore (Cage), o non
comprendendo alcuna volizione (ne è
esempio letterario la biblioteca
immaginaria di Borges) ;
2-
le partizioni in generi non hanno
più rilievo[60];
3- all’interno di uno stesso
genere è indifferente attribuire ad un’opera un
giudizio di valore relazionale (una relazione è possibile dare soltanto
per quantità differenti, non per qualità).
Ma ciò conduce ad uno schematismo
trascendentale, dove l’unica realtà interessante è
Ma l’indifferenza gerarchica non importa
l’assenza di una gerarchia, quanto semplicemente la designificazione
qualitativa dell’opera. Essa mantiene intatte le sue caratteristiche interne
(ad esempio, in relazione all’aggregazione di eventi successivi) di minore o
maggiore complessità, in funzione delle quali può continuarsi a parlare di
gerarchia, ma questa complessità non si trasforma in una discriminante in base
alla quale operare un giudizio di valore[61]. Una qualità ci pare possibile soltanto se
resa equivalente alla capacità dell’opera di ‘uscire dal sistema’.
Se è semplicistico affermare che la
musica oggi possa trasmettere emozioni o
essere espressiva tout court ciò non significa che essa non possa anche
essere espressiva, quando questo assunto riesce
a dare una qualsiasi logica all’atto del ‘compositore che si pone come tale’. Questa evidenza dello status
quo non conduce naturalmente all’assoluzione dello sperimentalismo, che
trova la sua giustificazione storica nell’esaurimento della nozione di
‘novità’, ma alla riappropriazione della colliceità di ogni esprit:
qualsiasi opera può anche essere espressiva, nonostante lo
sperimentalismo. Ed è appena il caso di prendere le distanze da posizioni
decadenti o neoromantiche[62],
che sviluppano diversi presupposti: qui si tratterebbe di negare una già
accaduta mediazione.
L’indifferenzialità tra le opere
interagisce con lo specialismo esecutivo: slegato completamente dalla
produzione di mercato, dal pubblico e dagli interpreti, il compositore è privo
di stimoli esterni, si distacca quindi dalle reali possibilità strumentali, e
tale mancata verifica rischia di condurlo
verso un crescente intellettualismo costruttivo. Le carenze
istituzionali, il fatto innegabile che nei conservatori si insegni soltanto la storia
di ‘una’ delle composizioni, conduce molti alla sensazione della privazione di un linguaggio personale, perché
nelle mani si è acquisito un mestiere indotto e dal percorso obbligato. Laddove quindi non ci si senta
legati, o se ne sia già esaurito l’apprendistato, alle scuole di storia della
composizione -le quali nel migliore dei casi si arrestano, nell’acquisizione
del metodo, al cromatismo malheriano- o ad una delle scuole dell’ avanguardia
storica[63],
si constaterà l’esclusione dal mercato delle esecuzioni pubbliche e delle
pubblicazioni. E, soprattutto, si affermerà l’indipendenza della propria voce,
l’eclettismo compositivo, la situazionalità della propria produzione.
Su questo tema, un recente
contributo di Michele Dall’Ongaro ha delineato con sufficiente chiarezza quali
relazioni intercorrano tra il mondo dell’editoria musicale e quello dei diritti
d’autore, collegati ai passaggi
radiofonici ed alle esecuzioni; vi si riferisce, tra l’altro, delle conclusioni
dei compositori italiani presenti alla tavola rotonda «
Confrontando i dati di diverse
ricerche sul campo[65],
oltre alle già esposte tematiche, si potrà verificare che i compositori che
hanno appena terminato gli studi restano in genere inseriti in un circuito di
associazioni-satellite ancora legate alle scuole locali; essi tenderanno a
ricercare un macrosistema che simuli
quello appena abbandonato: un «sistema del comporre»; così si spiegherebbe il
successo di posizioni strutturaliste di matrice bouleziana, e quello eclatante
di Donatoni e di Clementi. Molti giovani diplomati si trasformano a lungo in
epigoni di chi pare in grado di perpetrare la logica tradizionale del ‘mettere
insieme’, anche laddove questa compilazione dovesse sembrare apparentemente
destrutturante.
La situazione sembra ancor più grave nei luoghi maggiormente decentrati, e nel meridione, dove predominano le scuole con una forte valenza meramente didattica, quelle cioè ‘istituzionalmente’ reazionarie. Soltanto una tra le possibili forme del comporre viene analizzata e studiata, e sovente i manuali di riferimento sono inadeguati e non aggiornati.
Una connotazione di grande staticità permane anche in centri
importanti come Napoli, e viene già rilevata da tutti i compositori promotori
di “Avanguardia e ricerca musicale a Napoli negli anni ‘70”, una delle prime
manifestazioni aperte, almeno progettualmente, all’Europa. Luciano Cilio è la
personalità emergente, la più interessante del gruppo: dopo la sua scomparsa si
ricadrà nell’immobilismo, ed il suo spazio (Villa Pignatelli) sarà utilizzato
ancora per qualche tempo per la produzione di rassegne di musica contemporanea,
questa volta però riferite alle avanguardie storiche, avulse dalla realtà locale. La ricerca
musicale per Cilio si concretizza inizialmente nell’attenzione per i
procedimenti aleatori. Poi (è il 1971) nel lavoro attorno alla Klangfarbenmelodie, e più precisamente
nello studio della materia musicale che viene scolpita e usata attraverso dei
«piani sequenza che sono dovuti alle masse timbriche»[66],
non ai singoli strumenti o al loro mero accostamento. Infine il lavoro sulla
complessità semiografica. Tuttavia, l’aspetto che qui più interessa è
l’attenzione di Cilio per il suono, che viene usato in modo molto vicino ad una
accezione ‘interna’ («... rientrare nel suono, tenerlo, tenerlo... poi
lasciarlo andare...»[67]).
Qui, Cilio sembra vicinissimo a Giacinto Scelsi, il compositore oggi forse più
noto all’estero assieme a Luciano Berio. Un contributo di Zoltan Pesko sulla
rivista portavoce dell’ IRCAM rivaluta
le ricerche del compositore italiano, dopo la polemica sulla reale paternità
delle sue composizioni, ed apre una nuova luce anche sulle musiche di Cilio.
Da una ricognizione effettuata
attraverso una serie di interviste, il malessere per l’assenza di strutture
veicolanti, per la continua promozione di sound folklorico, di ritmi
sudafricani, etc, risulta ancora ben vivo tra il 1984 e il 1985, e viene
registrato propriamente come ‘assenza di avanguardia’, anche in relazione alla
mancanza di interpreti specializzati. Paradossalmente, e specie per la musica
contemporanea, non si dà interpretazione se non vi è cambiamento del segno. La
mera riproduzione, aliena da ogni reinvenzione, è morte della mediazione
esecutiva, e non conduce al predominio dell’idea del compositore, ma alla mera
affermazione cartacea del simbolo.
La recente situazione della musica
elettronica è, se possibile, ancor più devastata. Dopo l’autoisolamento di
Si è constatata, dunque, la chiusura
dello scenario italiano. Ma questa chiusura verso l’interno può costituire
contemporaneamente anche la forza del compositore venturo. ‘Ricerca musicale’ è
oggi sinonimo di riappropriazione di un linguaggio personale[68],
al di là degli strumenti. Pare che nessun compositore voglia rassegnarsi al
presunto decesso dell’arte[69],
e questo dato va letto ancora una volta nel senso della designificazione dello sperimentalismo, di quello fine a se
stesso. Le voci, diverse per portato culturale e per itinerario di formazione,
hanno in comune, ancora, l’esigenza di fondare le opere su entità formanti piuttosto che
formali, su un processo che osserva il suono interno piuttosto che
l’organizzazione; c’è nuova attenzione per il contenuto. Si procede, insomma,
almeno nei desiderata, all’esorcizzazione della struttura. Ciò
può significare che la forma, ultimo baluardo eretto da Schönberg a contenente
del materiale sonoro, poi estremizzata dal rigorismo bouleziano[70],
può essere prevalentemente trascurata nel processo di creazione. L’opera sembra
attendere una vivificazione da stati che non sono estranei alla più intima
delle elaborazioni. Si indebolisce, così, la sequenzialità discorsiva della
musica occidentale, si superano forse anche i procedimenti cageani, e ci si
avvia verso una musica che osserva lo specifico del suono all’interno del suono
stesso: spettrale in senso fisico, ma spettrale anche perché intangibile e
informale: una musica che si adagia sul pensiero[71].
Non a caso uno dei tentativi di
sistemazione filosofica del fenomeno musicale ha sentito l’esigenza di
confrontarsi con le teorie di Marius Schneider sull’origine del significato
della musica, pur ignorandone il retroterra tradizionale, arrivando a
teorizzare che un significato originale della musica è per sè stesso perduto[72],
tesi che non possiamo condividere. Alla luce dei dati raccolti, e qui soltanto
sommariamente esposti, si può invece rilevare che esistono segnali di un
movimento verso una musica in grado di riacquistare un significato tale da essere sentito come originale: non
perdita, quindi, ma smarrimento. L’auspicio dei compositori: una inversione
di natura sintropica.
L’ESTETICA
MUSICALE ITALIANA
Musica e intuizioni
Per Croce l’arte è attività
spirituale fondata sull’intuizione, di cui sembrerebbero sussistere due
livelli. Il primo è quello della pura intuizione, dove essa appare come «unità
indifferenziata della percezione del reale e della semplice immagine del
possibile» [73]. Questo farebbe pensare all’intuizione come ad
uno stato in cui, nella sua generale purezza, non ha alcun senso la distinzione
tra ciò che è reale e ciò che non lo è, perché «dove tutto è reale, niente è
reale»[74].
Nell’ istante in cui si contempla un quadro, si legge un racconto o si ascolta
un brano di musica occorre un atto «riflessivo e interruttivo» della
contemplazione, della lettura e dell’ascolto per ricongiungersi alle categorie
di spazio e tempo, che altrimenti, senza momento di ‘estraneazione’, non opererebbero
spontaneamente. Spazio e tempo risultano, cioè, complicate «costruzioni
intellettuali» esterne all’intuizione.
Il rapporto con la realtà, o con il
limite inferiore di questa intuizione viene indicato nell’ esistenza della materia come «di fuori» che durante il processo della
conoscenza viene incanalato in forme. La
forma concreta delle cose è infine il risultato del trionfo della forma sulla
materia. Per questa ragione può intendersi come l’attività spirituale sia forma
capace di confrontarsi con la materia e come, cosa molto importante, la materia
resti, in Croce, un punto d’appoggio non eliminabile e non sostituibile per
definire l’intuizione di una forma d’arte, cioè di un’opera d’arte formata.
Questa materia da sola non basta a consegnare la qualifica di «bello», dal
momento che il bello fisico non precede, ma segue il bello estetico; l’artista,
il pittore che dipinge, non «dà mai pennellata senza prima averla vista con la
fantasia», ma, rilievo qui molto utile per quanto seguirà, «se non l’ha vista
ancora, la darà non per estrinsecare la sua espressione (che in quel momento
non esiste), ma quasi a prova e per avere un semplice punto di appoggio
all’ulteriore meditazione e concentrazione interna»[75].
Evidentemente, per l’idealista
l’interesse verso il contenuto non può che essere limitato. Il contenuto (la
materia) all’inizio non ha qualità, ma solo aggregazioni di quantità. La
qualità, che trasforma la materia in contenuto estetico, cioè nella materia di
un’opera d’arte, acquista qualità soltanto quando noi lo conosciamo, cioè
quando, attraverso l’espressione, se ne è costituita una forma. Per questa
ragione «l’atto estetico è forma»[76]
e si può conoscere intuitivamente solo attraverso l’intervento di una forma
espressiva.
Sembrerebbe qui aggiungersi una
ulteriore variante, come
La musica è esempio privilegiato
rispetto alle altre arti, utile a smascherare l’illusione di una intuizione che
venga a patti con l’abilità meccanica e meramente tecnica dell’artista. Questa
illusione, secondo Croce, si costituisce meno facilmente per le espressioni
musicali, perché « a ognuno parrebbe strano il dire che a un motivo, il quale è
già nell’animo di chi non è compositore, il compositore aggiunga o appiccichi
le note; quasi che l’intuizione di Beethoven non fosse, per esempio,
Oggetto dell’estetica è propriamente
questa conoscenza intuitiva-espressiva, perché l’opera d’arte non può
costituirsi che attraverso una forma; e si intuisce veramente quando si è in
grado di attribuire una forma alla nostra intuizione. L’abilità tecnica è
quindi meramente riproduttiva.
Questa duplicità del concetto di intuizione, che
sembra sfuggire all’analisi dell’estetica di Croce tentata da Umberto Eco[78],
pare riaffermata da Croce quando si occupa della differenza tra un pensiero
comunicabile e uno poco comunicabile, anche se quest’ultimo viene presentato
ancora come espressione: «(...) talora noi abbiamo pensieri in una forma
intuitiva, la quale è un’espressione abbreviata o meglio peculiare, bastevole a
noi, ma non sufficiente a comunicarli con facilità a un’altra persona
determinata o a più altre persone determinate. Onde inesattamente si dice che
abbiamo il pensiero e non l’espressione; quando propriamente si dovrebbe dire che abbiamo, sì,
l’espressione, ma un’espressione che non è ancora facilmente comunicabile. Il
che è, per altro, un fatto assai mutevole e relativo: vi ha sempre chi coglie a
volo il nostro pensiero, e lo preferisce in quella forma abbreviata, e
s’infastidirebbe dell’altra più sviluppata gradita ad altri. In altri termini,
il pensiero, logicamente e astrattamente considerato, sarà a un dipresso il
medesimo, ma esteticamente si tratta di due intuizioni o espressioni diverse,
in ciascuna delle quali entrano elementi psichici diversi»[79].
Un percorso aperto è nell’ipotesi di un’espressione che, essendo bastevole a noi soltanto, tanto da
non riuscire ad essere comunicabile, si
trasforma in qualcosa di molto simile all’intuizione pura, quella che sembra
quasi sottrarsi alla contemplazione dello spirito per sfiorare l’oscurità
dell’anima: se «sentimenti e impressioni passano, per virtù della parola,
dall’oscura regione della psiche alla chiarezza dello spirito contemplatore»[80]
come consegnare all’espressione un’intuizione non facilmente comunicabile, o
non comunicabile, al punto da potersi annotare soltanto in forma abbreviata? È
un tema di grande interesse, che ci ha occupato anche in altrei lavori. Croce
arriva ad intuire l’esistenza di una zona in cui l’intuizione è poco
comunicabile, e appartiene ad una qualità psichica empirica ma personale. Il
gradino successivo, decisamente negato, ma previsto da Croce, è quello di
un’intuizione che, prescindendo dall’espressione sia tuttavia in grado di
raggiungere un significato estetico, come ad esempio attraverso la mistica
contemplazione di una bellezza accessibile e tuttavia incomunicabile. La resa,
su questo punto, sembra accettata: se per estetica della bellezza pura «si
intende qualcosa di mistico o di trascendente (...) ma non già espressivo;
dobbiamo rispondere che, plaudendo al concetto di una bellezza, pura di tutto
ciò che non sia la forma spirituale dell’espressione, non sapremmo concepire
una bellezza superiore a questa»[81].
Influenze e reazioni
Dal punto di vista dell’estetica
musicale, fu grazie all’influenza crociana se la reazione alla Musikwissenschaft
fu in Italia così pronta ed esauriente. Difatti, anche se Croce si interessò
soltanto sporadicamente alla musica nella sua specificità, molti fecero capo
alla sua metodologia per sviluppare in modo anche originale certe implicazioni
musicali.
Fausto Torrefranca ne La vita musicale dello spirito deve molto a Croce, dal momento che sembra
condividere la concezione dell’arte come momento intuitivo dello spirito,
assegnando tuttavia alla musica una priorità spirituale dovuta ad un maggior
grado di solvibilità e ineffabilità. Anche per Torrefranca la tecnica, sempre
mediatrice dell’intuizione pura, è estranea all’interiorità dell’accadimento
estetico[82].
Alfredo Parente porrà invece
l’accento sull’altro tema crociano, quello della profonda unità delle arti. Per
Croce, come è noto, «le arti non hanno limiti estetici, giacché, per averli,
dovrebbero avere anche esistenza estetica nella loro particolarità»[83].
Le partizioni tentate da alcuni hanno genesi empirica e, di conseguenza, «è
assurdo ogni tentativo di classificazione delle arti»[84].
Per Parente la tecnica assume un secondario ruolo di traduzione della facoltà
lirica che nasce invece sempre «indipendentemente dal problema della materiale
traduzione o esecuzione dell’arte». Enrico Fubini, nella sua storia
dell’estetica musicale, ritiene che Parente
conduca all’estremo del paradosso questa lontananza da tutto ciò che è materia
e tecnica strumentale o esecutiva; ad esempio, la conoscenza della tecnica
strumentale del violino è indifferente alla composizione di un brano
pensato per quello stesso strumento. A
noi non pare fondata la mediazione tecnica nemmeno nel caso, accettato da
Fubini, in cui un musicista prenda una via tecnica differente che risponda
meglio alla sua vocazione: la materia sembra anche qui poter svolgere un
essenziale punto d’appoggio per la precisazione dell’intuizione.
Vicino a Croce, almeno in un primo
momento, anche il meno conosciuto critico e compositore Giannotto Bastianelli,
che vede un momento di fortuna critica grazie all’interessamento di Marcello De
Angelis e di Miriam Omodeo Donadoni, recentemente scomparsa, allieva di Casella
ma elettivamente portatrice dell’opera di Bastianelli. Estremamente
interessante è la sua relazione con Croce, inizialmente grata al punto da
chiedergli lumi per costituire la parte estetica della Rivista musicale
italiana: la comunanza nasceva soprattutto per la metodologia critica e storica
introdotta da Croce negli studi letterari e che Bastianelli intendeva applicare
anche a quelli musicologici[85].
Ma il compositore andò via via allontanandosi da Croce, tanto da annotare nei
suoi Appunti filosofici inediti del 1925,
pubblicati dalla Donadoni Omodeo, che
la filosofia crociana gli appariva «troppo schiava del reale e della
storia» e quindi difettosa di una vera possibilità metafisica[86].
Eppure, anche Bastianelli non dimentica di indicare che i quattro gradi
crociani, accoppiati, sembrano corrispondere alle due generazioni teologiche
intellettiva e volitiva; e che il termine usato da Croce per collegare la diade
arte-filosofia è «scintilla»; una immagine molto simile a quella usata dai teologi,
di «spirazione» del vento.
Altra insofferenza del compositore,
che ne segnala anche la sconvolgente attualità, è nell’altro appunto critico
all’idealismo: «una norma dell’azione d’origine eterogenea alla nostra limitata
umanità, che è natura creata e non creante, per l’idealismo non ci può essere,
la vita morale essendo come ogni altra forma di attività dello spirito,
creazione individuale»[87].
Ecco che sembrerebbe ritornare
quella possibilità, che appartiene però alla sensibilità estetica contemporanea,
di individuare la qualità estetica, ciò che rende tale un’opera d’arte, non
tanto nella complessità degli insiemi utilizzati, o nella specie dei materiali,
ma nella capacità di rinvio ad altro dell’opera, la sua qualità
eteroreferenziale[88].
Essa sembrerebbe, anche nella prospettiva proveniente dalla ‘linea italiana’
qui esaminata, l’unica qualità estetica in grado di sopravvivere alla
dichiarata morte dell’arte.
IL
CERCHIO SULLA LINEA
Inizio con una generalizzazione: la
critica musicale ha fatto propria la distinzione di Adorno tra Kultur (cultura) e Zivilisation (civilizzazione), assimilando alla cultura (e al
compito dell’intellettuale critico) il lavoro ‘progressista’ di Schönberg
(novità, complessità, sviluppo lineare) ed alla civilizzazione quello
‘reazionario’ di Stravinskij (barbarismo, citazione, ritorno al passato).
Ogni studioso, ogni compositore, ha
fatto osservazioni su questa distinzione di Adorno, dando per scontato che
tutte le conseguenze ed i corollari che da tale sta distinzione promanano
(reificazione e mercificazione dell’opera, scarso gradimento per generi che non
fossero puri, idiosincrasia per il jazz, per le trascrizioni, per il
cinematografo e la sua musica) fossero indiscutibili.
A me pare, invece, che sia giunto il
momento per tentare una decostruzione del pensiero adorniano, che è soltanto
apparentemente asistematico, ma che in
realtà è azionato da una logica seriale (uno strutturalismo costruttivo) molto
forte. La figura divergente di Giacinto Scelsi può esserne un esempio.
Una obiezione di fondo va mossa alle
valutazioni di Adorno: dove risiede la qualità che consegna un’opera o un
autore alla categoria della cultura o a quella della civilizzazione? Non è
pregiudiziale e indimostrabile dire che soltanto certe produzioni siano utili a
risvegliare il senso critico dell’intellettuale, a fargli evitare di chiudere
gli occhi sulla realtà del processo dialettico negativo, sulla effettività di
un mondo mal conciliato? Ripeto: dove risiede la qualità dell’opera?
Si è già indicato, partendo da uno spunto
crociano e non disdegnando d’ammiccare alle moderne teorie (francesi)
sull’alterità, che questa qualità non può che alloggiare nell’eteroriferimento
dell’opera, nell’uscita dal sistema, nella possibilità di procedere non per
successioni numeriche (quantità) ma per balzi di senso e di significato
(qualità).
Qui basterà dire che, contrariamente
a quanto prospettato da Adorno, mentre l’opera di Schönberg rappresenta un
grado di sviluppo ancora lineare (più volte egli stesso lo dichiara, parlando
della dodecafonia come di uno sviluppo assolutamente conseguenziale, ‘naturale’
ed inevitabile), l’opera di Stravinskij rappresenta un tipo di sviluppo
extralineare, simile ai mille piani di Deleuze e Guattari, o alle pause del
discorso di Foucault. Non è questo il momento per approfondire questa
distinzione: ma mi preme rilevare come,
invece, la ricerca di Giacinto Scelsi sia stata sempre orientata dal senso del
centro, dell’unità, del suono inteso in senso spettrale. Di conseguenza, se è
possibile considerare l’opera di Schönberg ‘in-linea’, e quella di Stravinskij
‘fuori-linea’, quella di Scelsi mi pare, propriamente, ‘circolare’, simile al
suono ‘rotondo’ che egli pretendeva dai suoi esecutori.
Fatta questa premessa, e sapendo
bene che Scelsi odiava le parole sulla
sua musica e le presentazioni ai concerti, darò soltanto alcune cifre, per
segnalare quanto sia stato assurdo il
silenzio critico sul suo lavoro.
Scelsi nasce a La Spezia nel 1905;
studia composizione con Ottorino Respighi e Alfredo Casella; studia inoltre
tecnica dodecafonica con Walter Klein;
scrive il suo primo lavoro dodecafonico nel 1936, prima della ‘conversione’ allo spessore del suono
‘unico’, e ben prima di Dallapiccola:
così risulta tra i primi italiani, se non il primo per quel che ne so, a
recepirla. È stato tra i primi ad
organizzare, con Petrassi, concerti di musica d’avanguardia. Non è mai stato,
in vita, eseguito nelle stagioni ufficiali, ed è stato ignorato dalla RAI («Qui
in Italia la RAI non fa niente»). Il suo primo disco esce quando aveva ben 66
anni. Scelsi, di origini nobiliari, era per sua fortuna ricchissimo: però non
utilizzò mai i suoi soldi per pagarsi delle esecuzioni. Fu in contatto con i
più importanti scrittori francesi: tra cui Henri Michaux, lo scrittore che
influenzò Deleuze e Guattari, ma conobbe anche Guènon, e stimò Steiner ed
Evola. Ligeti gli disse: «la sua musica mi ha influenzato molto»; Donatoni lo
considera uno dei tre grandi compositori italiani nati all’inizio del secolo. Gyorgy
Kurtag si «considera un suo adepto». Metzger ritiene che «la scoperta di Scelsi
avrà incommensurabili conseguenze per il futuro della composizione». Cage dice
di lui: «La cosa più interessante che penso della musica di Scelsi è la
concentrazione raggiunta su un singolo suono. Non conosco nessuno che ha fatto
ciò che ha fatto Scelsi». Boulez lo salutava affabilmente, ma poi faceva
eseguire solo musiche di propri allievi (anche solo ‘elettivi’). Solo dopo la
morte (sopraggiunta il 9 agosto del 1988, ed anticipata agli amici in modo
quasi esoterico dal compositore) la rivista dell’IRCAM ospita un saggio di
Zoltan Pesko che ne dice mirabilie.
Scelsi non si considerò mai un
compositore, ma un intermediario, usava il suono per lanciarsi all’interno di
sé stesso: basta leggere Michaux per capirlo.
Diceva di sé: «si arriva ovunque con
la negazione, è tutta una tecnica: non sei questo, non sei neppure questo. Sei
il tuo corpo? No, non sono il mio corpo. Sei i tuoi affetti, i tuoi sentimenti?
No, essi sono completamente cambiati da molto tempo. Sei il tuo intelletto? No,
pensavo una volta, ma ora penso in modo completamente diverso. Allora cosa sei?
Ebbene, ciò che resta...»[89].
A Scelsi non importava molto il
riconoscimento ufficiale, ma a noi non resta che constatare come ancora una
volta la coltre di silenzio calata sulla
produzione di musicisti importantissimi non ha impedito, ed ha anzi favorito,
l’eccezionalità dell’opera e la coerenza del pensiero, pagate il più delle
volte con la vita stessa. Figure solo apparentemente marginali, ma poi nella
realtà costitutive della realtà più vera del tessuto musicale italiano,
disegnano una ghirlanda di memorie inconciliate, riferimento certo per quanti
svolgono la propria ricerca in modo rizomatico, sotterraneo. I nomi di Luciano
Cilio,
Verso
nuove coerenze
Già la dicitura ‘musica
contemporanea’, al singolare, sembrerebbe affermare la distinzione tra una
produzione ‘doc’ qualificata dalla militanza sperimentalistica (o dai canali
didattici istituzionali), ed una profusione d’altra musica, sistematicamente
ridotta entro i confini di genere, e
rappresentata da etichette che, si sa, prima o poi finiscono per essere
superate per tempi e invenzioni velocissime, senza mai riuscire ad avere quella
‘consacrazione’ di eternità tipica delle opere d’arte di un glorioso passato
musicale. Né soddisfa il ricorso all’immagine di «nuova musica», come se
bastasse il crisma della novità a conferire un significato all’opera.
Si capisce, così, che Konsequenz
esprime da un lato la saturazione di una cultura musicale che s’è nutrita a
sufficienza delle litanie sul consumo, la reificazione, l’imbarbarimento
dell’arte, dimenticando spesso che erano pronunciate nel deliberato intento di
promuovere uno soltanto dei modi di comporre; dall’altro rappresenta la presa
d’appoggio per riconsiderare le vicende della produzione attuale, questa volta
senza barriere ideologiche e costruzioni gerarchiche.
L’arroganza, lo spirito d’intolleranza,
le sviste storiche[90]
e teoriche[91] di
alcuni scritti di Adorno, soprattutto laddove si realizza un confronto con il
jazz, la cinematografia, le trascrizioni non autorizzate, la musica
giovanilistica, e in genere con qualsiasi autore potesse fare ombra su quelli
da lui prediletti, furono effetto di un metodo solo in apparenza asistematico e
micrologico. La micrologia nascondeva l’esistenza di minuscole entità
numeriche, simili alle cellule musicali che sarebbero state usate dagli
strutturalisti, poi organizzate in un insieme più che logico, e soltanto in apparenza asistematico. Basta
confrontare i testi delle conferenze con quelli destinati alla pubblicazione, o
considerare la Teoria estetica per
quel che è: un work in progress[92]
la cui ferrea progressione risulta
spezzata per eventi incontrollabili. Temi dominanti, quasi seriali, si
rincorrono lungo gli anni per gli scritti del francofortese[93],
e non è un caso che egli venga oggi accostato ad un altro autore seriale,
Michel Foucault[94]. Lo
strutturalismo ed il positivismo, aldilà delle aperte dichiarazioni di ostilità
provenienti da Adorno, si fa serie in Foucault attraverso la nozione di
sviluppo lineare (sub-infra-lineare, pieghe del discorso, etc.), indovinata da Deleuze, ed ispirata forse alle descrizioni poetiche di Henry Michaux[95].
Ed una corrispondenza, naturalmente univoca, proclamava Foucault,
rammaricandosi di aver conosciuto solo in vecchiaia il lavoro di Adorno.
Ancora disagio provoca la
tradizionale dicotomia tra Stravinskij e Schönberg, proposta come
inconciliabile opposizione di estremi. Sfuggiva al nostro che l’ Harmonielehre parla di una continuità
quasi naturalistica tra l’armonia tradizionale e l’invenzione del linguaggio
con dodici suoni[96].
Anche il collante tra passato e futuro, la forma, ci appare nella scia della
tradizione. Insomma, lo sviluppo che Schönberg ha propiziato risulta infine
lineare, conseguenziale, necessario[97].
Per prolungare la metafora attraverso Deleuze e Guattari, è sviluppo
arborescente, nato e pasciuto su solide radici, infine venuto alla luce del
sole sotto forma di fragili ramoscelli[98]. Quello di Stravinskij (ma anche altri fecero
molto in questa direzione) è uno sviluppo non rettilineo, stratificato,
proteiforme, multidirezionale. Il suo modello è rizomatico, simile a funghi o
radici che si sviluppano in modo indipendente, e tale da consentire un piano
eteroreferenziale di gran lunga più interessante e vario di quello
schönberghiano.
Del resto, col senno di poi, si può
leggere retrospettivamente la storia recente per valutare quanto le tesi di
Adorno dovessero essere smentite dai fatti concreti della produzione e
fruizione musicale.
Difatti, l’eterogeneità degli stili,
l’arte della citazione portata agli estremi, la stessa confusione e contaminazione tra generi, non doveva
condurre ad un imbarbarimento (anche
perché di un vero e proprio «imbarbarimento» non avrebbe forse senso parlare)
ma ad un ampliamento di consapevolezza, ad una visione multietnica dai
linguaggi variegati e pluriformi. Come nell’era della multimedialità virtuale
(ma anche reale e concreta), non ha più senso parlare di purezza di una razza,
o di salvaguardia di una cultura che si distingue tra le altre, così non avrà -
ed effettivamente i dati di vendita lo dimostrano - non ha più motivo di
esistere una differenza gerarchica tra i prodotti e le creazioni
artistiche. Ciò non vuol dire affatto
che una qualità non esista, o non possa esistere: essa risiederà però, più
propriamente, nella capacità dell’opera di rinviare ad altro, di rimandare al
diverso, di richiamare una realtà nuova che non ha più nulla in comune con la
salvaguardia di un’etnia in particolare, ma che parla per un villaggio globale
della comunicazione, la quale è relazione fra sé ed altro. Non più una qualità
per insiemi numerici di contenuti o per organizzazione formale di contenenti,
ma ‘qualità’ come eteroreferenzialità.
Non si fa qui soltanto teoria: se si
osservano le classifiche discografiche, oppure, in modo non mediato (aggirando
cioè le presunte influenze dell’industria), si registrano le reazioni del
pubblico in una sala da concerto, si può notare: a- un calo delle vendite e
dell’attenzione rispetto alle produzioni cosiddette di ‘repertorio’; b-
soltanto la parziale sopravvivenza delle produzioni monografiche e/o relative
ad autori o brani poco conosciuti, rari,
sconosciuti; c- la saturazione anche di generi come il jazz o il rock.
Contemporaneamente, pare si stia
effettivamente concretizzando un fenomeno di inversione di tendenza (sintropia)
in merito alla cosiddetta morte dell’arte (entropia): vendono maggiormente, e
appaiono radicate nella nostra cultura massmediale quelle composizioni che non
attuano più una finzione di autonomia, di costituzione unitaria; opere, cioè,
che sono più ‘autentiche’ perchè riescono a non ignorare l’altro, il diverso,
il quale ci è intorno grazie alla intermediazione di strumenti di eccezionale
velocità di comunicazione. In ciò, l’industria ha una parte importantissima,
veicolare. E la stessa vendita non fa che contribuire all’accelerazione verso
il villaggio globale. Inoltre, se gli investimenti in direzione della ricerca
sono possibili soltanto in ragione della vendibilità di un prodotto,
quest’ultimo è effettivamente vendibile quando riesce ad essere interstiziale
con la realtà, cogliendone anche gli aspetti di con/fusione, di irradiamento
sociale, di velocità televisiva o telematica. Il futuro vedrà il successo degli
ipertesti, delle favole interattive, delle opere in cui il linguaggio farà
posto ad un discorso non più articolato, ma frammentario e strumentale ad ogni
esigenza. Gli ascolti verranno diversificati, scegliendo atmosfere
differenti per ciascuna finalità. Una
musica per ogni possibile uso.
Anche la ricerca fine a sé stessa,
gli aridi sperimentalismi di un lungo periodo decadente, in questa diversa
prospettiva, e grazie ai segnali che si colgono proprio nell’ambito ancora dei
generi, ci sembra finita, nel senso che ci pare finalmente incanalata al
servizio della relazione, del rapporto, e svincolata dall’assurda corsa alla
novità per la novità, spesso incapace di trasmettere alcunché. Pare finalmente
che essa torni ad una forma di spontaneità d’applicazione. Le sale deserte, le
provocazioni dello sperimentalismo, la noia di lunghe serate dedicate alla
‘musica contemporanea’ che si trascinavano senza vita e senza entusiasmo ci
paiono lontane mille miglia da quanto può avere successo, e vendere, e quindi
essere ‘connesso’ con le nostre esigenze di ampliamento multidirezionale, di
irradiamento rizomatico, di perlustrazione infrastratica. L’uniformità,
l’unidirezionalità, ha stancato tutti. Occorre dirigersi con coraggio verso
l’esplorazione dell’infinitamente coesteso, che è anche musica di consumo,
musica benedetta, se il consumo rappresenta una parte delle nostre esigenze. L’irradiamento,
infine, non esclude la possibilità di continuare ad esplorare, senza
dichiararle esaurite, le diverse unità lineari. Dopotutto, nulla vieta gli
estremi filologismi, le analisi comparate fra le mille esecuzioni possibili dei
centomila interpreti esistenti, le infinite variazioni numeriche degli
strutturalisti più rigorosi. Oggi nessuno si scandalizza se esistono gruppi di
musica rinascimentale, e un successo commerciale può essere raccolto anche da
antiche sequenze, eseguite da fulgide star: monaci raccolti in
preghiera. Ogni ironia scompare se si ripone il giudizio di valore (la qualità)
nella capacità di rimandare ad altro, senza confonderla con la quantità, che è
data dalla complessità dell’insieme considerato.
Quindi:
1- Deve essere possibile
un’osservazione dell’opera senza aver precostituito alcuna categoria:
l’appartenenza ad una industria culturale, la sua strategicità nell’ambito del
gioco potere/sapere, la vendibilità,
seguono ad una qualificazione derivante unicamente dalla capacità del rinvio ad
altro.
2- Le opere ‘commerciali’ (per
accessibilità, ripetitività, fruibilità, modularità...), costruite ad hoc dall’industria culturale, non
vanno sottovalutate. Già procedendo negativamente, non è detto che non possano
avere ‘qualità’ estetiche di tipo anche tradizionale; inoltre, per il fatto di
essere ‘costruite’ per la vendita, andrà considerata attentamente la complessa
strategia di marketing che consente un aggancio privilegiato con l’esterno.
3- Permangono, evidentemente, anche
delle ragioni insite nel carattere
intrinseco dell’opera che giustificano la sua immediata veicolazione, la
capacità esponenziale di rimandare ad un infinito potenziale di riferimenti. I
più giovani consumatori di musica leggera sono capaci di ‘datare’ la merce che
vien loro proposta. Essi riescono a storicizzare l’opera, spesso ricorrendo
allo strumento di un linguaggio non lineare, rivolgendosi piuttosto agli
elementi costitutivi del prodotto (ad esempio al timbro usato, o alla
perfezione dei ‘bit’, o degli impulsi ritmici più piccoli: meraviglie
consentite dall’uso dei più aggiornati software musicali anche domestici
): se ciò avviene, vuol dire che le
opere preconfezionate dall’industria (e piena dignità estetica hanno anche gli
‘stacchetti’ pubblicitari) sono collocabili in un tempo determinato, e devono
soddisfare esigenze sempre diverse dei più giovani fruitori.
4- Opere differenti con agganci
multipli ed incrociati riescono già per ragioni costitutive a connettersi
con facilità ai molteplici piani del
quotidiano, riuscendo a comunicare stati d’animo differenti per ciascuna
necessità ed occasione.
Esse saranno maggiormente vendibili
con gran soddisfazione di tutti.
MOLTE
LINEE
PERCORSI TRA MUSICA E
FOLLIA
Mi sono imbattuto, quasi per caso,
in una frase inedita di Giuseppe Chiari, animatore del mitico gruppo FLUXUS
(Chiari fu a Wiesbaden, nel ‘62, uno dei suoi fondatori): «Per molto tempo ho
pensato che era in discussione la parola musica. / Mi sono sbagliato e ho
perduto dal 1960 una lunga linea. / Non era la parola musica sul tavolo ma la
parola musicista. / Avevano rubato la parola musicista e se la tenevano
stretta. / E oggi -1990 - dobbiamo cercare di strapparla. Dobbiamo abituare la
gente a chiamarci musicisti. / Passeremo per illusi, ma non importa. / Ciò che
importa è che dilaghi l’idea che i musicisti -oggi cosiddetti tali- sono dei
folli».
Mi ha subito colpito un tracciato,
che avevo già ipotizzato a proposito della chiusa del Doktor Faustus manniano (alla metà degli Ottanta era di moda
permutare i romanzi di Mann): la follia di Leverkühn, le ali di Hetaera esmeralda, una malattia
gravissima per lo spirito creativo, infine la morte, tale soltanto perché
silenzio. Già allora si era offerto alla riflessione, ripresentandosi in più luoghi
di scrittura, un tracciato ludico, vale a dire poco più che giocoso, tra arte
come verità inaccessibile ma comunicabile e arte quale verità incomunicabile ma
accessibile. Volevo immaginare un artista che è tale soltanto per un modo
particolare di sentire, e non per quello che avrebbe potuto ‘produrre’. Oggi comincio a pensare, senza alcuna
ipocrisia, che potrebbe esistere un artista ch’è tale per il suo modo di
produrre (e di vendere) e non per quello che è in grado di sentire. Il
paradosso, detto e contraddetto, non è
qui soltanto linguistico, ma rappresenta una convinzione per la quale l’opera
potrebbe apparire realmente svincolata dalla dualità tra valore d’uso e di
scambio, mantenendo ambedue e consegnando una qualità o validità estetica a
qualcosa che sia consapevole della accaduta vicenda postmoderna.
Ma procediamo per gradi, perché il
percorso potrebbe risultare più affascinante rinunciando ad affermazioni
apodittiche. Il nesso musicista-follia passa per la consapevolezza di Chiari di
aver «perduto una lunga linea»: s’era occupato di musica e non di musicisti.
Aveva pensato al prodotto più che all’operaio. L’errore, suggerirà col suo
stile unico, quasi cageano, era quello di non vedere che esistevano ‘anche’
musicisti che in realtà avevano riprodotto le ragioni di una scuola, di un
repertorio già consolidato, di un sapere già attestato e consumato. Essi
davvero «riproducevano», perché il loro lavoro (l’unico che la gente riesce a
considerare tale, perché le altre occupazioni sonore vengono semplicisticamente
chiamate svaghi) era quello di ‘copiare’ e far nuovamente sentire: brani di
altri che assumessero forme simili e filologicamente coerenti con l’idea che in
quel periodo si aveva di quel particolare compositore (già morto, già
‘radicato’, già assimilato e digerito dalla ‘elite’ dei frequentatori lirici).
I ‘copisti’, alla lunga, furono considerati musicisti. Ed i musicisti veri
fecero di tutto tranne che vivere di musica; ovverossia, vivere di musica
composta oggi. È un gioco molto serio il fatto che oggi esistano invece veri
musicisti che ‘copiano’ deliberatamente, che lo dichiarano e ciononostante
riescano a mantenere la loro originalità e coerenza (conseguenzialità, in
simpatia con Konsequenz)
Ma il discorso poteva essere portato
oltre, o su un altro piano: la musica contemporanea, negli anni Settanta, era
davvero ‘in linea’, ferocemente inchiavardata nelle asfittiche convinzioni
adorniane, sulle prassi della Seconda scuola di Vienna (ma soprattutto sulla
rigidità del secondo Schönberg) e sulle pratiche esecutive di Darmstadt. Ognuno
pensava di dover fare di tutto per convincere il mondo della musica (classica)
dell’esistenza di una naturalità conseguenziale tra il cromatismo mahleriano e lo sviluppo dodecafonico.
Per questa ragione Schönberg avrebbe volentieri strangolato Thomas Mann, non
appena Alma Mahler gli ebbe spettegolato il contenuto del romanzo (da lui mai
letto): ma come, faccio tanto (ponderosi volumi di armonia e relazioni
funzionali...) per dimostrare la ‘naturalità’ della disciplina dodecafonica, e
questo artista decadente, paramusicista, al quale Teodoro ha dato qualche
consiglio, che mi combina? mi fa vendere
l’anima, mi lascia inventare una nuova arte del comporre, e infine mi fa impazzire?
Tutti gli sforzi dello Schönberg di
Adorno per restare ‘in linea’, eccoli miseramente scivolare sulla lucidità ed
immaginazione dello scrittore. Ma in realtà
Thomas Mann gli aveva fatto un favore, portando alle estreme conseguenze
quello che propria Adorno aveva scritto nella Filosofia della Nuova Musica: che Stravinskij fosse da condannare
perché non consequenziale’ (sic, con la q)
e Schönberg da acclamare perché rigorosamente tutto d’un pezzo. Stravinskij era
‘fuori linea’, Schönberg restava ‘in linea’.
E tutta l’avanguardia successiva, con poche eccezioni, è rimasta
adorniana, poi darmstadtiana, assolutamente lineare e razionale. Qualcuno è
riuscito ad essere sferico: e mi riferisco all’opera di Giacinto Scelsi, in
parte a Ligeti, ma non a Cage (una cosa
è l’aleatorietà, altra la casualità, come suggeriva già Franco Evangelisti).
Eppure, la musica contemporanea che sta rinascendo (cioè sta ‘vendendo’ con
successo migliaia di compact), è quella infralineare, sublineare, sopralineare.
Quella che attua, insomma, i celebri “mille piani”.
Il curioso è che, incrociando tutti i sentieri, si vedrà che quest’idea di ‘linea’ e di ‘fuori-linea’ veniva già esposta in molti luoghi da Henri Michaux. Pensando alle sue spoliazioni, un giorno immaginai questa stringa: «Stille infinite/sime. / Si è / Frammentati / per estremi / estesi».
Linee vanno oltre di sé, e ci
avevano suggerito una possibile meta finale di una analisi estetica davvero
contemporanea: la qualità infine ricercata nell’eteroiferimento, nell’uscita
dal sistema chiuso dell’opera, nel rinvio ad altro. Il luogo mirabile di queste
‘esposizioni’ è nel Miserabile Miracolo
pubblicato nel ‘56. Similitudini con i Mille
piani di Deleuze-Guattari: «Rieccolo come prima, con piani (infiniti ma non
vertiginosi. Per questo sarebbe necessario un senso delle distanze e della
profondità che non possiedo e di cui, in questo caso, sono del tutto
sprovvisto) da non poterli contare, con mille strati di mattoni spasmodici,
tremante e oscillante rovina, balbettante, Borobudur». Altre assonanze vengono
rivelate da Deleuze, quando nella
mirabolante monografia dedicata a Michel Foucault dichiara il suo debito verso
Michaux. Esistono singolarità selvagge, «non ancora legate, anch’esse sulla
linea del fuori e che ribollono proprio al di sotto dell’incrinatura»; si
tratta della linea di Melville o di quella di Michaux. E se andiamo alle fonti,
ecco l’originale, intrecciato al suo doppio: «Linee, sempre di più, linee di
cui non so se sul serio io le veda»; «Là, dove non c’è più nient’altro che il
proprio essere, là, era. Là, a una velocità delirante, centinaia di linee di
forza strigliavano il mio essere»; «L’orrore consisteva soprattutto in questo,
che ero soltanto una linea. Nella vita normale si è sfera, una sfera che scopre
panorami»; «Essere diventato linea era catastrofico, ma ancora di più, se
possibile, era inatteso, prodigioso».
Mille sfumature restringono o
allargano il campo, nella visione mescalinica di Michaux. Ma è sorprendente che
il passo successivo, l’assoluta conseguenza dell’essere una linea, sia collegato
direttamente alla follia: «La lampada accanto allo specchio mi mostrò una testa
che non avevo mai visto, la testa di un pazzo furioso (...) Ormai deve essere
questione di minuti. Perciò mi era venuta quella calma, la calma grave di chi è
responsabile di un pazzo pericoloso, questo infatti mutava la mia situazione.
Nell’atrocità potevo venire gravemente colpito anche in modo diverso. È vasto,
un uomo». Il pensiero lineare risulta di per sé consegnato al baratro. E non
meraviglia la fine del compositore immaginario Leverkühn-Mann-Adorno, né la
presenza di zone di silenzio (prima aforistiche) sempre più ampie in Webern,
dal momento che l’estensione della logica occidentale genera nella musica il
crepaccio della ricerca dell’inutile novità, della sperimentazione per la
sperimentazione, della morte dell’arte e per l’arte.
La storia dell’avanguardia è quella
del fallimento di alcuni dettami imposti proprio dallo snobismo francofortese,
che fortemente come musicisti ricusiamo, criticando il crisma evangelico della
‘novità’. Per anni s’è gareggiato nel percuotere il pianoforte o il
contrabbasso in un modo nuovo, cercando tecniche e suoni mai utilizzati, e
costruendoci sopra pezzi incredibilmente prolissi e noisi (le stesse
acquisizioni, utilizzate con maggiore naturalezza e con qualche sforbiciata,
avrebbero potuto generare capolavori). Il problema del compositore, all’atto di
prendere carta e matita, è stato innanzitutto quello di produrre opere
inaudite. S’è evitata come il demonio la
scrittura già sentita, orecchiata e ‘riferibile’ ad altro, temendo la
compromissione, la confusione,
Altri, soprattutto americani di
scuola europea, sono attenti a costituire un ‘repertorio’, scrivono il numero
d’opus dopo aver indicato diligentemente la forma, come se fossero ancora lì a
portare fogli sgualciti al maestrucolo di conservatorio. Non è questo il cross-over:
novità e repertorio andranno presto a farsi benedire altrove, non troveranno
posto in un sistema che usa Internet per veicolare suoni, immagini, notizie,
contaminandole ad ogni passaggio. Il prodotto di molti CD-Rom è multimediale,
ma è anche a struttura aperta, perché consente di entrare e uscire dal
sistema a piacimento. E alla fine anche la nozione di ‘autore’ perderà
peso, verrà sostituita con quella di ideamakers,
lanciatori di semi, ideatori di standards, unità particellari su un piano
multistratico, dove sarà inessenziale il pretesto, perché conterà l’ipertesto.
Si sta parlando di villaggio
globale, alludendo soltanto ad alcune possibilità, e rimandando invece ad un
visionario libretto di Elemire Zolla, i tre Discorsi metafisici, per
fantasticare sul futuro più lontano (davvero virtuale?) che ci attende. Un
nuovo mondo con strutture al silicio, come suggeriva sempre Deleuze, lontano
dalle piramidi e dalle gerarchie del carbonio.
Resettare questi insiemi di
quantità, allargare i confini, al di là della seduzione ludica e fantasiosa del
folle (quest’immagine è presente anche in Goethe, nella celebre immagine
dell’uomo che raccoglie fiori del Werther), e al di là dell’ eteroreferenzialità
necessariamente intrinseca alla stessa
nozione di pazzia (nonsense, limerick), allargarli cioè già dal luogo della
consapevolezza, significa gettare uno sguardo nuovo sull’arte.
Questa consapevolezza non resta
confinata nell’ambito della filosofia o della teoria: qui si tratta di mercato,
vendibilità del prodotto/merce, rappresentabilità di opere nei teatri e nelle
piazze. Non c’entra nulla, però, il liberismo: la tecnologia mediatica sta già
azzerando le idealità contrapposte (sostituendovi gruppi di potere antagonisti,
e davvero la nozione è foucaltiana), e l’home
computer tradurrà l’attuale
rappresentatività parlamentare in efficacia d’intervento e voto diretto per ciascuno. Chi non ha compreso il ruolo
dell’immagine, e del tecnologico, nell’avvento della società ‘civilizzata’ (la
quale assolutamente non rema contro quella acculturata, come sostiene Adorno),
affonda inesorabilmente nella sconfitta ad ogni tornata elettorale. Molti
farebbero bene a rileggere quanto profetizzato da molti altri profeti dell’era
virtuale.
Una gran quantità di fuori-linea,
fuori-margine, glosse, seppellirà la nozione tradizionale di opera lineare,
senza abdicare alla nozione di qualità, ma semplicemente spostando la ricerca
di quest’ultima dal luogo della enumerazione lineare al metaluogo della
(impossibile) ricostruzione frattale. Insiemi saranno ‘coestensivi’,
consistenti in molteplici piani, con più linee incrociate, confuse,
vicendevolmente contaminate. Fino al punto da creare figure geometriche
assurde, contraddittorie, ma incredibilmente ancora belle, sempre capaci di
alludere ad un senso (un ‘senso’: una direzione, un movimento verso qualcosa
d’altro). Queste sono le ragioni del cross-over, dei ‘plurali’, delle
contaminazioni auspicate dalla nuova estetica. Essa non manca di prendere le
distanze dalle interpretazioni deboli che son germogliate dai seguaci di
alcuni autori anche qui menzionati, i
quali in misura diversa hanno operato correttivi su visioni invece parziali,
così come doveva essere per saperi che si volevano prospettici. Ciò implicherà
un notevole sforzo di preveggenza, e un po’ di follia, per gli operatori culturali ad ogni livello di produzione e
distribuzione. Parecchio già si sta muovendo, ed è inevitabile che ci coinvolga
tutti.
Michaux: «Segni non per ritornare
indietro / ma per meglio oltrepassare la linea in ogni istante».
ESTETICHE
DEL PLAGIO
Menu
Michel Jackson copia
(?) Al Bano. Patty Pravo
copia (?)
Antefatto
Due idee angolari avevano dato una
forte spinta reazionaria alla sperimentazione musicale dell’ultimo ventennio
(almeno): quella di repertorio, che ancora opprimeva le opere con l’assillo di
una collocazione ‘in linea’ con i capolavori del passato (e la musica tedesca
l’aveva fatta da padrona), e quella di ‘novità’, per la quale il vero
compositore poteva essere soltanto quello in grado di ‘dire’ qualcosa di
rivoluzionario, cioè qualcosa che non fosse mai stato detto prima.
Queste due caratteristiche, la
cosiddetta linearità o conseguenzialità della produzione, e la pretesa di
pronunciare sempre parole ulteriori,
avevano, come è noto a tutti, finito col cacciar via a pedate la gente dalle
sale da concerto, sia da quelle che continuavano a propinare musica di
repertorio ‘doc’ (con la conseguente crisi di programmazione tipica delle più
retrive associazioni di melomani), sia da quelle che pretendevano creare nuovi
classici presentando in sequenza le operine da camera dei quindicimila
compositoruncoli sperimentali.
Ma un altro effetto era decisamente
più deleterio: il soffocamento progressivo patito dagli stessi compositori, per
i quali la crisi del linguaggio, la ricerca di una ‘loro’ caratteristica
riconoscibilità, erano diventati un luogo comune, spesso confinante col silenzio
(il caso di Evangelisti è solo esemplare). Altri si arroccavano nella
cittadella della rinuncia, portando ad estrema consunzione l’unica (saltuaria)
invenzione della loro musica, quella per la quale sarebbe bastato un brano di
tre minuti, e che invece occupava pagine e pagine, dischi e dischi, stagioni e
stagioni.
Intere esistenze di compositori
‘sperimentalistici’ si sono consumate nella ricerca della ‘novità per la
novità’, ancorché quest’ultima nulla di sostanziale fosse in grado di
aggiungere alla stessa riconoscibilità degli autori: uno sperimentalismo vale
l’altro, perché non emoziona, non lancia messaggi o ponti al di fuori
dell’opera.
Sconfitta
Così, un larvato senso di
insoddisfazione, di smarrimento, di fallimento, ha permeato la generazione di
musicisti, pur di talento, che chiude questo millennio. Alla sensazione di
svilimento ha fatto contrappeso la creazione di un ghetto, nel quale
volontariamente gli stessi compositori si sono rinchiusi, assieme al loro
pubblico (venti o trenta persone), alle loro operine fatte in serie, ai loro
dischi e ai loro manoscritti inediti o fotocopiati dalla casa editrice di
grido. Un ghetto dal quale tutti gli esclusi, vale a dire la maggior parte del
pubblico, era ben felice di esserlo: la gente che volesse ascoltare musica viva
avrebbe anche pagato pur di non
presenziare ad un concerto di musica contemporanea.
In questo mondo, in questo nostro
mondo, è mancato chi gridasse consapevolmente ai quattro venti la sconfitta di
un certo tipo di musica. E soprattutto è mancato chi lo facesse senza calare
nella voce quel tanto di rimpianto per l’arte aurea del passato, quel tanto di
commiserazione per le opere che incontravano il favore della gente, alludendo a
quest’ultime come se si trattasse del
prodotto di una sottocultura necessaria. Della necessaria resa della
complessità di fronte alle ragioni della semplicità e ai desiderata del popolino. Nulla di più falso.
Messa in parentesi
Sarebbe più che opportuno abdicare
temporaneamente al nostro pregiudizio d’autore, e all’attestazione forte delle
ragioni dell’opera unitaria. Basterà lasciare tra parentesi la consapevolezza
antica d’essere soggetti, e potremmo farlo facilmente, visto che per anni ci
hanno insegnato tutto sui plurali delle verità, dei soggetti, dei saperi. Anche
non condividendo la debolezza di queste tesi,
potremmo almeno tentare di collocarci in una zona neutra, come avviene
nel test del vaso e dei visi: compaioni alternativamente l’uno o gli altri, ma si
mantiene sempre la sensazione di una presenza ulteriore, non visibile.
Nel gioco della comparsa e scomparsa
per veli alternanti, di ri-velazione e
disvelamento, qualcosa potrebbe apparire o sparire, esserci al di là dello
sguardo, o restare appena visibile al margine di occhi socchiusi, come le
immagini di sconcertante bellezza alluse da Proust.
In linea. Fuori linea
Cosa significherà andare oltre il
margine del foglio? Questa semplicissima operazione potrà ancora scolvolgere
chi ha fatto ricerca tra le corde di un pianoforte? Michaux aveva un bel
parlare della sfera (quante volte la si è riferita a Scelsi), delle linee
intrecciate e prolungate verso
La deriva è ricchezza, ma siamo
incapaci di coglierne lo spirito.
Sprazzi di luce
Eppure, qualcosa s’è mosso: altrove,
ma anche qui da noi. Tanta insoddisfazione doveva alla fine generare qualche
dubbio. Si deve soprattutto al rock la capacità di sondare le nuove interfacce
utente, rivificando perfino parte del jazz, e rendendo sempre più eclatante la
distanza esistente tra la musica contemporanea che fu ed il suo possibile
pubblico.
Soprattutto nei garage e nei
sottoscala s’è sviluppata una nuova sensibilità, collegata anche all’esigenza
di gestire segnali Midi di piccola entità, creare basi musicali che facessero
il giro dei piano bar, dei pub e delle piazze delle feste di provincia,
allestire infine piccoli banchi mixer e addirittura antidiluviani revox o
modernissimi registratori digitali. I più sofisticati viaggiano oggi su un TGV
che si chiama CD-Rom; dischi interattivi che portano stampato grandissimo il
nome dell’autore, ma che infine all’autore non lasciano che vuota vuotissima
copertina, perché tutto il contenuto è variabile, personalizzabile,
contaminabile a seconda delle esigenze del fruitore.
Confusione
S’è diffusa in ambito londinese, e
parigino, la musica africana. S’è creato un mercato sufficientemente florido
per la musica del mondo, etnica, contaminata o globale. Alcuni compositori, prima esclusi dal ghetto e dai canali di
produzione, si sono affermati sorprendentemente con musica che ancora riesce
addirittura a dire qualcosa, magari rinunziando alla prolissità, o affermando
la sacralità di cori, oppure ancora elevando a sistema la fusione (quasi
missaggio) tra rapidissimi sketch pubblicitari o fumettistici. Musica
cinematografica ha fatto il successo di films e di compositori. Tutto questo
riuscendo ad invadere il mercato, e alla faccia delle teorie di Adorno.
L’opera è in grado di farsi merce
senza privarci del godimento estetico, e senza passare necessariamente per i
canali delle major, visto l’incredibile impatto urbano della musica e
dei gruppi prodotti dai Centri Sociali. In realtà, la virtualità altera le
tradizionali categorie politiche, e presto questa inevitabilità raggiungerà
l’apoditticità del visibile.
La concretezza dei software
avrà la pesantezza dei mattoni. L’immagine sarà una protesi biologica del
mentale. L’ipermercato sarà a venti centimetri dal nostro viso. I programmi
televisivi ci vedranno tutti protagonisti, seduti nelle poltrone virtuali degli
show intermediali. Internet è la pallida evanescenza di quello che sarà
l’enorme spazio condiviso attraverso la tecnologia presente (e futura). Il
controllo sociale avverrà attraverso le reti, la resistenza a questo controllo
si chiamerà forse hackers. I prodotti culturali non avranno la rigidità
di un foglio, l’impenetrabilità di un disco al vinile. Già il compact permette
una maggiore ‘appropriazione’ e ‘personalizzazione’ delle tracks. I
dischi laser garantiranno una totale e continua ‘entrata-uscita’ dal sistema:
le musiche saranno sempre più mescolate, sempre più nostre. Il disco sarà un
oggetto estetico confezionato a nostro uso e consumo.
E lo faremo da noi.
Plagi?
Un enorme terreno condiviso non
riesce più a discriminare le terre di ciascuno. Ogni luogo allarga i propri
confini e li sovrappone a quelli circostanti. Le incursioni pirata negli standards
predisposti dall’ ‘autore’ saranno la ricchezza e la bellezza di un prodotto
ipermediale. Queste varianti verranno anzi richieste, perché nella variazione e
nella velocità aforistica della successione di immagini diverse è il futuro
dell’arte.
La nostra percezione è cambiata: la
velocità degli spot ha modificato la sensibilità e
Avrà significato la nozione d’autore
in scenari come quelli intravisti? Il patrimonio collettivo sarà sconnesso col
reale, porterà le musiche dei territori alla dispersione o sparizione? Sarà
‘indotto’ da regie occulte?
Sorgono nuove estetiche che
rivoluzionano da cima a fondo le nostre abitudini di compositori. Sarebbe il
caso di cogliere il senso (vettore) forte di queste stratigrafie, di lanciare
le nostre opere in questa straordinaria avventura. Si tratta solo di rimuovere nomi,
lasciar circolare virus, rinunciare a territori d’appartenenza.
FINESTRE
SUL MONDO
Purezza e mescolanze
Come si può definire la «world
music»? È semplicamente musica che proviene da ogni parte del mondo, o piuttosto un genere con un linguaggio
proprio, che auspica una società dalle molteplici culture ed etnie? Ancor oggi
vige una certa confusione in proposito, generata anche dall’ ambiguità e dalla
distanza d’intenti tra ciascuna produzione, che ogni paese adegua all’ immagine
da esportare.
Ad esempio, l’Africa appare
genericamente più incline alle contaminazioni, specie con i musicisti di Mali,
Senegal e Gambia. Salif Keita, da nobile
appartenente alla più antica famiglia Mali è sceso volontariamente di casta per
dedicarsi all’arte, e da Soro in poi sperimenta l’elettronica e il rock contro
la staticità delle tradizioni; Manu Dibango è noto per aver incontrato a più
riprese il funk, ma si era formato prevalentemente in Francia, e solo in
seguito aveva ottenuto riconoscimenti in Camerun: è sua la frase «ho orrore
della ripetizione, non si può continuare all’infinito a ripetere la lezione
degli antenati»; Youssou N’Dour è conosciuto per i suoi trascorsi con Peter
Gabriel, l’estroso ex-Genesis oggi anche
produttore[99];
Foday Musa Suso e Toure Kunda hanno incrociato le loro strade con Herbie
Hancock, il pianista jazz, e con Bill Laswell, che dal funk sperimentale di
Baselines[100]
diventa tra i più agguerriti produttori discografici.
Ma altri musicisti, appartenenti ai griots[101]
restano vicini alla visione tradizionale, magari legata ad uno strumento
particolare: è il caso di Lamine Konté, virtuoso di kora[102],
del quale la Arion[103]
presenta due monografici. Lamine è nato a Kolda, ma ha studiato alla scuola
delle arti di Dakar, ed appartiene ad una delle più antiche caste di griots;
è pertanto un «figlio d’arte», come diremmo qui. Così, la sua musica è di una
straordinaria dolcezza e spontaneità, non priva di caratteri personali: «quando
suono vorrei che la gente mi riconoscesse». La ricerca di questo musicista è
volta soprattutto al massimo sfruttamento delle ventuno corde della kora, che
la fa assomigliare all’arpa elettrificata usata tanto nella new age: ma non ci
si illuda, Lamine cerca di attualizzare ritmi e suoni attraverso una evoluzione
interiore che non preclude aperture, ma risulta pur sempre legata a un costume
specifico. Specie il secondo compact appare godibile negli assolo della kora,
ed è più scontato nei brani cantati
perché l’accompagnamento indulge a un linguaggio incline al
country & western.
Percussioni d’Africa
Generalmente, l’attenzione degli
occidentali si focalizza sulle varietà di percussioni ‘nere’, e sulla
complessità dei ritmi incrociati, ed ecco una efflorescenza di compact: Les génies noirs de Douala [104]
prende il nome da un gruppo che ha lavorato, oltre che con Myriam Makeba e Manu
Dibango anche con i nostri Tullio De Piscopo e Tony Esposito. Il bel disco
offre una panoramica sulle danze caratteristiche del Camerun, come ad esempio
la Tchokoto, per la nascita del
primogenito, o il famosissimo Soul
Makossa, danza moderna del popolo Duala. Notevole l’intento di unire le
diverse etnie di un paese che rappresenta un po’ l’Africa nella sua interezza,
con tutta la complessa serie di implicazioni politiche: vere e proprie mine
vaganti innescate nel corso del colonialismo sono poi esplose a programma,
mettendo l’una contro l’altra forze
altrimenti naturalmente coese.
Molto più attento ad aprire strade
di conoscenza interiore attraverso l’incantamento e la malia del ritmo è
Mustapha Tettey Addy, originario del Ghana: «un maestro di tamburo deve
mostrarsi capace di captare l’energia degli altri, e di rendergliela nuovamente
attraverso la sorpresa della loro stessa riscoperta». E in effetti lo strumento
sembra produrre vibrazioni che prendono
alla bocca dello stomaco: il rilascio del battere ha una flessibilità tale da
essere estremamente comunicativo. Il
ritmo, nei lunghi assolo, assume forme cangianti, e mantiene desta e attiva
l’attenzione del fruitore. Non mancano gli esperimenti: affascinantissimo, e
quasi orientale, il suono di Gongs Ga,
dove tubi di metallo sono percossi con una bacchetta di legno duro[105].
Sempre nella scia della tradizione,
con uno scivolamento folclorico di troppo, è la musica dei Batimbo, enclave
familiare trasformatasi in gruppo di maitres-tambours
du Burundi: un compact che li concerne[106]
riproduce uno dei loro spettacoli, con tanto di entrata in scena, ma non fa
giustizia di quello che deve essere stato l’effetto visivo e scenografico
dell’impianto complessivo; le voci si percepiscono troppo in lontananza.
Non pochi dischi sono dedicati alle
percussioni africane, alcuni antologici, altri monografici. Tra i primi c’è
sicuramente Balafon et tambours d’Afrique,
in due volumi[107],
con una silloge della musica percussiva di Camerun, Guinea, Senegal, Tanzania,
Togo. Qui le percussioni sono veramente nude, senza orpelli, e presentate nella
loro ricchezza ritmica, per la maggior parte senza accompagnamenti cantati.
Notevole anche la collezione di strumenti impiegati, dal balafon alle maracas e
ai sonagli. Un secondo volume è dedicato a Koko du Burkina Faso; presenta sue
composizioni originali che includono spesso anche il canto, è godibile
ed estroverso, ma la lunghezza dei brani risulta eccessiva per l’insistenza
delle percussioni. Queste si susseguono in modo lineare, anche se -come in
tutta la musica africana- si sovrappongono ritmi d’ogni tipo. Le permutazioni
interne sono poche, e non facilmente percepibili per gli occidentali. Anche Percussions D’Afrique presenta quattro brani raccolti in occasione di
cerimonie religiose o civili, ma risulta quasi insostenibile per lunghezza (il brano più prolisso dura 32’30”).
Al secondo gruppo monografico
appartengono Les tambours de Gorée e Percussions Mandingues [108],
dedicati rispettivamente all’orchestra africana Djembé del Senegal ed al
solista Adama Dramé, naturalmente ancora un griots. L’aspetto tecnico è
qui notevolmente accentuato, ed il tamburo diventa un microcosmo con un suo
centro ed una sua forza di gravità: l’abilità dello strumentista risiede
nell’indirizzare i colpi in precise zone
della membrana, improvvisando e mescolando ritmi senza annoiare. Tutti traditional
i brani raccolti invece nel disco dell’orchestra Djembé, proposti alternando
canto e percussioni e sole percussioni; se si eccettua la prima lunga track
(11’38”), le altre sono sufficientemente varie e più che sopportabili.
A Nigeria, Etiopia e Camerun sono
dedicati Nomades du Desert, Musiques Traditionnelles d’Etuiopie e
Cameroun, Musique des Pygmées Baka
[109].
A causa del loro itinerare, i nomadi hanno conservato un’antica tradizione
vocale ipnotica, malinconica, solitaria: melodie che suggeriscono
l’attraversamento, una metafora dell’andare che si materializza per pitch
ricchi d’infratoni. I canti e le danze sacre dell’Etiopa rappresentano bene una
musica più ricca, preziosa ed interetnica. Ancora una strumentazione
prevalentemente percussiva individua la musica dei Pigmei Baka: gli strumenti
melodici vengono sostituiti con gioviali cori a voci multiple ai quali si
alternano solisti che procedono ad affascinanti permutazioni tematiche, spesso
di una vocalità che si approssima al grido modulato.
L’India, o della densità
del suono
L’India è più lineare dell’Africa,
la sua produzione più riconoscibile: si ascolti, ad esempio, Raga Multani [110], con un’orchestra di sarangi, il più antico
strumento ad arco di questo paese, tabla[111],
shenhai (fiato) ed harmonium; la massima variazione ai canoni classici è
nella diversa disposizione di alcune note; Ustad Munir Khan fornisce variazioni
emotive, risulta riconoscibile per la profondità e l’interna risonanza di raga pomeridiani. Ma
straordinaria è la concentrazione, la densità di questi suoni che sembrano
provenire da un metaforico altrove della coscienza, un luogo non accessibile ma
denso di linee, quelle stesse linee definite da Michaux come un limite tra
esterno e interno. Il sarangi
crea un effetto di bordone, con le corde libere, come una cornamusa lanciata sull’orlo
dell’infinito, lo shenhai intreccia con il sarangi (con le corde
principali) variazioni tematiche dagli intervalli armonici impercettibili, una
sorta di urlo mistico.
Più consueta, ritmica, sofisticata e
virtuosa (al modo di noi occidentali) l’interpretazione di Pramod Kumar dei
raga[112].
La scansione perfetta di suoni in rapida successione tradisce l’origine da
percussionista, e l’attacco deciso dimostra una sicurezza tecnica dovuta forse
all’appartenenza ad una famiglia di musicisti. La strada prescelta è
inequivocabilmente ‘esterna’, tant’è che Kumar viene considerato come
l’erede di Ravi Shankar, del quale è
stato tra i più anziani allievi. Ma Shankar resta forse più aperto agli
esperimenti creativi con l’occidente (si ricordi la sua collaborazione con
Philip Glass). Una minore fluidità, una certa spigolosità, la ‘sforatura’ di
certi suoni (è un eccesso in relazione alla portata emotiva e musicale, non tecnica) ci fanno così ancora
prediligere il maestro.
Alla musica folk dell’India del nord
si consacra l’omonimo disco per
Il ghetto di Varsavia
L’esemplare contrapposizione tra la
world africana e quella indiana mostra come possa essere estremamente difficile
distinguere, all’interno della produzione musicale di un paese, l’impulso
etnico e quello globale. Un’altra scuola di pensiero inserisce la world in una
costellazione che ha come punte d’iceberg il rock d’avanguardia, l’etnopop, la
contemporanea e molte delle ‘new’
(acoustic, beat, eccetera), e come fulcro l’attenzione per quelle nuove
sonorità poggiate sulla fusione delle
tecniche. Ha certamente contato, nella formazione di un linguaggio
profondamente contaminato, l’evoluzione delle singole espressioni pop di
ciascun paese: molte delle voci più originali hanno cominciato ad allargare i
confini delle loro produzioni folcloriche attraverso incroci con artisti della
più svariata provenienza. Questa pratica, nel jazz, ha finito con l’organizzare
le varianti secondo scanzioni formali più o meno collegate al genere. Il pop,
invece, ha mantenuto le devianze per quel che erano: vere e proprie ventate di
‘nuovo’ che investivano ritmi, timbri,
melodie. Una grande vitalità, legata ad esempio alla produzione della cosiddetta
‘afro’, già qualche anno fa non appariva più mascherabile o incanalabile in standards,
ma andava a collocarsi in un filone proprio, talvolta più etnico, talaltra
incastonato al rock, ed oggi addirittura legato al rap.
Quelli che hanno preferito guardare
alle produzioni più tipicamente tradizionali, a quelle scevre di sonorità
etichettate come occidentali, hanno biasimato i musicisti e le opere che invece
si lasciavano sedurre dal west sound, dalle pratiche strumentali e
stilistiche più facilmente riconoscibili
da noi occidentali. Youssou N’Dour si è fatto portavoce del fastidio di questi artisti, parlando di una
ghettizzazione arguta, furba e molto
articolata. Individuare le differenze
tra generi nella semplice provenienza geografica, prediligere il sound
tradizionale a quello moderno, di fatto inibisce la «possibilità di
un’espressione non compromessa» e rende irrealizzabile uno sviluppo che i
musicisti africani ritengono oggi necessario e improrogabile. Che si parli di afro music, che si allarghi
la qualifica alla world music, sempre di ghetto si tratterebbe: confini eretti
a difesa di un consumo e di un mercato già di per sé saturi, o, il che è
peggio, a difesa della purezza dei linguaggi. Una musica che resta
identificabile ripropone in eterno il problema della differenza, che qui è differenza di valore tra espressioni auree ed
alte (quelle occidentali) ed espressioni viscerali e incolte, in fondo di
‘colore’ locale. Fino a che le gerarchie non diventeranno insiemi di quantità
che evitino giudizi di valore i guai non diminuiranno.
E con queste consapevolezze si
ascolta con particolare commozione il lavoro di Sarah Gorby, premiato come
documento storico dalla Accademia Charles Cros, Les Inoubliables chants du Ghetto[114],
frutto della ricerca sui musicisti morti nei ghetti durante gli anni della
Grande Tragedia: diversi confini, comuni sofferenze e atrocità.
Il timbro vocale della Gorby è certamente molto caratterizzato: incisivo, doloroso, ironico, e a tratti beffardo (ricorda un po’ quello di Lotte Lenya). L’interprete riesce a condensare, con agogiche oggi irreperibili altrove, il canto di rassegnazione e di protesta di chi ha subito il più grave torto alla dignità personale e umana.
Etnica o contaminata?
Così, la world presenta da un lato
una musica legata al folclore e più attenta alle origini, alla «nobiltà ed
antichità» dei generi tradizionali (come riferisce un famoso cantante di
Maqam), dall’altra interpreti che hanno coscienza delle continue permutazioni
del passato, dei prestiti che già gli antichi stili presentavano, lanciandosi
senza indugi nella sperimentazione di forme evolute da quei suoni tradizionali.
Tra questi, i ‘progressisti’ cercano un territorio comune ai diversi linguaggi,
intuiscono gli stilemi condivisibili, vanno infine verso il Global Village. In
tutti e tre i casi ci troveremo in presenza di varianti della world music:
etnica, contaminata, globale (o fusion), se prevalgono spinte che valorizzano i
percorsi interni, quelli esterni o quelli comuni a tutti.
Nella world etnica (la cui
etimologia greca richiama l’idea di ‘moltitudine’) rientrano alcune delle
registrazioni di Gérard Krémer, che «raccoglie in diretta suoni e riflessi»
delle musiche popolari più legate alla tradizione. Dall’Algeria deriva
Alcuni esempi di world contaminata
sono Celtic Odyssey, The Road North, New Land, Alma del Sur.
Il primo[118] è
un viaggio metaforico attraverso la
musica contemporanea celtica, e si pensa immediatamente alla Whindam Hill (come non riferirsi ad altri solstizi
d’inverno?), anche perché si tratta di una compilation di artisti diversi.
Convince il dinamismo di The Butterfly,
un racconto estremamente delicato disegnato da Orison, e tratto dall’album Celtic and Contemporary Instrumental Music[119].
Più energico Dònal Agus, dove Altan
rifà il lifting a un traditional. Assoli d’arco, con ambientazione, per Calliope House e Trip to Skye, e un suono fortemente emotivo (alla Balanescu, per
intenderci) per Are Ye Sleeping, Maggie? , dove Alasdier Fraser dà sfogo ad una
vena motivica che fa tesoro anche della lezione classica. In Tribute to Peadar Dònal Lunny sembra citare i viziosi circoli armonici e tematici di
Oldfield. Meno godibili i brani anche vocali, forse troppo legati a fonemi
individuabili per parlare al resto del mondo. Nello stile della ballata The York Reel/Dancing Feet, che porta
alla conclusione un disco vario e sicuramente in grado di offrire una bella
panoramica sulla musica celtica rivisitata nello stile globale. Sempre
d’origine celtica le sensazioni e certi nuclei tematici suggeriti dal
violinista scozzese Alasdair e dal pianista Paul Machlis in The Road North[120].
L’unico traditional ci pare essere
Spostandoci in Sud America, ma
restando sempre nell’ambito della world contaminata, ecco New Land[122],
dell’argentino Bernardo Rubaja, la cui ambientazione è però più vicina alle
atmosfere rilassate di certa new age che ai ritmi sudamericani: la sua musica
scorre come olio, e starebbe assai bene nelle compilation della Grp. Alma del Sur [123]
ha certamente la pelle più scura: a Rubaja si affiancano il chitarrista Nando
Lauria, l’arpista (suona un’arpa paraguayana) Roberto Perera, Carlos Guedos,
Junior Hamrich, Matthew Montfort degli Ancient Future e tanti altri: ecco
allora venir fuori quello che ci aspetteremmo da una silloge dedicata a
(emergente da) quelle zone: dalla marcetta ammorbidita e assai gustosa di The Hill of Seven Colors dello stesso
Rubaja all’acquatile New Amazon, con
percussioni e voci che s’innestano su sciacquettii d’ogni genere. Bella la
chitarra in Las Marianas del gruppo
Gurrufìo, evidentemente ispirato alla tradizione venezuelana, effettivamente
«spontanea, improvvisata, inaspettata».
In dialetto occitano e provenzale le
canzoni di Riccardo Tesi e Patrick Vaillant in Véranda e Anita Anita [124].
Le songs sono prevalentemente brani originali di Tesi, ma non mancano
arrangiamenti da traditional. Se qui è presente una certa contaminazione,
il movimento mi pare essere più quello di ottimi artisti che guardano al
repertorio dialettale e locale piuttosto che quello della ricerca che parte
dalla terra e lambisce infine perimetri lontani. Pochi gli interventi soltanto
strumentali, dove forse si osa di più.
Uno specialista di tango il
bandoneista Olivier Manoury, che con Michael Nick, Isabelle D’Auzac ed Enrique
Pascual, indulge al jazz ben più di quanto non facciano Astor Piazzolla ed il
suo naturale erede Richard Galliano, forse anche con minore originalità: ma il
suo Tangoneon[125]
resta gradevole, anche perché offre una panoramica non solo sul tango, ma
anche sulla candombe e sulla milonga. Particolarmente dolce e struggente (non
quanto il quintetto di Piazzolla), Llovisna
di Enrique Pascual, e l’espressiva Milongue
di Olivier Manoury.
La world globale
Alla world globale o fusion possono
ascriversi, ad esempio, gli Ancient Future, che Piero Scaruffi collega ai Do’A
di Randy Armstrong e Ken LaRoche. A Quiet Fire (Narada Lotus 1012), la
chitarra di Alex De Grassi, noto ai cultori della new age, e il sound
complessivo, danno una parvenza un po’
più commerciale rispetto ai lavori
precedenti[126].
Così l’effluvio un po’ sudamericano, un po’ indiano, un po’ new age di Caged Lion Escapes di Matthew Montfort travasa di traccia in
traccia fino alla dolcezza incantatoria di Hillside
View di Randy Mead, con le cascate d’arpa celtica di David Michael, ed alle
suggestioni rinascimentali di Candlelight.
L’impatto iniziale di Dreamchaser [127]
mescola chitarra elettrica e sitar, tampura e percussioni africane, con la
prevalenza di un suono indiano in Edge of
a Memory ed africano in Chant of the
C Schell, con tanto di cori in stile. Ma le suggestioni restano
superficiali, non sempre fuse in modo omogeneo, ed un po’ ripetitive. In
Andrean Dream l’imprimatur è
smaccatamente cileno, e così via, fino al brano migliore di un album tutto
sommato prescindibile: l’Ode to Ajanta
di Ian Dogole, orientaleggiante.
World
whithout walls [128]
ha già un programma fin dal titolo: mondo senza mura, senza confini. Lakshmi Rocks Me è la prima dirompente traccia, sicuramente
arricchita dalla partecipazione di Zakir Hussain alla tabla ed alla kanijra.
Stucchevoli invece le sintetizzazioni di April Air, veramente da demo-song. Un’atmosfera
alla Vollenweider permea nel bene e nel male anche i brani successivi, con
punte di Turchia ed India qui e là. I due brani Alap e Indra’s Net, quasi introduzione e sviluppo, mi sembrano
straordinariamente riusciti, e confermano a chi abbia conosciuto le musiche di
Luciano Cilio quanto questo artista abbia preconizzato le sorti della musica
futura. Gopi Song, col piano di Dough
McKeehan e ancora Zakir alla tabla,
mezzo Clayderman, mezzo Kitaro, chiude
un compact più che soddisfacente.
Il tipico attacco dell’arpa da
tavolo giapponese gu zeng di Zhao Hui lancia Asian Future[129],
e senza pause subentra il ritmo incalzante e disinibito di Bookenka, con un mix
di jazz ed Asia: una pietra miliare per gli Ancient Future. Mezgoof, di Ian Dogole, ricorda la
musica del Pakistan, con percussioni e sintetizzazioni che si muovono su un
bordone pieno e comunicativo: un movimento straordinario che concilia le
esigenze interiori e convince per la varietà e l’articolazione del percorso. Sumbatico ha in corpo molto più jazz che
nel passato, Ja Nam si affaccia
addirittura sulla musica vietnamita con l’uso del Dàn Bàu[130]
fondendosi ad un ritmo reggae. L’affermazione di questa musica è apodittica;
gli Ancient Future più che sperimentare affermano con sicurezza e leggerezza
Altro esponente rilevante è Michael
Pluznick, compagno di Jim Chappell in Saturday’s
Rapsody [131],
col primo cd solistico Where the Rain is
Born[132].
Le percussioni soffici si intrecciano ad un tessuto massimale alla Borden in Savannah Dance (è il computer di Peter
Scaturro a creare il meraviglioso amalgama). Tanta Africa interiore è mutuata
da Rites of Passage: perché non
confrontare le sintonie e simpatie con Mustapha Tettey Addy, anche per l’assolo
di The City’s Reflectio ?
Introspettivo anche quando
pianamente ritmico, Pluznick ci convince pure in brani radiofonici come Desert Crossing, introdotto da un
delicato gioco di percussioni ed effetti speciali. Da Time caravan si affaccia Brian Eno, e da Big Foot un morbido jazz sound. La voce di Maria Rodriquez fa da
background alla title-track, che anche qui chiude il disco.
Acqua che scorre e voci ‘nere’ danno
il via a Cradle of the Sun[133]:
una piccola introduzione traditional (1’20”) cementata con l’avvio di un
basso ed una chitarra elettrica, un pizzico di rock e tanta Avana: una musica
già più ‘fuori’, meno ripiegata su di sé, e quindi anche fluida, qualche volta
non omogenea: stacchi multipli dividono le tracks, in molti brani è
presente la voce, l’ambientazione è sicuramente vicina alla new age, se non
fosse per la solida presenza del basso: reminescenza anche questa di tanta
musica africana. Anche qui fa bella
mostra di sé il computer di Peter Scaturro, specie nei nove minuti e oltre di Guardians Of Nature. Cosa che chiarisce
abbastanza bene cosa si può intendere per rivisitazione della world etnica.
Ancora più aperto e solare Rhithm Harvest [134],
come indica il titolo: una efflorescenza di ritmi da Haiti, Kongo, Senegal,
Cuba, Mozanbico, e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di una parentesi o di
una nuova vena per Pluznick? Fatto sta che, a parte l’argento vivo che questa
musica riesce ad incollare sull’ascoltatore, viene da pensare ad un passo da
granchio, un ritorno alle origini dei ritmi diversi. Questo ci fa preferire
sicuramente il percussionista un po’ introverso e decisamente pensoso di Where the Rain is Born.
Pierre Jean Croset, in Harmoniques du temps Overtones of all times
[135],
propone a sua volta una reinvenzione creativa ed interiorizzata dei suoni della
Cina antica, esercitando sulla lira armonica ipnotizzanti variazioni melodiche
che paiono miracolose per l’esiguità dello strumento. Quest’ultimo, con
diciotto corde fissate su un pezzo di cristallo, trasmette vibrazioni
straordinarie, trasparenti come le ali dell’Hetaera
Esmeralda.
Originale e creativo l’assortimento
proposto da Mikhail Alperin in Prayer[136]
con Arkady Shilkloper e Sergey Starostin. Il pianista russo presenta alcune
delle sue composizioni più intense, non disdegnando d’usare topoi melodici russi incastonati sul
particolarissimo canto gutturale mongolo. In Prayer Part 1 si sprofonda
in luoghi lontanissimi per cultura e densità spirituale con la leggerezza
tipica della world globale, ovvero senza eccessivi appesantimenti etnici.
Straordinario l’accostamento tra pianismo classico, jazz, armonie ‘nuova era’
ed elementi etnici, di Talk for Trio:
raramente si è ascoltata una commistione
di tale omogeneità, capace di suggerire istantaneamente un climax tra voce e
pianoforte, talvolta ironico, talaltra giocoso, sempre teso ad una
comunicazione forte, alla faccia della crisi della musica e della morte
dell’arte. Un lavoro bellissimo, pieno di sorprese.
Percorsi trasversali:
etnica mistica o religiosa
Più percorsi trasversali sono
possibili nell’ambito della world. Uno, particolarmente affascinante,
ripercorre l’Asia e parte dell’Africa alla ricerca di nessi comuni o di
significative differenze tra religioni.
Partiamo dall’estrema appendice
subcontinentale: lo Sri Lanka. In Musiques
Rituelles et religieuses [137]
sono raccolte registrazioni effettuate nel 1979 da una spedizione
etnomusicologica svolta in collaborazione con de Silva Kulatillake. Il fatto
che il Ceylan sia posto sotto il subcontinente indiano non impedisce che un
gran numero di religioni vi abbia attecchito nel tempo. Tracce dei culti
fallici e dei riti di fertilità si mescolano con il culto brahmanico. Nel tempo
ci si è rivolti ai démoni vedici e a credenze induiste, fino all’arrivo dei
calvinisti olandesi e dei gesuiti portoghesi. La musica, come ad esempio nella
lunga cerimonia del pirit, si muove su un bordone di percussioni molto
poderose, e due o quattro esecutori giocano antifonalmente anche con
modulazioni microtonali.
In India del Sud troviamo la ricca
raccolta dei veda, che come è noto ospita in differenti sezioni inni dedicati a
divinità indiane, alla grande origine del tutto[138],
a formule magiche e preghiere. Nel Rigveda, o veda delle melodie, sono raccolte
strofe dedicate al culto sacrificale. In Musiques
Rituelles et Théatre du Kerala [139]
vi sono esempi di insiemi cerimoniali, recitazioni di veda, mescolati ad esempi
di teatro rituale, come quello danzato sanscrito Kutiyattam. Si tratta di un
disco molto evocativo, che presenta differenti stili espressivi della musica
carnatica tipica dell’India del Sud, dai suoni prolungati e ipnotici della vina
alle recitazioni ritmiche, sorta di ‘salmodia diretta’.
Musique
traditionnelle de danse Odissi [140]
presenta musica di danze sacre e repertori del teatro tradizionale della
provincia di Orissa, situata sulla costa est dell’India centrale e al centro di
scambi interculturali, di fusioni
etniche e stilistiche. L’incipit è costituito da un saluto al Dio Ganesha,
accompagnato da vina, cimbali e flauti di canna. Un solista vi traccia melodie
con impulsi ritmici particolari, ripetuti con varianti, con
La musica dell’India del Nord, pur
adottando la medesima terminologia per i raga, è notevolmente differente da
quella carnatica del Sud, e si caratterizza come musica indostana. Sempre in Musique Populaire de l’Inde du Nord [141],
assieme ad esempi strumentali folclorici per tamburo solo e flauto e mandar, ci
sono tracce di canti devozionali musulmani Dhun, canti sufi eseguiti dal gruppo
di cantori del santuario di Nizamuddin (nel Corano, l’idea dell’Onnipresenza di
Allah è frequente), e i canti religiosi Bhajana.
Avvicinandosi al Tibet, ecco Chants et Danses du Népal[142],
canzoni di lavoro della casta dei musicisti-cantori Gainés, ma che offre anche
l’occasione per riascoltare il sarangi[143].
A metà strada tra India e Nepal si situano diversi santuari tibetani.
Preghiere del mattino dei monaci di Bodh
Gaya (India), percussioni da Swayambunath (Nepal), rituali della sera da
Dharamsala (sempre India), sono rintracciabili in Musique sacrée des Moins Tibétains[144].
È interessante la registrazione delle lunghe trombe tibetane, che lanciano
messaggi lontano nello spazio, ma lasciano vibrare il corpo di chi le suona. Le
preghiere dei vari rituali accoppiano non solo i suoni bassi dei Tuva o di
altri popoli della Mongolia, ma anche voci nasali abbastanza inquietanti. Con Tibet: Traditions rituelles des Bonpos[145]
ci si sposta invece nella zona sotto l’Himalaia, a Nord-Ovest dell’India. Qui
si ascoltano i suoni densi e profondi dei monaci, nella versione dei Bonpos che
rinnova e perpetua tradizioni a rischio di scomparsa. Diverse cerimonie,
rituali, musiche processionali, sono in Tibet:
Musiques Sacrées[146],
registrate tutte a Nord-Est del Nepal, nella provincia di Khumbu.
La Russia presenta una varietà
sconfinata di tradizioni e stili. In Chants
Des Peuples De Russie[147]
possono reperirsi registrazioni in grado di offrire una panoramica sul folclore
(canti nuziali, lamentazioni funebri, etc.) di zone differenti, dalla regione
di Tula a quella tartara. In Russian
Orthodox Chants[148]
può godersi il suono di raccolta dei fedeli delle campane del monastero
Novodevitchi mescolato a canti della
liturgia divina in cui solisti si
alternano al coro, ed esempi di canoni e litanie. Il disco si chiude
circolarmente, col suono delle campane che ritorna.
Spostandoci ancora più a nord, si
arriva al buddismo lamaista della Mongolia. Registrazioni rarissime ed
estremamente interessanti sono in Mongolie,
Chamanes et lamas[149].
Si va dalle pratiche officiali legate al buddismo dei lama a quelle misteriche
degli sciamani, con veri e propri ‘viaggi’ condotti da nenie accompagnate,
imitazioni di animali magici. Un primo sciamano si chiama Darqad, e col suo canto
accompagnato da sola percussione augura buon viaggio agli occidentali che sono
arrivati fin lì per conoscerlo. Il secondo sciamano, invece, effettua un rituale magico-medicamentoso.
Notevolissimo anche l’incipit dell’Ufficio del “Tchogtchin Qural” del monastero
dell’Erdeni Zuu.
Gli Chants Liturgiques Arméniens [150]
appartengono ad una branca autonoma della famiglia indo-europea. Sono stati
registrati nella comunità di San Lazzaro a Venezia, dove nel tempo l’ordine dei
Mekhitaristi ha tramandato la conoscenza e lo studio dei neumi della tradizione
musicale bizantina. Gli armeni adottarono la religione cristiana nel quarto
secolo, istituendo nel quinto il rito ortodosso. Solo dopo molti secoli una parte della chiesa armena
riconobbe la supremazia di Roma fondando il Patriarcato Cattolico. Queste
vicende epico-religiose fanno sì che l’interpretazione neumatica si presenti
particolarmente interessante, probabilmente meno edulcorata rispetto a quella
tramandata in Occidente.
In Chants liturgiques byzantins de Grece [151]
l’ Ensemble Théodore Vassilikos presenta una scelta delle melodie della chiesa
ortodossa greca. Gli inni compresi nel disco sono prevalentemente del XVIII
secolo, quasi tutti sullo schema della salmodia, con un solista che effettua i
melismi (molto contenuti, per la verità, seguendo il trattamento sillabico
piuttosto breve che caratterizza l’innografia bizantina di quel periodo), ed un
coro che l’accompagna con un cantus
firmus dai movimenti statici. Per avere un ‘controcanto’ della produzione
bizantina pagana, ricordiamo la serie curata da Christodoulos Halaris per
Orata, con un ricco apparato storico e iconografico.
Conquistano i suoni lunghi dei
dervisci turchi, placidi nel loro scorrere, risonanti per cavità interne con le
microndulazioni simili a pitch vocali, veramente portatori del messaggio
di inazione del misticismo sufi. Differenti cerimonie, quella dello Zikr e del
Mevlevi sono contenute nei due dischi Chants
des Derviches de Turquie e Musique Soufi[152].
Sempre dedicato ai dervisci, alla cerimonia dei Mevlevis (o dei dervisci
rotanti) è il monografico Le Ney Turc[153].
Spostandoci di continente ritorniamo
in Africa, scontrandoci col mare magnum della musica religiosa.
Interessante è Messe et chants au
Monastere de Keur Moussa[154],
che muove dall’originale idea di accoppiare dodici monaci francesi che si
ispirano ai solesmensi e dodici percussionisti senegalesi. La dolce melodia di J’ai vu l’Eau vive è accompagnata dall’assiko,
una percussione formata da un telaio in legno sul quale è montata una pelle di
montone. Il tutto è suddiviso in due parti: dopo i canti da messa, quelli al
monastero, composti prevalentemente su testo tratto dai Salmi. Curiosa la
somiglianza della Improvisation pour
flute et kora con tante danze rinascimentali per flauto e liuto.
Registrazioni interessanti del Ciad
sono raccolte da Monique Brandily in
Tchad, Musique du Tibesti, che presenta canti di donne e bambini, raccolti
in occasioni cerimoniali e non, come i canti di matrimonio o di circoncisione.
Le sovrapposizioni tra musiche e
culture religiose differenti hanno certamente propiziato l’emergenza di messe
contaminate. In Camerun sono presenti semi religiosi differenti: animisti,
cattolici, protestanti e musulmani. Gli ultimi arrivati furono i cattolici, nel
1890, che subito istituirono scuole e missioni, col risultato di molti animisti
convertiti al cattolicesimo. Un esempio di messe in cui all’impianto formale,
alla scanzione dei tempi, si mescolano i ritmi africani è in Messes au Cameroun[155].
Una traccia sonora della tribù d’Ait
Said, aderente alla fascia musulmana che predilige il sufismo, è in Maroc, Musique sacrée et profane[156].
L’invocazione del dio avviene attraverso danze estatiche accompagnate. Ne è un
esempio la Jdeb che accoppia flauti e percussioni. «Non ha amici chi non danza
al ricordo dell’Amico», recita un mistico musulmano: la Jdeb procede dapprima
lentamente, coi flauti che ronzano attorno a note predominanti, poi si sposta
in altezza e velocità, in un crescendo che richiama la presenza divina in
antiche confraternite di origine guineane.
La musica liturgica Etiope non
prevede l’uso di strumenti a corde; soltanto percussioni rudimentali (come il
tamburo tromboconico kabaro) accompagnano i Debteras, sorta di poeti e cantori
da chiesa. L’Etiopia è prevalentemente cristiana (copto monoteista), i
canti sono di tre specie: l’ araraye e lo ge’ez vengono usati durante i
periodi di Pasqua e Quaresima. Il modo ezel
è invece il più comune, usato per le celebrazioni funebri, le veglie e le più
importanti liturgie. Un esempio di questi modi è in Ethiopie, Musique traditionnelles[157].
Percorsi trasversali:
musica sacra oltre ogni confine
Una religiosità particolare permea
l’opera di alcuni compositori europei che sembrano collocarsi al di là del
tempo e dei confini.
Tra questi vi è l’italiano Giacinto
Scelsi. La sua produzione, dopo la conversione dalla fase dodecafonica a quella
del ‘suono unico’, ha una matrice spirituale di tipo orientale, ed è evidente
fin dai Quattro pezzi su una nota sola
per orchestra, definiti da Metzger come «il paradigma della sua musica»[158].
Nel
Anche Henryk Mikolaj Gorecki, il
compositore polacco ‘oscurato’ fino al 1977 dai suoi più famosi conterranei
Lutoslawski e Penderecki, scrive musica molto evocativa. Ha trovato infatti
gran successo con
JINGLE-MAKER
ARTISTA IPERMEDIALE
Il musicista da spot è un
esempio eclatante di erosione del mito dell’intellettuale. Lo jingle è
in tutta evidenza una merce, diventa solo in un momento successivo qualcosa di
molto rassomigliante al mito, perché circola in ogni casa trasportato dal
video, ma anche canticchiato, appena
sussurrato dalle massaie, dai loro bambini teledipendenti. O sponda di riposo
per le orecchie dei tassisti.
Quando Alberto Abruzzese, anche in
occasione della presentazione di “Rapporti Mondadori”, lamenta il ruolo critico
dei custodi del sapere, il loro strabismo nel guardare alle nuove tecnologie,
sollecita e solletica l’indagine sulle soggettività nomadi, magari cittadine,
certamente ancora mascherate e sommerse. Non ci sarebbe che prendere coscienza
dell’emergenza di questi nuovi soggetti, per ampliare le consapevolezze
estetiche apparentemente arenate sui trascorsi francofortesi, e ora a ridosso
dei francesi Baudrillard e Nancy. Però non sarebbe male ricordare che è
soprattutto il soggetto europeo a subire lo spaesamento per la trasvalutazione
del linguaggio. E che l’Altro (rosso, giallo, nero, per citare Nancy) ci dà l’opportunità di riconsiderare le
opzioni, il menu, della nuova informatizzazione. Il suo ‘ritardo’ ci fa
modificare lo screen, e temere che le
dinamiche di libertà predisposte per uscire dal ‘sistema potere’ possano
rivelarsi ancora una volta come terribili ed efficienti strumenti di controllo.
L’accusa rivolta agli intellettuali, ed anzi ai «cultori delle forme
postmoderne» che si occupano di tutto ciò che è deriva (anche consumistica),
rende la stessa deriva “trasgressiva”, come
Il soggetto europeo/statunitense è soggetto
ad azioni di disturbo, viene dopo la lingua, i suoi semi sono
nell’anteriorità della storia e del linguaggio. Ma è ancora Heidegger che
parla, e solo di uno dei soggetti
possibili. Non si può auspicare che riferendosi alle avanguardie si dia già per
scontato tutto il ragionamento sullo scontro sociale? Ad esempio, proprio lo jingle-maker
non fa che affiancarsi al cibernauta, perché quando si adatta
camaleonticamente a rifare Springsteen, nell’ottica mobile dell’estetica del
plagio, predispone materiali eccellenti per il viaggiatore ipermediale. La
portata dei nuovi scenari, offerta al cliente/fruitore in forma di spot,
e corredata da jingle accattivanti, dovrebbe già essere in grado di
parlarci anche della cancellazione della rappresentanza politica (cosa accadrà
quando in rete ciascuno potrà virtualmente alzare la mano per votare?),
dell’abbattimento del diritto d’autore, dell’affievolimento della proprietà per
ciò che concerne l’opera d’ingegno. Cosa altro sono Franco Godi, Riccardo
Cimino, Lele Marchitelli, se non figure nomadi, artisti veramente ipermediali,
abitanti volatili dello schermo? Si occupano di prodotti commerciali, e
costruiscono musiche su spot. Lo jingle presuppone l’industria, ma
questo è sufficiente per innalzare
barricate attorno a suoni che vogliono essere funzionali? La musica
d’arredamento non fa che abitare uno spazio, predisponendolo a transiti
occasionali, e anche gli ascolti che derivano dagli schermi multimediali
restano a pieno titolo oggetti estetici. Oggetti duttili, visto che presto sarà
facile e agile modificarsi gli hit su cd-Rom o su Internet seguendo gusto e
capricci personali.
NON
SOLO RANDOM
Nell’espandersi del tempo critico l’improvvisazione è stata trattata piuttosto male. Poi, per fortuna, alcuni musicisti viventi sono risultati in grado di pareggiare i conti, di offrire uno spaccato su che cosa davvero significasse improvvisare, e queste prassi hanno sostituito un mucchio di inutili chiacchiere.
Tra le pieghe delle parole s’è
celato, come spesso accade, più d’una delle incoerenze del nostro pensiero
musicale, e qualche prospettiva illuminante è stata dedotta a contrario, dalla evidente
contraddittorietà di certe tesi. Umberto Eco scriveva in un classico:
«...perché l’opera ci sia occorre una compiutezza di disegno ed una singolarità
di tono (irripetibilità, impossibilità di modificare i compiuti elementi
dell’opera) che può essere attribuita all’intervento coscientemente produttivo
dell’autore». Sentito? Intervento coscientemente produttivo dell’autore... Ma
l’improvvisazione può davvero portare ad ‘opere compiute’ pur conservando uno
spazio e un tempo del tutto estemporanei, ed immediati (non mediati)? I lavori
di Zorn hanno forse compiutezza di disegno e singolarità di tono? ...quanti
castelli per aria sarebbero crollati con l’assimilazione del post-moderno nel
vivo del tessuto musicale.
Anche Massimo Mila, uno dei più
celebrati, a torto o ragione, maitre a
penser della critica, dimostrava scarna chiaroveggenza. Sono sue le
seguenti perle: «si può star pacificamente sicuri che tutto il meglio delle
improvvisazioni di Beethoven e Schumann è passato nelle loro opere scritte»;
«ciò che è andato irrimediabilmente perduto sarà scartato da loro a ragion
veduta»; «nell’improvvisazione pianistica l’abitudine meccanica delle dita di
ritrovare le posizioni familiari e consuete conduce generalmente a infilare
collane di luoghi comuni». Luoghi comuni, davvero. Anche perché:
l’improvvisazione mantiene viva la sua irriducibilità; quando si prova a
trascriverla, come nel caso del concerto di Colonia di Jarrett, il doppio sta
all’originale come polmoni d’acciaio a placidi sospiri. Inoltre, c’è totale
divergenza tra le opere scritte a tavolino (proprio il caso di Jarrett è
sintomatico: ogni freschezza è perduta in Bridge
of Light, il cd che raccoglie la sua produzione più ‘meditata’) e quelle
improvvisate. Infine, c’è un semplice assunto logico: qualcosa di
‘irrimediabilmente perduto’ non può davvero essere ‘volitivamente scartato’.
Benché il passare del tempo abbia
giocato a favore dei teorici e dei critici (anche dei critici musicali:
perennemente in ritardo, solennemente reazionari, pervicacemente incapaci di
autolegittimarsi e guidare le svolte dell’arte), c’è ancora chi di recente ha
ritenuto opportuno segnalare un nesso più serrato del necessario tra improvvisazione
ed interpretazione. Se è vero, come afferma Enrico Fubini in Estetica della Musica[167]
che l’interpretazione-esecuzione è sempre un atto anche creativo d’esecuzione,
è vero anche che così la bilancia penderà sempre in modo sproporzionato dal
lato dell’interprete, che sta leggendo qualcosa di scritto, magari soltanto un
canovaccio, ma in fin dei conti conosce
un’ espansione piuttosto costipata.
E allora? Probabilmente sarà il caso
di lavorare sul senso di costituzione dell’opera, vale a dire allargare la
capacità di assumere opere valide esteticamente eppure non riduttivamente
ancorate a forme date. Un’opera mobile, duttile, aperta a molteplici
percorrenze di significato. Il ‘senso’ è qui il vettore direzionale che
consente un eteroriferimento, che non si esaurisce nella semplice
veicolarietà. Questa semplice acquisizione permette il superamento dell’incerto
vagolio dei francesi Nancy e Baudrillard, e affida alla comunicabilità e
all’espressione un senso non meramente crociano, ma illuminato dall’acquisizione
di un ‘altro’ indifferenziato, e tuttavia privilegiato per la direzione che un
mittente/artefice può consegnare all’opera (e a qualsiasi altra bordata di
senso voglia ‘allontanare’ da sé). E’ un passaggio semplice, che tiene conto
della possibilità del ‘dono’, riuscendo a eludere tutte le obiezioni di
Baudrillard. E tuttavia, sorprendentemente, è ancora una acquisizione ignorata
o poco valutata. Vorrà dire che anche in questo caso si attenderà il ponderoso
volume di qualche cattedratico che la faccia propria, naturalmente ignorandone
la fonte.
L’improvvisazione oltre ad essere
uno strumento privilegiato per rendere duttile il senso dell’opera, presenta in
modo spontaneo certe caratteristiche poi defluite naturalmente in altre
produzioni, altre consapevolezze dell’arte contemporanea. Tra queste: evidenza
della contaminazione, allegra frequenza dell’errore, depauperamento del
pregiudizio d’autore, valorizzazione del random, volatilità quasi
virtuale del prodotto estetico, necessità del supporto multimediale per
implementare l’improvvisazione con una maggioranza di utenti, senza
intermediazione di fastidiosi esecutori/padroni, senza pesantissime ipoteche legate alle
nozioni di repertorio e scienza dell’interpretazione.
A guardarla dalla prospettiva giusta,
l’improvvisazione dis/vela davvero parecchi territori vergini.
IL
BELLO DELLA COSA
Oggetto della nota
Molte merci possibili, non solo nel gioco linguistico.
Nozione ‘ampliata’, non ‘contraddittoria’.
Merce
Non si è accettato che l’opera d’arte avesse anch’essa un valore di scambio, un’utilità sociale al pari di tutte le altre merci. Perché altrimenti le opere d’arte e d’ingegno sarebbero così difficilmente tutelabili? e perché l’attività musicale o artistica sfuggirebbe, nell’immaginario collettivo, la qualifica di ‘lavoro’? Nessuno si chiederà mai se il prosciutto che ha comperato sia meno prosciutto per il fatto che viene commercializzato. Molti hanno invece pensato che la vera arte non potesse o non dovesse trovarsi in vendita negli ipermercati. Che solo il suo surrogato popular, privo di valore estetico, potesse reperirsi sugli scaffali come il ketchap o la mozzarella.
Cortocircuito
Invece la vendibilità di un’opera non tocca le sue qualità intrinseche. E ciò dovrebbe spingere al quesito sulle ragioni di un successo o di un flop. Rinvenute le risposte si potrà svoltare o continuare per la propria strada (cortocircuito).
Molte opzioni non fanno male a nessuno.
Il bello della cosa
Non si tratta dell’avvento di una totalità d’opere/merci. Non si invita a ripudiare la qualità estetica (occorre semplicemente reperirla ‘altrove’). Ci sono infatti cose senza valore (sostanza e grandezza, do you remember K.M.?) ma che mantengono valore d’uso; oggetti prodotti casualmente dalla natura che restano utilissime (ad esempio un intervento che semplicemente li decontestualizza li trasforma immediatamente in opere - o non lo sono già in loco?); ci sono cose, ancora utili, che pur se prodotte dal lavoro non sono merci: ad esempio quelle che produciamo per noi stessi (improvvisazioni al piano nelle quattro mura di casa propria).
Una cosa prodotta per essere consegnata come tributo o dono forzato non sarà merce. Non basterà, cioè, aver prodotto la cosa per altri, ma dovrà esserci uno scambio, e quella cosa dovrà servire a quell’altro in virtù del valore d’uso. La non-merce perde il suo valore d’uso sociale. E se il valore è inutile, anche il lavoro lo è. L’opera d’arte, quindi, deve circolare. Una sua gratuità andrebbe proprio evitata.
Naturalmente, si viaggia con Marx solo fino a un certo punto; fino a che è utile all’economia del discorso...
Merce camuffata
Per Baudrillard una merce «funziona come valore di scambio per nascondere che circola come segno, e riproduce il codice». Il codice è quello che rimanda alla doppia allusività reale/immaginario tipica della società postmoderna. Se nell’ottica mercantile il simulacro referenziale (un punto di riferimento utile a definire quantità e sostanza di valore) era costituito dal valore d’uso, la portata simbolica di quel simulacro si è ora spostata sul valore di scambio. Ciò significa semplicemente che il «potere» è propriamente quello capace di offrire un dono senza consentire la possibilità di un controdono. Possiede una eccezionale valenza esclusiva, perché la legge dell’equivalenza giocherebbe sul piano ambiguo dell’immaginario.
Snob
L’opera d’arte extracolta, fabbricata col sordo lavorio autoaffermativo nei ricchi casali di campagna dai compositori di grido, perpetua davvero l’icona della falsità adorniana; essa sbugiarda la cultura perché non sente le emergenze che le sono intorno; si trincera nella sua incapacità di ‘andare oltre’, ‘andare verso’, consolata dalla pubblicistica specializzata e da una capacità masturbatoria tipicamente romantica.
Quadra perfettamente che si condannasse l’opera capace di circolare, benché aiutata dall’industria (quella cosa d’arte verrà propriamente fabbricata, ad hoc). E non si è capito che quel passaggio intermedio portava ad una spersonalizzazione che poteva essere storicizzata, utile per fare un passo avanti, per staccare la spina del diritto d’autore, che è una forma di proprietà. Lo snobismo dei compositori colti è stato tanto lineare quanto incapace di leggere le dinamiche contemporanee. La loro produzione cerca disperatamente di non farsi merce, e ci riesce perfettamente. Rappresenta un caso a parte. Oggetti privi di valore d’uso personale (neanche il compositore gode del suo prodotto, non riesce nemmeno a smascherare gli errori durante un’esecuzione); privi di valore di scambio; frutto di un lavoro meticoloso e maniacale oppure manifestamente contraffatto: forse non proprio inutile ma certamente non proficuo. Opere per le quali è paradossale parlare di valore d’uso sociale. Scritte per ristrette cerchie amatoriali, dove ciascuno si gratifica fingendo di ascoltare le inutilità altrui.
Pochi cultori, fin troppo snob, alimentano cecità e ignoranza, incapaci di uscire da sé e andare verso il resto del mondo conosciuto.
Dono
E’ il contraltare gratuito della merce. Alcuni lo distinguono in gratuito e ‘rituale’, lasciandolo appartenere in qualche modo all’ottica dello scambio. Anche in questo caso apre parecchi spiragli di consapevolezza.
Nell’ottica mercantile, si forza la nozione di merce assimilandola a «tutto ciò che circola». Ciò varrebbe anche per il dono, oggetto di scambio «purché non sia sottoposto al vincolo dell’anonimato» (Gerald Berthoud). Si tenga ben presente la frase appena formulata.
Le due forme sociali del dono e della merce rientrerebbero, quindi, nell’ambito di uno scambio generalizzato; entrambe sarebbero forme di esteriorizzazione sociale dell’uomo; attraverso la loro ‘circolazione’ si chiarirebbe meglio il dentro/fuori dell’uomo e della comunità.
MA: anche il dono rituale (‘rituale’ è improprio, come si precisa più avanti), pur se non anonimo e inserito nel circuito degli scambi può mantenere una forte veicolazione di senso. Ad esempio una stringa di comunicazione che modifica il sistema (del tipo: «dopo questo messaggio ancora attribuito cancellerai la nozione di ‘autore’») verrà circuitata e scambiata nel sistema comunicativo, verrà attribuita a un autore e tuttavia interromperà la catena della reciprocità o della continuità; non genererà, pertanto, gli obblighi prescritti da Mauss (obbligo di dare, ricevere e ricambiare), i quali si attenueranno progressivamente, avvicinandosi alle tipologie del ‘dono gratuito’. Del resto lo stesso Mauss riconosce che le contrapposizioni tipiche del linguaggio impediscono (nel decomporre -astrarre- e poi ricomporre -addizionare- i messaggi complessi) di comprendere interamente le opposizioni. Per lui è utile ricorrere ai termini di «confusione», «mescolanza», e simili, unici realmente adeguati a descrivere le dinamiche dello scambio e del dono.
Per Guy Nicolas, invece,
l’oggetto del dono rituale non avrebbe rilievo in quanto cosa materiale. Anzi,
il suo valore di utilità si trasforma in valore di sacrificio. Perciò il dono
rituale deve essere un oggetto ‘inutile’. Questa inutilità, naturalmente è
circoscritta e riferita alle necessità primarie del ricevente. Si parla di
‘sacrificio’ perché ciò che sta sull’ara è proprio l’utilità dell’oggetto che
«nell’ordine mercantile ravviva costantemente la ferita del bisogno, del
desiderio», cioè sacrifica
Dono rituale
Più propriamente, il vero dono rituale non dovrebbe essere spogliato delle sue valenze fortemente finalizzate; il suo valore dovrebbe risiedere nella capacità di veicolarsi andando verso l’altro, nella gratuità non sottoposta a condizione di reciprocità. La sua forma migliore sta nella caratteristica di indirizzarsi ad un ‘altro’ indifferenziato e plurale; nella non riconducibilità ad un soggetto agente che dona, nella impossibilità di attribuirlo ad una individualità riconoscibile, nella non produzione di obblighi. Dovrebbe insomma confondersi col dono gratuito e anonimo, anche correndo il rischio della chiusura del circuito, della linearità e dell’arresto.
Oggetti virtuali
Va demolita anche la tesi di Baudrillard sulla inesorabile reversibilità (‘reversibilità’: anche nelle società primitive il dono non avrebbe carattere di vera gratuità, ma nasconderebbe una delle maschere del potere, quella di «immagazzinare il valore e trasferirlo in un unico senso», proprio attraverso l’unilateralità della cosa donata; ‘concessione’ più che dono) dello scambio. Ci aiuta a farlo la proliferazione di oggetti virtuali e la scoperta della reale gratuità del dono anonimo.
Cosa può accadere nel caso in cui una cosa, ancorché prodotta dal lavoro di un soggetto, venga immessa in una rete di comunicazione in modo tale da mascherarne la provenienza, impedirne l’attribuzione a un autore, nasconderne la paternità? O un soggetto diventi egli stesso ‘virtuale’, trasformandosi in impalpabili file che viaggiano in reti telematiche?
Il primo effetto sembra
essere l’ attenuazione del vincolo di proprietà, visto che lo stesso possesso
diventa difficilmente dimostrabile. Ad ogni passaggio in rete, l’oggetto (ad
esempio un software, o anche un file
text) subirà modifiche che dissipano il legame con la mano che lo ha
prodotto, e tali da spazzare via la lettura del copyright. Questo oggetto
virtuale, un file text, non sarà
propriamente ‘merce’, anche se frutto di un lavoro, perché non soggetto a
scambio. Esso sarà una sorta di bene comune, proprietà ‘collettiva’ sulla quale
molteplici utenti interverranno successivamente, alterandolo e ‘confondendolo’
di continuo fino al punto da renderne difficile l’individuazione e
Scambio simbolico
Lo scambio di doni rituali creerebbe degli obblighi. Una ritualizzazione di dare e avere definita ‘simbolica’; un mercato oblativo fatto di gadgets, percentuali di intermediazione, patrocini di attività umanitarie (teleton et similia), attività delle ONG (organizzazioni non governative).
Uno scambio simbolico portato all’estremo logico acquisirebbe infine una tale inferenza da far alzare la posta in gioco tra il potere e la singola soggettività che gli si oppone. Il soggetto sarebbe costretto a trasformarsi in cosa, oggetto di scambio col potere, seguendo una scommessa tanto forte da mettere in gioco la vita dei singoli e la sopravvivenza del potere (in Baudrillard, questa morte sembra essere da un lato una forma, in cui si perde la determinazione del soggetto e del valore -legge mercantile del-; dall’altro, contraddittoriamente, sembra essere in gioco proprio la vita biologica).
Invece, ciò che conta è che sul tavolo verde la puntata riguarda non la vita biologica, ma la costituzione di soggettività. La scommessa riguarda il pregiudizio individualistico, che sul piano estetico si traduce nella caduta del pregiudizio d’autore, e cioè nel plagio. La posta in gioco consiste nella scomparsa del soggetto individuale, oppure nell’affermazione di un ‘Altro’ alla ennesima potenza; una pluralità di presenze anonime, di agenti che non hanno bisogno di autocompiacersi. Del resto chi conosce i meccanismi culturali sa bene che le idee circolano, si incrementano, si stratificano; indipendentemente da chi le ha formulate. Costoro lo hanno fatto per la prima volta solo per modo di dire; una sensibilità collettiva, unisona, comunitaria, ha lavorato per l’inventore. Egli è solo un condensatore e un espositore (indispensabile) di enunciati già presenti nell’aria.
Lo scambio col potere si annulla diventando dono anonimo, messa in rete di opere, cose, svincolate da un vincolo di appartenenza. Lo scambio simbolico mantiene una validità solo se tende ad entropia.
Corpo
In realtà pensiamo subito al dato biologico che ci è prossimo, e lo contrapponiamo a qualcosa di più evanescente. Ma ‘corpo’ è anche oggetto materiale. La ‘materialità’ è già interna alla sua definizione. Le proprietà del corpo sono infatti dimensione e massa. Esso occupa uno spazio fisico. Un ‘corpo materiale’ è quindi espressione cacofonica. E ‘corpo immateriale’ equivale a indicare una cosa che già non ha più corpo.
Se tuttavia spostiamo l’attenzione sulla nostra percezione, allora l’ oggetto del futuro avrà un corpo immateriale in senso fisico (carbonio), ma anche materiale (siliceo) e reale nella nostra percezione. Sarà un oggetto/persona (boats) che ci trasferisce sensazioni, come gli altri.
Più la tecnologia si rende sofisticata, più questo corpo siliceo apparirà rispondente alla effettività della nostra realtà corporea. Sarà improprio, quindi, parlare di una vera e propria ‘sparizione’ del corpo; si dovrà invece dire di una più estesa corporeità.
Avremo proprio la pelle d’oca come se ci stessero toccando, e rapporti completi al di là di ogni immaginazione.
Ikebana
La nuova merce (ivi compresi gli oggetti d’arte) tende a smaterializzarsi, a scorporarsi. Uno degli scambi simbolici è così quello che riguarda non tanto la cosa, quanto il composto e la stratificazione di immagine e immaginario veicolato dai media e dall’industria. Ma non è vero che questa nuova merce «non ha funzione d’uso». Essa, anche immaginata totalmente priva di corpo materiale, mantiene perfettamente la sua realizzazione d’uso, cioè di consumo. Già per Marx la merce ha attitudine a soddisfare anche i bisogni nati dalla fantasia (ad un secondo livello la merce si trasformerà in feticcio, diventando sublimato e cosa riflessa; resterà soltanto presupposta la cosa immediata - valore d’uso). Anche solo uno sguardo sull’ikebana appaga un’esigenza. E’ valore d’uso dell’opera.
Inoltre l’industria non
s’accontenterà certo di foraggiarsi d’immagini. In termini economici,
l’immagine rappresenterà così un valore concreto che l’acquirente addiziona
alla cosa quando si reca al supermercato e vi ritorna sopra, e cioè proprio nel momento in cui la sta comprando.
Merce e proprietà
La merce può colorarsi
di varianti. Aprirsi, ‘aumentarsi’, o chiudersi, condensarsi. E resterà
opportuno rivolgersi anche alle qualifiche del ‘proprio’, per comprendere
meglio cosa voglia dire ‘sparizione del soggetto’ (lo aveva detto proprio
Adorno, o no?). Il motivo per il quale non deve esserci proprietà come
‘estensione del proprio’ è tutto qui: il soggetto, conoscendo più oggetti, e tornando in sé ad un livello di
profondità (o astrazione o smaterializzazione, se si vuole) sempre maggiore,
sfiora la tautologia,
Ma i soggetti cambiano, si moltiplicano, diventano eteronomi, spariscono assieme agli oggeti nella molteplicità, con questi si confondono sempre più. E si mescolano nelle loro stesse forme, incapaci di enumerarsi nelle infinite declinazioni, di riconoscersi come soggetti umani o boats capaci di simularne alla perfezione le gesta.
Come non potrebbero cambiare anche le nozioni di ‘proprietà’, e di ‘opera dell’ingegno’?
Comunità
Una ‘comunità’ può prevedere la spontaneità di atti determinati da parentela o altra relazione (Ferdinand Tonnies), laddove nella ‘società’ gli stessi atti nascono dalla tecnica sociale organizzata, ovvero dalla reciprocità che si attende dagli altri. Si può concludere inviando due stringhe logiche, ‘comunità-dono’ e ‘società-scambio’. Il punto debole di altre nozioni di comunità (Nancy) è nell’identificarla nella pura transitività (cioè nel trattino di congiunzione) costituito dall’essere-in-comune. Quest’ultimo è il limite tra interno ed esterno, vale a dire tra soggetto individuale e comunità. Invece un senso qualsiasi non può risiedere all’interno di una linea di congiunzione. Il senso può realizzarsi come direzione, vettore di conoscenza, soltanto se sfonda il limite, e arriva all’altro.
Ma (tutto) questo è solo
un punto di partenza.
IL
POTERE, L’ARTE
E
LE TECNOLOGIE DEL SENSO
I
Confrontarsi
con le tematiche del potere, della proprietà e della mutazione del soggetto è
indispensabile per attivare un nuovo diagramma interpretativo delle forme
dell’arte ed arrivare all’identificazione di nuove tecnologie di senso che
facciano le pulci ai francofortesi ed ai nuovi filosofi francesi.
Nella Dialettica
negativa Adorno ridisegna i margini dell’individualità. Essa viene
assimilata al particolare ma contrapposta all’universale della società
organizzata in Stato. Linee ulteriori emergono da una serratissima critica alla
Filosofia del diritto, l’opera di
Hegel etichettata come ‘ideologica’.
Adorno consiglia cautela fin
dall’approccio alla Filosofia del diritto,
per generalissime questioni di metodo: una fedeltà alle intenzioni dell’autore
renderebbe necessario il superamento del dato puramente testuale. Infatti, in Minima moralia, in difesa della forma
aforistica e contro la pretesa sistematica e pansistemica, Adorno aveva posto
il problema di un metodo che «polemizza contro il puro essere-per-sé della soggettività
in tutti i suoi stadi»[168].
E, poi, più chiaramente, aveva definito l’accantonamento dell’individuale come
«gesto sbrigativo» dovuto al permanere di Hegel nei limiti del pensiero
liberale: «la concezione di una totalità armonica attraverso tutti i suoi
antagonismi lo costringe a non riconoscere all’individuazione -che egli pure
determina come momento attivo del processo- che un posto inferiore nella
costruzione del tutto»[169].
Hegel ipostatizza la categoria di
individuo considerandola come fondamentale della società borghese ed
esaurendola poi nella teoria della conoscenza come datità irriducibile[170].
Invece, nota Adorno, «nella società individualistica» l’universale viene già
realizzato dall’interrelazione tra gli individui, e la stessa società «è essenzialmente
la sostanza dell’individuo»[171].
Per questa ragione bisognerebbe ritornare sull’individualità, e soffermarvisi
ben più di quanto Hegel non faccia. Si noti come Adorno ponga l’accento sul
legame, sulla relazione tra singolarità; qualcosa di simile avverrà nelle
teorie di Michel Foucault, specialmente quando si occuperà delle dinamiche
dell’incontro/scontro tra soggetti, e delle relazioni di potere immanenti al
piano/campo sociale[172].
Invece Hegel perviene, come è noto, a
qualcosa che giustifica il condizionamento, mettendo da parte la vera natura
del procedimento dialettico. E’ così che «l’individuo ‘può essere più
intelligente di molti altri, ma non può superare lo spirito del popolo (...)’»[173].
Ciò significa che anche chi osserva criticamente la società verrà condizionato
dall’idea di nazione[174].
E che l’individuo vive lo spazio recintato dall’ eticità dello stato, quello
del compimento del proprio dovere. Adorno ironizza: Hegel «anticipa di cento
anni il gergo della proprietà»[175];
costringendo le vittime a restare nel proprio ruolo, e a compiere comunque il
proprio dovere, non fa nulla per intaccare «la sostanzialità» della loro
situazione[176].
Così l’universale, apparentato in una stringa logica a grandezza e potenza,
«depreda il particolare di quel che gli promette»[177],
e fa in modo che «il particolare da lui sottomesso non gli sia migliore»[178].
Tutto ciò sembrerebbe obbedire a quelle stesse leggi sull’affermazione della
proprietà privata che conducono al predominio del più forte: «la scomparsa
delle individualità decretata con un gioco di bussolotti, un negativo che la
filosofia pretende di conoscere come un positivo, senza che sia realmente
trasformato, è l’equivalente della frattura persistente»[179].
Secondo Adorno, Hegel commetterebbe in
sostanza lo stesso errore di Schopenhauer. Quest’ultimo, pur avendo intuito che
la dialettica di universale e particolare non può essere risolta negando in
modo astratto l’individuale, non l’ha però compresa fino in fondo. Essa
consiste propriamente nel confronto che l’individuo, in quanto «manifestazione
necessaria dell’essenza, della tendenza oggettiva»[180], attua tra la sua fallibilità e l’essenza di
cui è manifestazione, riuscendo infine ad aver «ragione contro di essa»[181]
per questa fallibilità. La frase di
Adorno, non lontana dalla realizzazione
stilistica tipicamente dialettica ipotizzata da Jameson[182],
potrebbe apparire controversa se non fosse supportata da una analoga
riflessione contenuta in nota a uno
scritto di Benjamin[183]:
«...i bisogni della borghesia, che imprigionano i soggetti nella propria
cerchia e li conformano a se stessi, per un certo tempo hanno prodotto in loro
quella concrezione che poi si è dissolta nello stato della produzione
incontrollata in cui essi sono semplici oggetti, consumatori. Tutte le qualità
umane si plasmano in tale concrezione. Nella loro deformazione sociale gli
uomini si accorgono della loro fallibilità, e proprio questo è l’umano».
La posizione di Adorno nei confronti
della Filosofia del diritto di Hegel
è ancora critica per quel che riguarda il ruolo affidato alla coscienza
soggettiva nel suo rapporto con la normatività del diritto: un altro aspetto
che si ritroverà nell’analitica del potere foucaultiana, in relazione alle
strategie del diritto (al diritto come sistema e alla legge come forma)[184].
La coscienza soggettiva mal sopporta la violenza del diritto e dell’eticità
oggettiva, visto che il primo «è il mezzo, in cui il cattivo per la sua
oggettività ottiene ragione e si procura l’apparenza del buono»[185];
l’oggettività etica viene salvaguardata attraverso la violenza: un principio
distruttivo che «conserva nella società il terrore»[186].
Ed ecco ritornare l’accusa già formulata:
Hegel, come fondatore del diritto positivo, ne fornisce anche l’ideologia: «il
principio formale di equivalenza diventa norma, tana dell’ineguaglianza
dell’uguale, in cui scompaiono le differenze»[187];
insorgerebbe qui, ancora, quella matrice
positivistica ampiamente criticata dalla scuola di Francoforte e dallo stesso
Adorno perché portatrice di modelli logici a prima vista inoppugnabili[188],
ma poi inadeguati e immediati in relazione ad un oggetto di conoscenza dai
mille antagonismi interni[189].
L’idiosincrasia adorniana per il
sistematico che ignora negazioni è espressa anche nella condanna di un diritto
che esiste nella definizione di sue norme
. E’ questa normalità ben definita che viene indicata come limitativa, come
fonte di tutte le esclusioni: quanto non rientri nella definizione finisce con
l’essere scartato, l’eccezione viene coperta da una maschera , una falsa realtà si sovrappone a
quella effettiva e plurale. Lo stesso Hegel ammetterebbe, con un lapsus sfuggitogli dalla penna, che
coscienza e norma giuridica non sono stati infine conciliati, perché in fondo
«l’ordinamento giuridico è oggettivamente estraneo ed esteriore al soggetto»[190];
nasce allora l’apparenza della conciliazione, che potrebbe definirsi come un
tentativo d’autodifesa degli individui. Questi ultimi, aggrediti dalla totalità[191],
e consapevoli dell’antagonismo reciproco, per autoconservazione finirebbero per
accettare «ciò che gli è estraneo»[192].
L’universale schiaccia l’individuo, lo costringe a «guardare solo se stesso,
ostacola la sua comprensione dell’oggettività»; e così infine il nominalismo
odia l’utopia, perché in fondo si serve di quest’ultima attraverso il primato
del particolare, dimenticando quanto ormai questo particolare sia divenuto
funzione dell’universale. Si potrà intervenire su quello soltanto
considerandolo come una funzione, una
partizione di questo, in grado tuttavia di agire in modo discontinuo
‘disturbando’ il pensiero che si pone sulla ‘linea retta’. Per questa ragione,
forse, sarà la dialettica negativa, più che il positivismo, a centrare l’ideale
conoscitivo, perché in grado di accettare la contraddizione presente nella
realtà e capace di accogliere l’ oggetto anche quando rifiuti di assoggettarsi
al pensiero. Quest’ultimo sarà in grado di compiere tutte quelle deviazioni da
sé che gli permettono di liberare gli antagonismi interni e le contraddizioni,
evidentemente al di là della semplice norma giuridica posta.
Il pensiero deve allontanarsi dalla
tentazione di essere schematicamente ‘normativo’; in modo quasi aporetico deve poter contenere il
suo ‘pensarsi-contro’, e riuscire ciononostante a sopravviversi. Adorno lo dice
chiaramente nella Dialettica negativa,
quando tenta una di quelle definizioni aperte, in progress, che ne
caratterizzano lo stile: nella dialettica negativa «il pensiero non è costretto
ad accontentarsi della propria normatività; è in grado di pensare contro se
stesso, senza rinunciare a se stesso»[193].
La dialettica di Hegel, che tenderebbe alla conciliazione, infine non la consegue perché attraverso il
principio di identità lo spirito assoluto diventa il particolare, pur avendo
raggiunto la totalità con la comprensione di ciò che non è identico; in ciò il
non vero: il tutto finisce col negare la singola determinazione, e «l’atto del
rendere uguali riproduce la contraddizione»[194]
che pur aveva tentato di conciliare.
II
Dalla
critica ad Hegel emergono idee (forse non sufficientemente radicalizzate
dall’autore di Minima
moralia) poi divenute centrali nelle
teorie di Foucault. L’accento posto sulla ‘relazione’ tra individui, il
nomadismo del soggetto, la ricerca affannosa di una ‘uscita’ del pensiero da
tutto quanto sembrerebbe ridurlo nei limiti della ‘norma’: tematiche dense di sviluppi ed esiti
inaspettati, utili sia a ridisegnare le nuove forme di soggettività che a
riconsiderare l’ambito dello scambio simbolico e le valenze della ‘merce’. Una
matrice comune è nell’opera di Karl Marx.
La nozione di ‘individualità’ presenta in
Adorno almeno due aspetti. Per quello affermativo, l’individuo è un
essere-per-sé, una unicità elevata a propria determinazione[195].
Egli rappresenta ancora (condannato com’è): «la verità contro il vincitore»[196];
colui che «differenzia sé dagli interessi e mire degli altri, si fa sostanza a
sé medesimo, instaura come norma la propria autoconservazione e il proprio
sviluppo»[197].
Dal punto di vista dinamico lo sviluppo dell’individuo consiste proprio nel
momento della sua determinazione differenziale, cioè in quel di diverso dagli
altri che egli intende valorizzare; dal punto di vista statico, o
specificamente affermativo, lo sviluppo dell’individuo consisterà
nell’accettare quanto di sé è già sostanza, facendone progetto
d’autoconservazione. Questo secondo momento è importante per un successivo
passaggio, quello in cui la singola autocoscienza si confronta con le altre
divenendo nuova a se stessa, cioè autocoscienza sociale. E’ questo il motivo
hegeliano riferito al Marx de L’ideologia
tedesca e che non è inopportuno,
invece, riportare ad una spiegazione materialistica in senso proprio, contenuta nella Dissertazione. Marx vi procede ad una radicale distinzione tra la
fisica atomistica democritea ed epicurea, rinvenendo in quest’ultima l’origine
di un vero e proprio materialismo (visto che gli atomi non avrebbero a che fare
che con altri atomi), perché la declinazione dell’atomo da una caduta
rettilinea nello spazio vuoto apparirebbe casuale, e priva di determinazione
formale.
L’idea di un soggetto capace di
migrazioni imprevedibili sembra presentarsi originariamente in Marx proprio
nella dissertazione dottorale[198]
del 1841: «gli atomi costituiscono l’unico oggetto di sé stessi, possono essere
in rapporto solo con se stessi, e pertanto, scontrarsi»; «l’individualità nella
sua immediatezza si attua solo ponendosi in rapporto con un’altra realtà, che è
sé stessa, anche se quest’altra si presenta nella forma dell’esistenza
immediata». Rilevante la conclusione: «Così l’uomo cessa di essere un prodotto
della natura solo quando l’altro, con cui egli è in rapporto, è non
un’esistenza diversa ma anch’esso un’individualità umana, anche se non è ancora
lo spirito. Ma perché l’uomo, in quanto uomo, diventi il suo unico oggetto reale,
deve avere in sé infranto la sua esistenza relativa, la potenza dei desideri e
della mera natura. La repulsione è la prima forma dell’autocoscienza, e
corrisponde pertanto all’autocoscienza che si apprende come essere immediato,
come astratta individualità. Nella repulsione è dunque attuato il concetto
dell’atomo, secondo cui esso è l’astratta forma e, del pari, il contrario,
l’astratta materia; poiché ciò con cui l’atomo è in rapporto sono sì atomi, ma
altri atomi. Ma se io mi comporto con me stesso come con un altro in senso
immediato, il mio è un comportamento materiale. E’ la massima esteriorità che
possa pensarsi. Nella repulsione degli atomi, dunque, la materialità dei
medesimi, espressa nella caduta rettilinea, e la loro determinazione formale,
espressa nella declinazione, sono unite in una sintesi»[199].
La reciprocità dei concetti di individuo
e società è la conseguenza del confronto tra le autocoscienze. In questo
istante, per i francofortesi, l’ «individuo in senso pregnante è addirittura il
contrario dell’essere di natura, un essere che si emancipa e si estranea dai
meri rapporti di natura»[200]
riferendosi fin dall’inizio al sociale. E’ un’idea mutuata ancora da Marx,
laddove l’individuo, assieme all’esistenza relativa, deve infrangere «la
potenza dei suoi desideri e della mera natura»[201].
E’ fin dalla reciprocità tra individuo e
società che nasce la seconda nozione di individualità, laddove la società
invade la sfera del «singolo soggetto» costringendolo a muoversi in campi
sempre più circoscritti; in quel momento si svilupperà un dinamismo sociale che
costringerà «il singolo soggetto economico a perseguire i suoi interessi di
guadagno spietatamente e senza preoccuparsi del bene della collettività»[202].
Chiara la matrice marxiana, senza voler
ricondurre certi motivi fino alla speculazione kantiana[203],
si palesa l’ulteriore vicinanza con le tesi di Foucault: la relazione tra
soggetti, già indicata come probabile nesso comune, si colora di una
interessante connotazione, relativa allo scontro
tra emergenze. Non è superfluo, forse, aggiungere che questa emergenza
sottintende una uscita da sé, la
ricerca dell’altro, un eteroriferimento
ancora circoscritto nel genere (l’altro
è come il sé) ma già connaturato ad
una determinazione formale che sola consente la definizione di una singola
soggettività: ciò anticipa e disegna un rapporto con Levinas.
La reciprocità tra individuo e società,
particolare e universale, sembra invece già rimandare al gioco ‘dentro-fuori’
di Deleuze, e nell’accezione ‘singolo-comunità’ (mera veicolarità del senso)
all’opera di Jean-Luc Nancy.
Tra Foucault ed Adorno c’è corrispondenza
non biunivoca, perché è naturalmente il primo a rivolgersi all’operato della
Scuola di Francoforte evidenziando come, nonostante il diverso retroterra culturale e tradizionale,
gran parte delle tematiche trattate a partire dagli anni Settanta in Francia
vengano quasi a sovrapporsi e a completare
le analisi dei francofortesi. In una intervista[204] Foucault da un lato lamenta la scarsa
diffusione delle teorie della scuola, dall’altro assicura che se avesse
conosciuto quelle teorie fin dai tempi d’apprendistato avrebbe evitato «molti
giri tortuosi» e seguito alcune delle «strade aperte dalla Scuola di
Francoforte»[205].
Muovendo da questa indicazione, alcuni si
sono rivolti ai problemi posti dall’ istanza normalizzatrice, allo spazio che
quest’ ultima lascia o lascerebbe all’individuo[206].
Peter Dews, in Potere e soggettività in Foucault : «i continui dinieghi di
Foucault che si possa considerare il potere come una cosa posseduta da gruppi o
individui diventano comprensibili alla luce della descrizione weberiana della
transizione da forme di dominio
‘carismatiche’ e ‘tradizionali’ a forme ‘legali-razionali’»[207].
Ciò significherebbe che le due tematiche, quella weberiana e quella
foucaultiana, avrebbero un punto d’incontro nel fatto che Weber stabilisce
elementi che poi Foucault attribuirà «al potere per sé nella sua specificità
storica»[208].
E ancora: «nelle società moderne, il
potere non dipende dal volere e dal prestigio degli individui, perché si
esercita attraverso un macchinario amministrativo impersonale che opera secondo
regole astratte»[209]:
queste ultime sono forme di una
strategia che si sovrappone ad
un’altra -l’amministrazione sul sistema
del diritto - entrambe poi cospiranti ad
una effettualità del potere (gioco di forza). Questa descrizione convergerebbe
con la riflessione di Horkheimer ed Adorno culminante nella descrizione di una
«soggettività vuota e adattata che ha perso quell’autonomia per il cui amore era
iniziata la conquista della natura»[210].
Porre l’accento sull’iniziale sviluppo
del soggetto, e sull’impossibilità di una sopravvivenza di quest’ultimo in un
contesto che ecceda nel perseguimento di un interesse privato[211]
conduce infine Adorno a lamentare l’esuberanza della totalità in direzione
dell’individuo. L’aforisma «Il tutto è il falso» indicherà , nel famoso
capovolgimento della formula hegeliana, il precario equilibrio tra momento e
totalità, individuo e società, particolare ed universale.
A questa invadenza del tutto corrisponde,
in Foucault, la minimalità dello spazio subiettivo, il residuo che la
formulazione e l’estensione del comando lasciano al quale della libertà singolare. Al soggetto è consegnata la mera
intenzionalità, dal momento che una volontà indirizzata appare incapace di
raggiungere il suo oggetto, se non in modo casuale. Alla totalità
indifferenziata di Adorno potrebbe somigliare in Foucault la tracimazione delle
relazioni di forza, l’onnipresenza del potere
(e purtroppo però, per Foucault, ogni relazione è già potere).
La dinamica sociale scaturita dal
prevalere dell’interesse privato - la nullificazione che produce nell’individuo
-, diventa in Foucault uno dei motivi che spiegano e fanno da presupposto
(al)l’introduzione di nuovi meccanismi incrociati di potere-sapere. Ad esempio, in
alcune conferenze tenute da Foucault[212],
l’introduzione della pratica dell’esame (ed il conseguente sviluppo delle
scienze umane) all’interno della
‘società disciplinare’ è motivata dalla necessità di un controllo
sociale minimale[213]
reso necessario dalla nuova distribuzione economica sorta alla fine del secolo
XVIII.
Un altro punto comune esiste anche tra la
teoria della società amministrata fondata sulla coazione, e la società
disciplinare descritta da Foucault. Nella fase classica della Scuola di
Francoforte esiste una circolarità tra la necessaria amministrazione e la
tendenza di quest’ultima ad assumere una posizione autonoma e talora
contrapposta a quella di ciascun amministrato[214].
Questa tendenza assume la forma della coazione perché nasce dalla
contrapposizione, ma resta tuttavia una forma sottile di controllo che tende,
attraverso molteplici meccanismi, a ricostituire una falsa conciliazione fra
soggetto ed oggetto: il soggetto diventa egli stesso oggetto, secondo
un’intuizione che caratterizzerà gran parte della riflessione postmoderna.
L’industria culturale, che gestisce ma
anche indirizza il gusto, è uno di questi meccanismi di controllo. Da questo
momento in poi, vero diavolo in musica, ogni riuscito tentativo di
interfacciare il gusto dell’utenza verrà contrabbandato come proliferazione
della strategia industriale e rifiutato con monolitico disprezzo da tutti gli
intellettuali ed i compositori di grido.
Un ulteriore ghetto autoesclusivo. Una ideologia
capace di preformare i linguaggi ed accecare la vera ricerca di
soggetti/oggetti estetici.
Numerose altre analogie tra i due autori
sono nell’individuazione, molto più caratterizzata in Foucault, della strumentalità e trasversalità di scienze tradizionalmente immuni
dall’ingerenza del potere o della totalità, e che vengono invece ricondotte
allo stesso ‘diagramma’, o al medesimo ‘campo di forze’. Adorno fa riferimento al caso della sociologia
empirica, che fornisce dati che possono facilmente essere strumentalizzati «da
ogni forma di amministrazione»[215],
utilizzando sistemi come l’indagine demoscopica, la quale «merita di essere
insieme considerata e disprezzata»[216].
L’errore risiederebbe, per Adorno, nello scambiare la volontà di tutti con la verità assoluta, per il solo fatto che
«non è possibile accertarne un’altra»[217].
Foucault, dal canto suo, teorizza,
all’interno del sistema disciplinare, la coestensività tra scienze umane
(sapere) e potere, attraverso la formazione di strutture di controllo (esame).
Anche per Foucault pensare ad un ordinamento sociale basato sulla volontà di
tutti è profondamente illusorio, perché si ignorerebbe la reale incursività del
potere. Quest’ultimo utilizza il meccanismo disciplinare per rendere
strumentali anche scienze umane come sociologia, psichiatria, psicologia.
‘Disciplina’ è quello strumento giuridico (e non solo) di verità (di verità
plurali) che consente una ‘strutturazione’ del diagramma o della rete. Queste
discipline vengono a costituire una sorta di controdiritto. E a un
contropotere si
riferisce lo stesso Foucault alludendo a quello che viene dal basso e che
«permette a gruppi, comunità, famiglie o individui di esercitare un’azione su
qualcuno».
Questo contropotere (e, in subordine,
anche il controdiritto), come la semplice ‘resistenza’ prevista da Foucault, ha
la rilevanza di una mera presa d’appoggio della quale il potere si serve in
ogni caso. Entrambi sono già inclusi nel diagramma delle forze agenti. Negli
spazi minimali in cui Foucault dà spazio alla possibilità di una opposizione
tesa a sostenere effetti apparentemente legati ad una volontà dei soggetti
politici agenti, potrebbe aprirsi una possibilità di intevento volitivo del
soggetto. Ma ciò non corrisponde alla logica complessiva del sistema: queste
‘aperture’ devono da noi essere intese come opzioni
già previste dall’andamento casuale del potere.
Al confronto tra l’istanza
normalizzatrice adorniana e la tecnologia normalizzatrice di Foucault, occorre
specificare che, specie per il secondo,
dal punto di vista della sovranità, ogni
tentativo di fondare una teoria che determini l’autonomia dei soggetti di
conoscenza risulterebbe fallace. Le stesse discipline, già coinvolte per effusione del potere,
formerebbero il primo nucleo di quel soggetto ipoteticamente libero sul quale
qualsiasi teoria viene a fondarsi. Questo soggetto è invece eteronomo già in
partenza, come l’istanza normalizzatrice lamentata da Adorno è in qualche modo
già inserita nel diagramma al livello dei singoli nodi individuali. E’ per
questo che ciascun dire, anche nel caso delle cosiddette ‘resistenze’, è un
detto che si fonda sulle operazioni disciplinari di controllo. L’istanza
normalizzatrice diviene un «controllo coagente sempre più serrato del corpo e
di ‘tecnologie normalizzatrici del comportamento’»[218].
Sembrerebbe, così, che volendo immaginare
l’uscita dallo stallo occorra dedicarsi alla ricerca di brecce, sacche interne,
tali da consentire al soggetto, vale a dire ai soggetti, di progredire in modo
volontario. Cioè secondo qualità e con un percorso di senso.
III
Se
ci si rivolge in modo capillare (benché sintetico) alle teorie di Foucault ci
si accorge subito dell’eccesso di intrusività del potere sul soggetto.
Individuare in alcuni dei soggetti possibili spazi residuali di relazione
estranei all’ingerenza del potere e tali da consentire al soggetto l’utilizzo
di libere cose (merci) in circolazione è importantissimo. Soltanto attraverso
questa relazione sarà possibile assegnare un ‘senso’ di percorso all’agire dei
soggetti, dalla sfera della capacità critica a quella della capacità creativa.
L’analisi sociologica e giuridica (nella sua validità) dovrà portare allo
stesso punto di quella estetica; solo così lo sguardo sulle forme dell’arte
potrà ricevere conferme.
Nella Volontà
di sapere [219],
Foucault riferisce della necessità di fondare una analitica capace di mostrare
il cammino del potere, di tagliare finalmente la testa al monarca, di
affrancare la nozione stessa di potere dal privilegio teorico della legge e
della sovranità[220],
nell’intento di smascherare una duplice
impudenza: l’autoaffermazione del potere quale principio del diritto
(attraverso l’identificazione tra volontà del monarca e legge, secondo il
postulato che il discorso vero viene pronunciato da ‘chi di diritto’) e la
finzione che il suo campo di azione sia limitato alle semplici procedure del
divieto e della sanzione. La miglior efficacia del potere risiede così nella
sua capacità camaleontica: più riesce a nascondere, più è in grado di
restituirsi i risultati che si era proposto. Sarebbe infatti intollerabile al
soggetto immaginare una completa privazione di libertà (libertà dalla
molteplicità dei rapporti di potere, dalla loro effettiva capillarità):
camuffato nella semplice limitazione
negativa - di non infrangere il divieto per non incorrere nella sanzione
-, il potere concede l’illusione
dell’esistenza di una sfera personale ed esistenziale ancora inviolata, ed
inviolabile a condizione che il comando
resti a sua volta intatto. Questa integrità si fonda sulla presunzione che il
comando resti in sé e per sé: in sé nella sua mera formulazione, per sé nella
restituzione al concetto senza aver subìto resistenze. Ancora in sé perché
mantiene una forma, e per sé quando percorre la pluralità di campi disponibili
mantenendosi non contraddetto.
Ma il comando può ancora (mai) sopportare
questa purezza? Non è piuttosto sempre mediato dalla pluralità degli ostacoli
che pure alla fine supera o coi quali si scontra (illecito)? Quando il potere
finge l’integrità del comando tende innanzitutto a farne scomparire la derivazione occasionale. Ma la norma è sempre
occasionata, perché trova la sua legittimazione nella sua alterità, nella
capacità di rimandare ad altro. Questa
necessità logica di essere fondata viene utilizzata dal ‘potere’ per
attuare la prima delle sue impudenze, per collegare alla verità ciò che è solo
detto dal legislatore, e detto per rimediare o per ricucire con strategia e
circostanza (a)gli strappi derivati dagli scontri dei vettori.
La mistificazione relativa al comando non
si esaurisce qui: è nella semplicità ed unicità del meccanismo divieto-sanzione
che si raddoppia. Mai il comando riesce a percorrere intero il suo percorso, a
chiudere il cerchio, e ritornare integro ‘per sé’, se non immaginando, contraddizione in termini, una
‘terza forza’ neutra. Questa ‘terza forza’, che è la paura della sanzione, è
invece effettivamente in grado di scoraggiare l’illecito ed è, per Foucault,
parte del gioco: entra in campo modificando le relazioni e frantumandole. Per
questo il comando non può mai essere integro, perché non riesce mai ad essere
unitario: la sua efficacia è data proprio dalla sua adattabilità, e quindi
dalla possibilità di frantumazione e scissione.
Dall’altra parte del comando si colloca
la seconda impudenza, sotto le spoglie di un’ampia libertà concessa alla
persona. Ma ‘tutta’ questa libertà è infine solo quella residuale: essa è cioè
sempre soltanto seconda, pur concedendo integro il comando. La libertà,
ancorché sia condivisa quella altrui, ha un limite più forte e principale nel
comando. Ed ha anzi per di più un limite di principio perché il comando sembra
stabilire quali sono i campi in cui la libertà individuale può sciogliersi e
quali quelli in cui deve irrigidirsi. Il comando deve poter trasformare la
piccola resistenza incontrata in un «punto d’appoggio», in un appiglio dal
quale lanciarsi alla realizzazione dei (di) suoi effetti, per conservarsi
liquido e multiplo.
Ecco allora che la estraneità tra comando
e libertà personale tende ad affievolirsi, confondendo e mescolando in un’unica
soluzione i due momenti: quando il comando entra
nel merito, quando è in grado di incidere le qualità, stabilendo quale
sia la nostra minor libertà, esso s’è già mescolato con la libertà singolare,
ed ha confuso questa libertà con la realizzazione di effetti che a questa
restano estranei. Allora anche l’unicità della sfera di libertà è menzogna: non
è autonoma che per quantità, e quindi mai realmente autonoma. Al soggetto, al
vecchio soggetto, sono possibili
‘scelte’ circoscritte e numerate, azioni già previste nel loro genere:
altre gli sono precluse, e confinate in un campo che Foucault definisce
‘esclusivo’, perché il potere si dimostra in grado di assimilare ‘recintando’,
escludendo.
Non avrebbe propriamente senso parlare di
‘scelta’ e quindi nemmeno di libertà: il potere ha già deciso il ‘quale’, ha
già programmato le devianze, ed è in grado di affrontare ed utilizzare
qualsiasi resistenza. Ciò conduce Foucault a passi ulteriori e inevitabili.
Foucault procede negativamente. Il potere
non è identico al sapere, come alcuni avevano ritenuto, anche se la relazione
tra i due concetti viene definita coestensiva.
L’intreccio, e talora la sovrapposizione, è dovuto alla cellularità ed alla
serialità, le costanti metodologiche che richiamano al sistema (ché tale ora ci
appare) mobilità e pluralità. Ne La
volontà di sapere si afferma che il
potere non è forma di assoggettamento dissimile dalla violenza per la sola
sussistenza di una regola: questa violenza non è mai costitutiva della nozione
di forza in sé, come accade per il diritto naturale. Lo precisa Deleuze quando
considera l’accezione nietzschiana della ‘forza’ in Foucault: ogni forza è già
rapporto, il suo unico oggetto «è costituito dalle altre forze»[221].
La violenza è soltanto la conseguenza della forza, e si esplica nella
modificazione coatta di ciò che è estraneo al vettore considerato. Non bisogna
confondere uno dei risultati con ciò che
definisce la forza: essa è tale per il solo fatto di essere azione, relazione,
interazione. Non potrebbe pertanto esistere isolata, ma solo forza come «azione
su azioni», come variabile capace di agire su altre variabili.
Ancora, «il potere non è una forma»[222],
non va confuso cioè con alcuna
forma-Stato: e anche in questo senso va liberato dal privilegio teorico
della sovranità; esso non è dato dall’insieme degli organismi giuridici e
amministrativi che garantiscono la sottomissione del cittadino, perché non si
esaurisce nell’opposizione binaria dominanti-dominati. Non garantisce la
gerarchia[223].
Così, se da un lato non è costituito dalla violenza (che ne diventa strumento
eventuale) dall’altro non si esaurisce nel dominio (che ne è effetto
mascherante).
Il potere di Foucault è sempre obiettivo,
da due punti di vista. In primo luogo perché è intenzionale: ogni potere si
esercita per conseguire intenti o obiettivi. Poi perché è oggettivo: non è
fondato sulle scelte individuali del soggetto. La oggettività indica la immanenza al campo delle relazioni di forza, non è esclusiva di intenzionalità , ma
l’intento realizzato non tiene conto della scelta individuale. Il presupposto è
nietzschiano, e riguarda la casualità d’esito nello scontro di forze. Foucault
stesso delinea questo principio in Nietzsche,
la genealogia, la storia , in relazione alle idee di ‘provenienza’ (Herkunft) ed ‘emergenza’ (Entstehung). All’ ‘origine’, che è
quella che rimanda ad una altezza ed una
profondità metafisiche[224]
Nietzsche aveva opposto la provenienza come stirpe, appartenenza al gruppo, e,
soprattutto, l’emergenza come «entrata in scena»[225]
delle forze. La genealogia consentirebbe di evitare la «potenza anticipatrice
d’un senso», e di ristabilire «il gioco casuale delle dominazioni»[226].
Se ogni vettore segue la propria
direzione (e per questo è intenzionale),
l’esito dello scontro è però casuale, non riesce a mantenere il ricordo
individuale degli effetti desiderati. Inoltre, e soprattutto, il potere
scaturisce dalla relazione stessa dei vettori, è effettivamente oggettivo
perché lo scontro avviene prescindendo da qualsiasi volizione, o volontà
individuale.
Per questo noi sosteniamo che l’elemento
volontaristico si attenua nell’emergenza della mera intenzionalità. ‘Mera’,
perché riferita ad una semplice ‘relazione’, e non al soggetto che si dispone verso
l’oggetto: «gli intenti (sono) decifrabili, eppure può darsi che non ci sia
nessuno che li abbia concepiti e ben pochi che li abbiano formulati»[227].
Anche Deleuze esclude una intenzionalità
riferita al soggetto, perché il campo del sapere viene ad essere costituito da
due forme tra le quali può esistere una relazione, che è però di non-rapporto.
Le due forme di sapere sono quelle della Luce-visibilità e del
Linguaggio-enunciato, ed ognuna di esse ha proprie caratteristiche: «come
potrebbe esserci intenzionalità di un
soggetto verso un oggetto dal momento che ognuna delle due forme ha i propri
oggetti e i propri soggetti?»[228].
Secondo Deleuze il luogo riservato all’intenzionalità può essere soltanto
nell’intreccio tra le due forme del sapere, un intreccio che ancora non si
piega sul sè, non costituisce quel dentro-come-piega-del-fuori in cui il
soggetto potrà trovare residenza. Questo intreccio lascia parlare una
intenzionalità microscopica, particellare, microcellulare, ben lontana dal vecchio soggetto (essa,
tuttavia, già illustra alcune caratteristiche delle nuove forme di
soggettività).
Se rispetto alla realizzazione di effetti
il potere, che è immanente al campo, riesce sempre a conseguirli (un effetto
vale l’altro nel gioco casuale dei reciproci domini), l’individuo non riuscirà
mai a sortire l’effetto desiderato, per la casualità che indirizza in modo
incerto le singole intenzioni. Da qui la ‘effettività’ della storia, la quale
evita accuratamente un fondamento qualsiasi, anche la prospettiva che cerca di
rintracciare ‘costanti’ nel movimento
degli eventi.
Il potere
(oggettivo e meramente intenzionale) è
immanente al campo di forza, e l’azione su azioni, la forza, Foucault la
confonde con la relazione: quest’ultima è sempre una relazione di forza;
presuppone una forza plurale che è tale già nel semplice rapporto tra
particelle. Questa particellarità microcellulare esclude che il potere sia
confinato nell’ambito del semplice comando negativo, che è semmai espressione
di una strategia di realizzazione di effetti. Il comando, la legge, è
propriamente una forma di strategia,
e il diritto costituisce un intero sistema
strategico[229]:
esso è innanzitutto una rappresentazione del potere, dove rappresentazione è
intesa non come ulteriore maschera, mistificazione o illusione, ma come «modo
d’azione reale»[230].
E difatti il diritto trova posto come corollario del potere, come una delle strategie con le
quali i rapporti di forza realizzano degli effetti. E’ così che il rapporto di
forza sembra a noi confondersi con la semplice relazione tra singolarità:
esso è immanente all’intero diagramma, che diventa «diagramma di forze», e
presume l’esistenza di singolarità considerate soltanto nel loro reciproco
interagire nella turbolenza di vettori incrociati. E’ così che viene rovesciato
il binomio diritto-potere, perché il potere concreto è quello che rende
effettiva ciascuna sua strategia. Una scienza utile a smascherare questa
onnipresenza concreta è l’analitica del potere. Quest’ultima «non prende più
per modello o per codice il diritto»[231].
IV
Se
il diritto è per Foucault una strategia del potere, aggiungeremo che il diritto
è una strategia d’esclusione. Sovente legato ad un luogo particolare, il
diritto definisce le modalità di comportamento, escludendo chiunque non ne sia
a conoscenza. Lo straniero, il paria, l’uomo che in buona fede la ignori, non
sono scusabili per aver infranto una legge. Perciò il diritto è in primo luogo
configurabile come un recinto ideato non solo per proteggere chi sa, ma
soprattutto per difendere chi ha. Tutta l’impalcatura della legge traballa
quando si mette in discussione la legittimità della proprietà. Già solo nei
termini, l’alterità viene tenuta alla larga.
Il diritto si configura come una delle
strategie possibili perché strategico è l’incrocio tra vettori, e strategico
(effettivo) il risultato casuale di qualsiasi incrocio. ‘Strategia’ è «lo stesso diagramma di forze o di
singolarità interne ai rapporti» di forza[232].
Una forma interna a questa strategia è la legge, col meccanismo divieto-sanzione;
una seconda forma è la paura della sanzione; una terza è collegata
all’esecuzione della pena. La giustizia, problema centrale già in Sorvegliare e punire, è così un esempio
ulteriore della capillarità del potere, e della coestensività tra quest’ultimo
e il sapere; una molteplicità magmatica di giudizi e giustizie si aggiunge per Foucault all’originaria unicità del
provvedimento: vi si sommano istanze apparentemente istallate nella zona del
sapere, ma che infine «spezzettano il potere legale di punire»[233].
Quale spazio resta al soggetto? Nessuno,
evidentemente, per il vecchio soggetto di conoscenza. Esso viene frantumato in
una miriade di altri soggetti: è talora quello che ha preso coscienza della
propria impossibilità di dire, conoscere, essere titolare di diritti[234],
talaltra quello che si fa consapevole della propria pluralità, cercando
altrove (in un «fuori») il significato del sapere ed il luogo della
propria residenza (la «stanza centrale» di Deleuze). La conoscenza si trasforma
in sapere prospettico, che non è altro
che un sapere storicizzato, mobile a sua volta e fondato sull’esperienza, un
sapere che nasce dallo scontro, dalla lotta tra le due sue forme dell’enunciato
e della luce; una relazione data, paradossalmente, dal non-rapporto [235].
Anche da questo punto di vista, cioè dall’interno della coscienza e del
soggetto, l’intenzionalità viene ad attenuarsi, e diventa addirittura
‘infinitesimale’. Ciò che Foucault rifiuta è che la coscienza intenzioni la
cosa, o che si significhi; sia gli enunciati che la luce non intenzionano
nulla: «il sapere è irriducibilmente doppio, parlare e vedere, linguaggio e
luce, questa è la ragione per cui non
c’è intenzionalità» [236].
E se c’è essa appare «reversibile e moltiplicata».
Si
può tendere una stringa logica che parte dal soggetto, attraversa il potere e
arriva al governo. Sulla soglia del governo si verifica che anche un soggetto
collettivo si trova costretto ad attraversare il potere. Ciò è estremamente
rilevante perché contiene in nuce la ragione della perdita di rappresentanza.
Quest’ultima troverà un contraltare ben visibile in campo estetico.
Il ‘governo del sociale’, «come spazio
(...) di sperimentazione di una possibile via della riforma, dimostra la non
contraddittorietà dei due termini tradizionalmente contrapposti nella
concezione liberale classica, l’emancipazione cioè dell’esistenza individuale e
l’espansione dello Stato nella vita civile»[237].
La stringa è fondata su tre eguaglianze: il soggetto è potere; il potere è
governo; il governo è a sua volta soggetto. Il soggetto è potere perché è «un
precipitato di relazioni di potere»[238], e può avere senso soltanto se letto
attraverso il diaframma del sociale, presumendo cioè la preesistenza di
relazioni di potere. Ma qui può forse rilevarsi la scarto già segnalato tra la
semplice relazione ed il rapporto di potere, tra incontro e scontro. Il potere
è governo perché «governare è agire in modo ‘da strutturare il campo di azione
possibile di altri’»[239].
Cioè, il governo presume l’esistenza di una sfera di autonomia e di libertà del
soggetto nella sua relazione con altri.
Ma questa libertà è soltanto residuale,
con margini già qualificati dal potere. E se la libertà è nella resistenza
senza la quale non può esserci potere, allora in F. anche la resistenza è uno
strumento per la continuità del potere.
Il governo è poi a sua volta soggetto,
perché esso è dato proprio dalla relazione, dal fatto che trova un suo luogo
nello strutturare il campo d’azione degli altri. Il soggetto si situa a metà
strada tra il possibile del governo ed il possibile del soggetto, riferendosi
alla possibilità della rivolta, alla «intransigenza della libertà». Pure questa
intransigenza è strumentale, è a sua volta appiglio per una presa, pretesto
della turbolenza infrastratica.
Il governo del sociale sembrerebbe
svilupparsi in modo separato dall’insieme dei contenuti giuridici e delle
questioni riguardanti l’interesse individuale, cioè la proprietà privata: si
rispetta il diagramma foucaultiano che vede lo Stato ed il diritto come semplici
strategie del potere ( e questa visione è sicuramente pragmatica, razionale e
positiva). Il cittadino non possiede più i diritti che lo Stato e il sistema
del diritto sembravano concedergli; gli resta soltanto il dovere: ogni
contrapposizione di matrice liberale tra i due settori sembrerebbe svanire, finisce «l’io possessivo, soggetto
di attributi che ne allargherebbero la libera sovranità»[240].
Ma questa consapevolezza non sembra
lasciare spazio al possibile, alla libertà di una singolarità (altro ancora è
il problema delle ‘singolarità selvagge’), se non nell’ottica di Nietzsche.
Il nuovo soggetto di Foucault: da un lato profondamente lontano dall’uomo e
dal garante che fu la divinità, dall’altro simile a una macchina che sfugge al
carbonio per rifugiarsi nella realtà del
silicio. Non più sguardo sull’infinito[241],
ricerca della profondità originaria, ma caduta verso la quantità, che è
indifferente all’infinito perché illimitata[242].
L’auspicio va tristemente verso una forma «che non sia peggiore delle due
precedenti[243]. Quest’uomo possiede tutte le qualità e tutte
gli sono indifferenti (aristotelicamente non possiede quindi nessuna qualità)[244];
possiede tutte le virtù, ma le manda a dormire[245];
dalla sua relazione con il ‘fuori’ ritaglia un ‘dentro’ come piegamento;
tuttavia si autointrude per evitare ogni esclusione[246].
Il soggetto è, in definitiva, inquieto, diviso, frantumato; il suo movimento è
la sua nuova fragilità, la sua «eccedenza rispetto a ogni possibile
individuazione»[247].
Ecco lo slittamento positivistico verso
ciò che è possibile numerare, enunciare. Scambi microscopici che effettivamente
si svolgono sullo stesso piano delle più avanzate tecnologie informatiche: ed
il molto piccolo è suscettibile di essere facilmente scambiato, confuso,
sovrapposto. Le stesse specie di sapere vengono definite coestensive perché il
loro intreccio sfugge, in fondo, ad una analitica che non si perda nella
ricerca di ciò che è impossibile individuare.
Avrebbe ancora senso parlare di diritti
umani irrinunciabili, o ritagliare uno spazio di libertà non solo residuale,
nell’incombenza della forza come necessità? Questa forza si è detta vettoriale,
multiforme, infrastratica ed immanente al piano delle relazioni interpersonali,
quando non addirittura identica a quest’ultime. L’intero sistema foucaltiano
potrebbe definirsi proteiforme, perché
il potere assume mille sembianze diverse, ineffabili e tuttavia efficaci, in
grado di sortire effetti giuridicamente rilevanti. Per questa ragione il potere
«non si possiede, ma si esercita», e la rete che presuppone è tale da essere un
campo di trasmissioni incrociate piuttosto che un piano inerte. Anzi, vi si
intersecano mille piani, e le forme tradizionali della forma-stato, della
violenza, della repressione, dell’alternanza dominanti-dominati, vi compaiono
come maschere occasionali.
Tra le urgenze più pressanti, quella di
favorire una ‘uscita dal sistema’ che possa ritagliare nuovi spazi al soggetto,
non spazi ad un nuovo soggetto, ad un
soggetto plurale.
Un nodo centrale è rappresentato dall’
effusività del potere, già presente al livello delle semplici relazioni
interpersonali. Per Foucault, difatti, ciascuno trasmette un certo potere, del
quale è titolare.
Ma la titolarità di un potere pare a noi
comportare soltanto l’attitudine a trasmetterlo,
anche alla presenza di un soggetto in grado di esprimere soltanto la mera
intenzionalità.
Esistono relazioni che nulla hanno a che
vedere con lo scambio di vettori di forza? e, soprattutto, queste relazioni
possono prescindere dalla possibilità del soggetto di essere
consapevole, o di controllare ed indirizzare la
«titolarità» di un certo potere? L’attitudine a trasmettere quest’ultimo
può effettivamente concretizzarsi in una omissione, anche in assenza di una
precisa volontà?
Questa l’alternativa: o la effusività, la
capacità mimetica e camaleontica è tale da trascinare con sè anche doni e
sacrifici, o si stabilisce una differenza, una gerarchia, una rigidità
‘arboricola’[248],
non ‘rizomatica’, tra la relazione e la relazione di potere. Questa distinzione
sembra di natura logica, e non intende anticipare alcuna conclusione di tipo
diverso. Se si qualifica il potere come linfatico, cellulare, particellare; se
si afferma che investe ogni manifestazione socialmente e giuridicamente
rilevante, allora si sarà soltanto riprodotto il sistema immanente come
trascendente, e di una trascendenza soltanto estetizzante[249].
Se
il potere si maschera, esistono probabilmente dei volti, dietro altre maschere,
che talvolta dimenticano di farsene schermo; e maschere che come vetro
trasparente appaiono inaccessibili allo scambio tra vettori, perché
appartenenti a dimensioni diverse. Stranamente, più l’analitica del potere si
complica, più sembra nascondersi la possibilità di «uscite dal sistema» che le
consentano di autoriferirsi e poi di eteroriferirsi. Un sistema realmente
aperto dovrebbe più appropriatamente assumere la forma di una spirale, con un
punto di fuga individuato da un vettore costantemente crescente.
Qualcosa di simile è in Hors Sujet [250] di Levinas, il problema è quello di individuare il luogo dei diritti
fondamentali dell’uomo, di arrivare ad un «diritto originario» nel quale siano
intesi i diritti a priori , quelli
cioè «indipendenti da qualsiasi forza (...)», anteriori a qualsiasi concessione, giurisprudenza
o tradizione. La spirale in fuga si dipana dal rigido e spietato determinismo
naturale e sociale per avvicinare l’unicità di ogni individuo, ciò che lo fa
appartenere al genere senza tuttavia negare l’eccedenza della sua singolarità:
l’individuo non è identico alla sottrazione degli altri membri dal gruppo. Il punto di partenza di Levinas è quasi
assiomatico: gli preme dimostrare l’evidenza dell’esistenza di diritti
naturali. Ad essi è dovuta la concreta unicità
di ogni essere umano, prescindendo
dalla sua appartenenza o non appartenenza ad un gruppo sociale, al di là di costruzioni logiche,
storiche, esistenziali.
E’ questa la nostra spirale: la possibilità per l’individuo di essere altrove. Anche
Levinas non smette di sottolineare che l’unicità di ogni uomo consiste nella
sua alterità, «unicità al di là dell’individualità di individui molteplici nel
loro genere»; l’alterità come sottrazione all’ordine stabilito dalla natura o
dalla società. Ma alterità anche dal genere, e che, paradossalmente, rimanda
al genere: l’apertura sta nella differenza come «non-indifferenza».
L’altro non sta in rapporto con l’io attraverso una semplice norma di reciproca
delimitazione (perché talora diritti inviolabili cedono alla pressione di una buona volontà concepita nella sua interezza,
l’universalità della kantiana massima dell’azione), ma attraverso un rapporto
che è di «prossimità». L’altro, in definitiva, sta di fronte all’io.
Questa fenomenologia dei diritti umani è,
probabilmente, esemplare per alludere all’uscita da sé ed eludere,
contemporaneamente, la semplice autoreferenzialità del soggetto[251];
e tuttavia la semplice relazione tra individui è ancora qualcosa di più
generale, ed antecedente al rapporto di prossimità, per il quale l’uno è di
fronte all’altro, l’uno riconosce all’altro una generica qualità di vicinanza ,
di titolarità di diritti.
Relazione è già percezione[252] della presenza altrui attraverso qualità comuni. L’io può riconoscere l’altro essente soltanto
nella dimensione dell’essenza, e non in quella dell’essere; può riconoscerlo
soltanto se perviene a questo riconoscimento del quale-in-comune, qualità che
non sono identiche alla somma delle
quantità di ciascuno[253].
La
stessa logica, in un linguaggio che proceda per giustapposizioni casuali, viene
a cadere, perché il senso impazzisce e lascia dietro di sé soltanto una
metodologia giocosa. Se il senso rimbalza di continuo, e non si riconduce
all’altro, non può identificare la qualità di quest’altro, ma soltanto la
successione numerica di altri indifferenziati.
Questo pare essere l’errore di Jean-Luc
Nancy, il quale pure si è dedicato alla nozione di comunità si è dedicato, con
esiti incerti. Per ‘comunità’ egli non intende nulla di organicistico,
intimistico, infrapolitico. Ne La
comunità inoperosa[254] Nancy prende le distanze sia dall’interpretazione
cristiano-personalistica che da quella legata alla Volksgemeinschaft nazista,
indicando invece un percorso che
procede dall’assunto di una
nozione ben difficilmente traducibile o identificabile se non in modo astratto:
quella di comunità come «essere-in-comune». Qui la particella «in»
non significa «essere insieme», né «essere con», ma allude invece alla semplice
veicolarità, all’ ‘essere’ inteso come vettore in movimento. Quest’ultimo,
nell’uscire da sé, nel raggiungere il limite che gli è possibile, tocca
l’esteriorità irriducibile di ciò che pure è ancora interno.
Il sistema di definizioni di Nancy è
basato sulla esclusione reciproca di
concetti tipici della filosofia (esistenza, individuo, proprietà, comunità). Il
movimento avviene attraverso l’eliminazione dell’ intermediazione dialettica,
dal momento che l’opposizione dentro-fuori e soggetto-oggetto, come Adorno
aveva segnalato nelle sue lezioni[255],
raggiunge l’aporeticità del troppo esteso, la tautologia di un soggetto talmente profuso in sé da rischiare la
completa astrazione da tutto quel che potrebbe invece conoscere[256].
Adorno, infatti, aveva già riconosciuto come nesso essenziale la tesi «che la
profondità del soggetto si costituisce solo in quanto esso si aliena a sé
(...), e cioè esce da sé ed entra nell’altro»[257].
Tale profondità, raggiunta in fin dei conti sempre dal soggetto, avverrebbe a
sue spese, perché «più lo sprofondamento del soggetto in se stesso è completo,
tanto più, per essere veramente tale, deve escludere ciò che giunge al soggetto
dall’esterno», e diventare sempre più «refrattario nei confronti dei contenuti
che devono essere considerati come estranei al soggetto»[258].
La tautologia cui fa riferimento Adorno
consiste, propriamente, nel movimento del soggetto. Quando quest’ultimo, per
conoscere, esce da sé stesso e procede di profusione in profusione, migliora al limite massimo la sua conoscenza, ne raggiunge il limite esterno, la soglia inaccessibile,
diventando tanto astratto (il termine postmoderno è ‘smaterializzato’) da
perdere ogni contatto con l’oggetto da conoscere.
E proprio nello scontro/incontro con
l’oggetto si giocherà la partita fondamentale del nuovo soggetto.
Nancy procede senza le zavorre adorniane
sul problema dei luoghi e tempi del valore. Per Nancy, ciò che è singolare è
già in comune, e ciò che è comune va inteso singolarmente. L’unico «senso»
filosofico di questa identità consisterebbe nella semplice reciprocità dei due
concetti. La comunità, insomma, finirebbe con l’essere l’ «esposizione» di ciò
che rivela, che dice, «della mia nascita, della mia morte, di tutto ciò che
esiste fuori di me»[259].
E qui risiede, probabilmente, il momento foucaultiano del pensiero di Nancy: la
collettività è l’esposizione delle singolarità le une alle altre: «collettività
intere, gruppi, poteri, discorsi, si espongono qui e ‘in’ ciascun individuo
così come tra loro»[260].
La «proprietà», ogni singolare proprietà
anche come espansione del proprio, è
tale soltanto nel suo estremo abbandono, nella sua consegna a ciò che è esterno[261].
E la stessa filosofia è ciò che è in
gioco nell’ «essere in comune».
E’
importante dedurre il motivo per il quale non debba (o sia il caso di
attenuarne la pratica individuale) esserci proprietà privata come ‘estensione
del proprio’. Quando il soggetto rompe il confine del proprio oltrepassa la
frontiera due volte. La prima per raggiungere l’altro; la seconda per tornare a
sé ad un livello di maggiore profondità o astrazione. Il movimento, ben conosciuto
dagli idealisti, aggiunge strati di ‘arricchimento’ comunitario ad ogni
passaggio, e in fin dei conti rende più astratto o ‘smaterializzato’, se si
vuole, il soggetto. Detto con semplicità, sembra ‘togliere’ qualcosa
all’individuo per contribuire alla formazione di un soggetto poroso, aperto,
plurimo. Ma nel complesso nulla lascia pensare alla possibilità di una
astrazione totale, e tale da impedire al soggetto di riconoscere l’altro (cosa
o persona). Questo movimento sarebbe tautologico.
Tornando a Nancy, il suo percorso lo
porta a confrontarsi direttamente con Heidegger, precisamente con le tematiche
relative al Mit-da-sein:: non esiste
un Esser-ci che abbia un senso come concetto o cosa, perché l’esistenza non è
né una cosa né un concetto, ma è «la semplice posizione della cosa»[262].
Vi è doppia fungibilità tra essenza ed
esistenza: «l’essenza dell’essenza è l’esistenza», vale a dire che l’essenza
non è altro che una funzione di movimento, un posizionarsi, un
«esser-gettato», un vettore che chiarisce
anche il sé come un caso obliquo, possibile soltanto grazie ad un «altrui».
Ed ecco il soggetto, plurale in un senso
ulteriore rispetto a quello di Deleuze: qui conta più la sua pura
«transitività». E Nancy prende le distanze anche da Levinas, per il quale il sé
consisterebbe nell’essere l’ostaggio d’altri; conterebbe invece la sola
«esposizione»; l’altrui ridotto a una sorta di categoria pura della
declinazione: «tutta l’ontologia si riduce a quest’essere-a-sé-ad-altrui»[263].
Ma la parola di Nancy risulta troppo
compiaciuta; infiniti rimandi interni, infraconcettuali, infrastrutturali. La
riflessione avviene a ridosso dell’estremo margine linguistico; e dal momento
che un lungo lavorio è già stato dato sui motivi fondamentali della
speculazione, l’interesse sembra spostarsi sulle particelle intermedie, sui
luoghi infinitesimali delle pratiche discorsive. In questo modo si può spiegare
l’affannosa ricerca di uno ‘stile’ che consenta al pensiero di muoversi in modo
nuovo all’interno di confini
terminologici necessariamente allargati con espedienti tecnici. Uso di corsivi,
stringhe logiche individuate da corsivi, alternanza di parole virgolettate o
non virgolettate, con maiuscola o senza, e via di seguito in un gioco
combinatorio studiato in modo da favorire l’apparenza dell’espansione del
pensiero, ma sostanzialmente legato, poi, a varianti concettuali che si muovono
comunque all’interno di forme già
presentate. Ciò sembrerebbe indicare che in definitiva l’intuizione che è alla
base del lavoro filosofico sia solo di natura linguistica: individuato un nesso
particolare, come ad esempio la stringa <<essere-in-comune>>, si
procede allo sviluppo di questa invenzione, ad uno sviluppo strutturale, e
fortemente ancorato all’azione di una logica tradizionale, fondata sull’analisi
delle possibili (delle inevitabili) variazioni comportate dall’avvento della
nuova stringa. In questo caso, l’uso di un trattino comporta una serie
lunghissima, interminabile, di varianti, e si può ben intuire come l’unico
interesse rappresentato da un procedimento di questo tipo consista
nell’ammirazione per l’invenzione della stringa di partenza, e nella
costatazione del conseguente uso virtuosistico della logica nei suoi successivi
sviluppi.
Un linguaggio stratificato - non certo
nel senso archeologico e foucaltiano del termine - è un beneficio da tenere in
gran considerazione, ma del quale fruire in un modo che corrisponda alla
effettiva complessità degli insiemi e dei nuclei di pensiero che stanno
svolgendosi.
La parola non deve anteporsi al
contenuto, ma scaturire dalla necessità e dalla sequenza piramidale, talvolta
gerarchica, delle intuizioni che si presentano. Altrimenti il gioco diventa
inutile, e il senso non si concede nemmeno lo svolgersi del possibile del
concetto.
Ci si può tuttavia interrogare sulla
legittimità di alcune ipotesi linguistiche. Un esempio: nel protendere al
limite sia l’esteriorità del singolare, dell’individuale, del particolare, e
contemporaneamente l’interiorità del comunitario il pensiero incontrerebbe un assioma
che può «essere enunciato in questi termini: il singolare è in comune, il comune è singolarmente
e il senso ha luogo secondo questa
reciprocità»[264].
Sulle prime due sequenze della stringa
sorge la sola obiezione sul concetto di «limite», secondo noi strettamente
connesso con le possibilità reali di uno «sprofondamento» del soggetto. Ma come
spiegare la terza parte? Come può il
senso, un senso qualsiasi, risiedere all’interno di una linea di congiunzione?
Ciò può avvenire soltanto se il limite viene sfondato, se cioè il senso non si
ferma sulla soglia, ma
Il ‘senso’, cioè, consente un ‘oltre’. Questo oltre, se è tale, non può che essere al
di là della linea, oltre il confine e il limite. Il senso non può essere il limite.
Nancy definisce il limite come abbandono,
come un nulla che perciò non ha un dentro e non ha un fuori. Ma un limite
inteso come linea di demarcazione non è configurabile nella realtà dei fatti,
proprio perché conosciamo e comunichiamo. Non saremmo capaci di sorprenderci, o
di provare curiosità, se questo limite fosse un nulla senza dentro. C’è
sorpresa e quindi anche godimento estetico, perché il limite viene costituito
dal soggetto come soglia che stabilisce il dentro e il fuori. ‘Rompere’ questo
confine, accorgersi all’improvviso delle ‘aperture’ possibili: è questo che
rende palese istantaneamente che un limite vero e proprio non esiste. E’ sul nesso della percezione individuale,
sui confini della proprietà, che si gioca la possibilità del senso.
Non
si può reperire il senso spostandosi di gradino in gradino su una immaginaria
piramide (gerarchia), o procedendo di piastrella in piastrella lungo piazze
quadrettate (stringa lineare). Esso non può risiedere nella semplice
successione numerica ordinata , o per insiemi di cui scorgiamo in modo evidente
il diverso contenuto numerico.
Se
‘metafisico’ è già ciò che rimanda ad altro (finanche la sequenza uno-due) è
pur vero che la contiguità non perde di vista il limite e non riesce a
raggiungere la qualità, e cioè il rinvio ad un altro illimitato e illuminante.
Il brivido, il piacere estetico, senso e qualità, sono invece in questo
allontanamento non numerico e non razionale[265].
La
capacità di rinunciare al confine, di proiettare lo sguardo sull’altro, di
infrangere la ritualità del proprio e la primitiva abitudine di marcarlo
attraverso l’apposizione di nome e cognome: è qui che il senso gioca la sua
ultima vera possibilità. Che è anche la prima di un modo/mondo nuovo, che sta
per attestarsi. Cancellare il pregiudizio d’autore non è un semplice gioco
estetico; lanciare i propri file nella rete ipermediale non vuol dire
abbandonarli all’ignoto; concepire opere collettive, uscendo dal ruolo di
compositore o smettere di eseguire opere d’altri uscendo da quello di esecutore
non è un capriccio di fine millennio. Tutto ciò è la risposta estetica,
pragmatica, di chi ha esaurito tutte le proprie insofferenze per l’asfissia del
giuridico e del proprio. Studiare gli oggetti d’arte come merci non vuol dire
essere liberisti, ma semplicemente cancellare questa parola dalle opzioni
possibili, perché in realtà è il proprio in quanto recinto che si sta mettendo
in gioco. Dare rilievo all’atto volontario, dimostrare che esistono spazi
residui di libertà, dà alla rinuncia al proprio la gratuità e bilateralità di
un dono gratuito anonimo. La consapevolezza della scelta di ‘rinunciare a’ non
rende il comportamento esclusivo, a senso unico.
Se
il senso è nell’altro, il progresso sarà l’altro nel futuro (ripetizione del
dono, attese mai più vuote di contenuti); la storia sarà l’altro nel passato e
nel presente (la cronaca è già storia, anche nei suoi rivoli di
contraffazione).
Con Comparizione
[266], seguito di Comunità inoperosa, Nancy approfondisce il problema della
costituzione di senso, che nella storia occidentale ha riguardato non tanto il
significato dell’esistenza del singolo, del «solo»[267],
quanto del senso nel momento in cui esso viene condiviso. Da ciò il titolo:
ciascuno di noi compare dinanzi ad una condizione comune che «si» espone
denudata, e che «ci» espone nell’ambito di una ineludibile presenza. Siamo
sempre costretti all’interno di un
denominatore comune e, contemporaneamente, ma non senza conflittualità,
presenti rispetto ad una condizione che ci vede essere in comune assolutamente.
Il senso, come è lecito aspettarsi, «non
ha luogo che per più d’uno. Anche e soprattutto laddove l’unico, il ‘singolare’
esige il ‘suo’ senso»[268].
In questo punto, specialmente, si rivela la consapevolezza del «numero», che è
«venuto ad imporsi in ogni pensiero del ‘comune’»[269],
come elemento costitutivo della nostra stessa civiltà occidentale[270],
e fino a comporre, nelle sue spaziature, nel suo aprirsi alla «arealità» (un
puro spazio d’area, superficie), la possibilità della comparizione. Qui
soltanto risiederebbe il senso.
Sul senso si evidenzia la difficoltà
oggettiva di Nancy, tesa ad evitare cadute sul tema della ‘qualità’. Difatti,
l’approfondimento sul ‘senso’, che è ciò che più interessa, torna solo come
occasione: «quel che si presenta (...) è precisamente la forma (...) della
‘questione’ che è più di una questione: come
la comunità si appropri del senso che è» [271] . E il senso, per Nancy, ci sopravanza
sempre perché non vi è esistenza (fin dalla nascita) che non sia «in-comune», e pertanto le nostre modalità di
appropriazione di senso sono insufficienti a raggiungerlo.
Tutto ciò appare chiaro in una nota: «noi
non cessiamo d’avere a che fare con un’assenza di fondamento e di compimento
(di sostanza, di soggetto, di senso, di proprietà, di principio, d’unità o di
unicità, ecc.). E’ su questa soglia che tutti i nostri discorsi vengono meno,
ma è anche ciò che dà la possibilità più propria al pensiero, perfino in questa
difficoltà che per il momento ci interrompe la parola»[272].
E’ una ammissione di grande chiarezza e onestà. Un senso qualsiasi apparirebbe
poi nella politica, luogo privilegiato perché
più esposto e nudo tra gli esistenti. Qui la stessa esistenza accede a
questo «senso ‘qualunque’, attraverso un «accesso impraticabile che tuttavia
accede»[273].
Ulteriori, numerose, obiezioni, pertanto,
sembrano così articolabili: 1- può il senso risiedere soltanto nella
transitorietà (veicolarità) della particella ‘e’, ‘in’, ‘tra’? 2- E’ in gioco
il pensiero della dualità, che ci pare ancora concepita, alla fin fine, come
opposizione, e non come ‘onda’, o ‘onda-principio’. La prima conseguenza del
problema della dualità è il rapporto tra
sé ed altro, che viene letto ancora sulla matrice hegeliana-marxiana[274].
3- La rinuncia al senso, per il quale non si trovano più parole, viene posta in
relazione col problema della profondità del soggetto; è proprio nell’estensione
del soggetto che può invece ritrovarsi il seme della relazione e della qualità.
4- Può un «senso qualunque»
legittimare la politica e avere una forza giuridico-sociale? 5- Sono dimostrabili le
affermazioni-pilastro di questa ontologia, e cioè che «l’inesponibile (o
l’impresentabile) è l’inesistente»[275]
e che «la non esistenza non ci siamo più a condividerla, essa non va condivisa»[276]?
6- Come rispondere ai quesiti lasciati consapevolmente irrisolti? e cioè, come
dare diritto all’assenza di un fondamento dell’ essere-in-comune? come
«sostenere il tracciato dell’esteriorità», dove escluso è l’altro, l’ebreo,
l’arabo, il nero, il giallo?
A questi problemi Nancy non sembra fin
qui aver dato soluzione.
Il
contraltare mediato del soggetto alla fine attecchisce nel campo delle nuove
soggettività. Le ‘cose’ agiscono come soggetti. I soggetti si esteriorizzano;
questa emergenza incontra l’altro indifferenziato - cosa o persona -, più o
meno mercificabile. La sua qualificazione si annida nel percorso di senso.
L’uscita da sé si perfeziona solo quando il soggetto ha riconosciuto l’altro.
Se alla merce si addice un carattere di
feticcio, una sorta di misterioso simbolismo che semplicemente non fa che
rappresentare la possibilità di uscita da sé -immissione nel sociale-
attraverso il momento dello scambio, anche a quest’ultimo si è riferito un
forte portato simbolico.
E’ qui che il soggetto gioca la sua
partita più radicale confrontandosi con l’oggetto. Jean Baudrillard,
occupandosi dell’economia politica come modello di simulazione, ha definito la
legge strutturale del valore come un codice che rimanda alla doppia allusività
reale/immaginario tipica della società postmoderna. In particolare, quando il
capitale enuncia palesemente la legge dell’equivalenza come argomento
pubblicitario non farebbe altro che utilizzare una doppia maschera; una vera e
propria manifestazione come occultamento. La (duplice) simulazione
consisterebbe proprio in questo: oggi, «una merce deve funzionare come valore
di scambio per meglio nascondere che circola come segno, e riproduce il codice»[277].
E il simulacro s’è spostato, perché «il valore di scambio ha per noi, nel gioco
strutturale del codice, il medesimo ruolo che aveva il valore d’uso nella legge
mercantile del valore; simulacro referenziale»[278].
L’eccezionale emergenza simbolica del
sistema è tale da spingere Baudrillard a postulare l’impossibilità di
sconfiggerlo sul piano della realtà: ad ogni sfida non si potrà non rispondere
con qualcosa di altrettanto determinato, secondo l’ottica del negozio, dello
scambio. E’ facile intuire che il punto d’arrivo di questo rinvio ad oltranza
non può che essere rappresentato dal collasso, dalla morte; e che il soggetto diviene a sua volta oggetto di uno
scambio improponibile, la cui posta in gioco è
Ancora forme ibride di soggettività sono
nell’incontro virtuale consentito dalle tecniche ipermediali di comunicazione.
E’ sempre merce la cosa che, pur se prodotta dal lavoro di un soggetto, viene
immessa in una rete di comunicazione in modo da mascherarne la provenienza,
impedirne l’attribuzione a un autore? Il soggetto-bots[280],
entità ‘virtuale’ (più che reale, nel sortire effetti), trasformandosi in
impalpabili file che viaggiano in
reti telematiche, è più uomo o software che simula personalità, individualità?
Molti gli effetti, già segnalati su
queste pagine[281]:
l’attenuazione del vincolo di proprietà; la scomparsa progressiva del
copyright; il consolidamento della proprietà collettiva. Nuovi oggetti creano
nuove forme di soggettività; nuovi soggetti, trasformati in bit, creano nuovi
oggetti.
Alla configurazione dello scenario tipico
della comunicazione globale non sono mancate critiche, ad esempio da parte di
Paul Virilio. Egli ha rilevato, tra i pericoli della virtualità: l’avvento di
una stereorealtà (lo sdoppiamento della realtà sensibile e il conseguente
smarrimento dei riferimenti dell’essere); il turbamento e disorientamento di
tutti quelli che, smarrita la percezione unitaria del reale, perdono anche le
nozioni fondamentali di ‘democrazia’ e ‘società’; la delocalizzazione
dell’alterità, del rapporto con l’altro; l’avvento di una ciberneutica della
politica che si svolga all’insegna della conquista di un tempo unico mondiale e
di un mondo unipolare, gestito unicamente dalle multinazionali[282].
Estremamente rilevanti le obiezioni di Armand Mattelart, che individua i limiti
della global marketplace, sorta di
impero globale in cui i capitali, i prodotti e servizi, il management delle
tecniche di fabbricazione appaiono certamente globali, ma nel senso di un
modello «imperiale/tecnologico» imposto dall’egemonia culturale ed economica
degli Stati Uniti. Anche qui, la perdita della nozione di spazio avrebbe un
contraltare nella logica dell’azienda-rete che conia addirittura il neologismo glocalize per indicare la contrazione
tra ‘globale’ e ‘locale’ apportata dall’avvento delle autostrade informatiche[283].
Si consolidano i nuovi ‘comandamenti’
dettati dal processo di mondializzazione dei mercati, conseguenza inevitabile dell’avvento delle
nuove tecnologie: «il secondo comandamento deriva dalle ‘rivoluzioni scientifiche
e tecnologiche’ di questi ultimi trent’anni nel campo dell’energia, dei
materiali, delle biotecnologie e soprattutto dell’informazione e della
comunicazione. (...) L’innovazione tecnologica permanente, al servizio
soprattutto della competitività delle imprese sui mercati globali solvibili già
saturi, o con tassi di crescita bassissimi, si traduce nel predominio
dell’innovazione dei procedimenti anziché dei prodotti; e ciò comporta
ulteriori perdite di posti di lavoro. La salvezza promessa è dunque riservata a
pochi»[284].
L’elenco fatto da Deleuze e Guattari (Mille piani) a proposito di capitalismo
e schizofrenia viene adeguato da Francis Pisani al Www (World Wide Web) che consente di navigare in Internet: «connessione
(qualunque punto può essere connesso con qualunque altro); molteplicità
(qualunque nodo può avere parecchie dimensioni); eterogeneità (modi, onde e
flussi sono infinitamente diversi); metamorfosi (la rete è in costante
ri-elaborazione); mobilità dei centri (sono parecchi e si spostano); rottura
(se la rete viene interrotta o il traffico bloccato in qualunque punto, i
flussi trovano nuovi percorsi); apertura (il sistema non ha limiti, cresce e si
modifica)...»[285].
Significativamente, si cita Foucault a proposito delle mutazioni dell’ordine e
del disordine applicate indifferenziatamente agli antichi o ai (post)moderni:
«oggi possiamo dire che il disordine che serve da base al nostro pensiero e al
nostro agire non ha lo stesso modo di essere dell’ordine dei moderni»[286].
Le informazioni non conoscono più la
mera, semplice veicolarità che le conduce da un mittente a più destinatari: su
Internet tendono ad essere circolari, a viaggiare tra una pluralità di utenti.
E’ appena il caso di ricordare, però, che tali informazioni si sottraggono
contemporaneamente al controllo del potere ma anche alla verifica di
attendibilità da parte di terzi (compito svolto nei media dalla figura
professionale del giornalista). Possono pertanto essere facilmente
contraffatte, e minare la credibilità del sistema.
Alla
fine di tutto il percorso, le tradizionali categorie (arcaiche e fondanti) del
pensiero socioeconomico e giuridico appaiono profondamente mutate; lo scenario
accoglie la mutazione dei soggetti politici e dei soggetti estetici (operatori
e/o fruitori).
Alcuni ‘imperativi generali’ sono stati
messi a fuoco: -sfuggire al potere; -potenziare la volontà; -rispondere allo
svuotamento del soggetto costituito con
l’attenuazione e progressiva scomparsa della figura dell’autore per
professione; -alla crisi di rappresentanza politica far seguire l’espressione
della volontà individuale (ciò è tecnicamente già possibile); -consolidare il
senso come direzione verso l’altro qualificato: ciò ha un notevole impatto
volontaristico perché esiste una deliberazione forte che talora conduce alla
rinunzia della costituzione quale soggetto operante; -assumere la rinunzia come
forma dell’incontro con l’altro; -essa è relazione di qualità perché non
rimbalza indiscriminatamente (numero, quantità) su soggetti indifferenziati.
E’ possibile ora ribadire anche le
specifiche estetiche.
Sfuggire
al potere: -vincere la
scommessa col potere producendo liberamente opere/dono anonime e gratuite;
-vincere la scommessa rinunciando allo scambio e lanciando semi d’opera in rete
(Internet o altre: è prassi già usata in letteratura, ma poco sfruttata dai
musicisti: le opere vengono completate/contaminate/modificate da una pluralità
di utenti).
Potenziare
la volontà: -uscire dal
ruolo: interpreti lasciano la forma vuota del concerto, del repertorio, del
virtuosismo come primato ed eccellenza agonistica. Compositori non lavorano
soltanto alla individuazione del
linguaggio ma alla messa in comune
dei linguaggi. Ciò creerà da un lato un movimento di rilancio della World music
globale, e dall’altro scatenerà la conservazione delle istanze locali (World
etnica). Anche immettendo in rete lavori ‘firmati’, cioè individuati, i
compositori potranno aggirare la globalizzazione dei mercati.
Uscita
da sé del soggetto,
attraverso le forme dell’ opera collettiva: evoluzione del laboratorio tipico
degli anni Settanta, nuova opera da lavoro comune; opere intermediali (CD-rom)
richiedono staff di lavoro estremamente compositi; opere lanciate in Internet
senza paternità.
Crisi
di rappresentanza: alla
crisi di rappresentanza politica fa già eco la crisi dei ruoli tipici delle
forme d’arte, con la nascita delle figure ibride del compositore-esecutore
(molti compositori scendono in campo eseguendo o dirigendo direttamente le loro
opere) e dell’esecutore/compositore (molti esecutori non sentendosi più
gratificati dall’assenza di un linguaggio strumentale adeguato e dal
trasferimento di creatività sull’autore, diventano essi stessi produttivi).
Incontro
con l’altro: -estetiche
del plagio, come forma esasperata, ma naturale evoluzione, delle prassi di
‘citazione’ musicale e contaminazione; -rilevanza di questo fenomeno, poiché
esso offre una via d’uscita all’opera/merce attraverso l’opera/dono. Tale dono
mantiene le caratteristiche dell’anonimato e della gratuità.
I
pericoli sono molteplici.
L’inevitabile ‘confusione di confine’ tra soggetto ed oggetto si espone,
naturalmente, al pericolo della mistificazione, alla possibilità di uno
smarrimento del senso. Una volta acquisite le nuove e molteplici forme di
soggetti mutanti (cyborg) ed oggetti virtuali, la falsità della stessa nozione di ‘virtuale’ potrà offrirsi alla
riflessione critica nella forma di una scommessa che impegna la complessità dei
valori e referenti conosciuti (della merce, pretesto dello scambio col potere,
e dei soggetti, ostaggi di quello stesso veicolo di transitività tra sé ed
altro).
E’ proprio il caso di confrontarsi senza
indugi con l’emergenza delle nuove forme di soggettività, senza sottovalutarle
o sorriderne, utilizzando anche gli
strumenti predisposti dalla tradizione critica e dalla scuola analitica
francese; questi ultimi sono indispensabili, ma non sufficienti:occorre, cioè, uno sforzo ulteriore che non può
essere solo individuale; bisognerà raccogliere energia da un gruppo eterogeneo
di intelligenze. La limitata diffusione mondiale delle nuove tecnologie ci
concede ancora il tempo necessario allo studio delle sconvolgenti dinamiche del
nuovo millennio[287].
Se non saremo in grado di attivarci, di sopportare il confronto col potere
utilizzando gli strumenti che abbiamo individuato, ci esporremo al rischio che
anche nella società informatizzata tutte le opzioni vengano previste. Lo
scenario non vuole essere apocalittico, ma il pericolo è che tutte queste
dinamiche di libertà, predisposte per ‘uscire dal sistema’, possano a loro
volta trasformarsi in formidabili pratiche di controllo.
Le
tecnologie di senso chiamano a un riconoscimento e a una rinunzia: la qualità
dell’altro; il pregiudizio d’autore, il limite del proprio.
IL SENSO DEL DISCORSO
In numerose parti del mondo si sta cercando di organizzare (comporre, confondere) la musica lasciando prevalere sulle questioni formali il senso del discorso. La mera grammatica utilizzata ha definitivamente assimilato - metabolizzato - molte tecniche approntate nella fase del cosiddetto ‘sperimentalismo’.
Si tratta di trovare un nome per questa musica.
Può aiutarci una stringa:
frontiera-confine-limite-bordo-margine
La frontiera è ‘star di fronte’; ci si sfida a entrare.
Le musiche di frontiera sono quelle che hanno fatto un passo in più.
Stanno lì, ci guardano. Ci invitano a intervenire.
Il confine è l’oltre proibito.
Essere al confine vuol dire che un passo ulteriore non sarebbe possibile.
‘Stare al confino’ significa essere già stranieri. Tutto ciò va capovolto.
Il limite vuole essere superato.
Ma ‘stabilire un primato’ è un modo improprio di dire, perché il limite
è flessibile, plurale, mantiene parecchie pagine di riserva.
Il limite, quello di velocità, è solo convenzionale, è ancorato ad un territorio.
“Essere fuori-limite” è aspettativa di tutti gli imbrigliati.
Bordo del foglio (cosa c’è ‘oltre’...);
margine del discorso (ciò che conta è il silenzio);
fuori margine (hide tracks);
memoria tampone, rinvii concettuali, salti logici...
Il rinvio pone la questione dell’ alterità: l’altro che mi sta di fronte è messo lì a delimitare lo spazio che posso pretendere, oppure l’altro è quello col quale tento un rapporto di prossimità, quello che è ‘differente’, come scrive Levinas, grazie al fatto che non mi è ‘indifferente’? Se stabilisco con l’altro un rapporto di ‘proprietà’, e generalizzo questa assimilazione - bambino, donna, adulto subordinato, oggetto - raggiungo un livello di astrazione per il quale mi sarà impedito alla fine di distinguere effettivamente l’altro. Se l’io viene pensato come un io occidentale, ponendogli di fronte un orientale oppure un meridionale (o un pensare meridiano), ciò avviene perché non si riesce a sfuggire al vero problema, vale a dire l’individuazione concreta della persona che mi è altra, specialmente se la considero prossima e la confronto con quella a me più vicina e simile.
Quando riconosco questa prossimità non potrò certo pormi il problema della reciprocità, del contraltare, del controdono (io do una cosa a te, tu dai...): questa esigenza vorrebbe la ‘proprietà privata’ come necessaria, conciliando con la persistenza del potere all’interno dello stratagemma atavico dello scambio. Ma Baudrillard aveva sottovalutato la possibilità di un dono unilaterale gratuito, che oggi è realizzabile attraverso le pratiche dell’abbattimento del copyright, l’insorgenza del plagio, il proliferare di attività di tipo esclusivamente volontaristico. Se ne può fare articolo di costume oppure se ne può indagare la ragione profonda, la stessa che porta la vera ricerca radicale ai nuovi linguaggi, ai suoni più o meno tecnologici, ai discorsi estetici capaci di rimandare oltre di sé, alle forme di libertà creativa concesse al fruitore.
[ ------> strutture------> ]
Rinvio interno al brano.
(secondo l’elementare forma della ripresa variata, è il grado più basso e meno efficace, dal momento che secoli di musica ‘colta’ ormai ci hanno abituati alla forma ABA e alle sue varianti: la stessa circolarità del brano, con la ripresa finale del tema o delle suggestioni iniziali - dell’incipit generalizzato - nel caso della musica contemporanea, è ancora una prassi visitata con frequenza dai compositori. Anzi, acquisita la piena legittimità del compact disc come oggetto estetico compiuto, si può segnalare la prassi di ripetere la track iniziale alla fine della compilation, per garantire una compiutezza di discorso all’intero lavoro - tale track può essere variata o ripetuta, ma generalmente si preferisce apportare varianti se viene collocata nel corpo del compact, e ripetuta, se chiude il cerchio, alla fine).
Rinvio a cliché di catalogo, cioè ad altri brani del medesimo compositore.
Rinvio/citazione.
Rinvio/suggestione (è una citazione ambientale, di atmosfere musicali altrui).
Rinvio costitutivo (l’opera ha la sua genesi, fondazione, formazione, sulla prassi della contaminazione, e cioè su un rinvio fortemente strutturato).
Rinvio mistico (è la più rara eventualità, propria di quei brani in grado di suggerire un’estasi da ascolto inspiegabile).
Rinvio...
[ Eteroriferimenti -smaterializzazione d’opere (cose) e soggetti- ]
Eteroriferimento dell’opera: essa lancia il fruitore lontano da sé.
Eteroriferimento dell’opera: capacità di rinvio ad altro da sé, a qualcosa di esterno, prossimo. L’opera extracolta può guardare verso l’oriente, l’est, il meridiano.
Può diventare klezmer, gitana,
meticcia; consegnare un linguaggio capace di parlare ad altre cultura. Soltanto
nel suo farsi altro l’opera può riuscire accattivante e sopportare l’estensione
temporale che ancora
essere artisti soltanto in misura del proprio essere altro, rifiutando giudizi unilaterali, privi di direzione, di senso (quindi riduttivi), che non si confrontino con la pluralità delle produzioni, dei silenzi, delle percorrenze tipiche della complessità di un musicista contemporaneo.
‘Diritto universale all’oltraggio’ sarebbe quello della velocità a danno della sacertà. Un pensiero lento, meridiano, va realmente salvaguardato? (o piuttosto questo pensiero lento sopravviverà comunque, contrappeso alla velocità ipermediale, e a una spinta verso l’esterno corrisponderà una sacca di resistenza e di concentrazione interna?).
Il diritto alla differenza qualitativa può diventare pericolosa distinzione tra meridione e settentrione, tra meglio e peggio. Velocità non significa incapacità, necessariamente trasgressione. Salti logici sono concessi anche ai poeti e ai custodi dei Graal. Le equazioni, se capovolte, risultano discriminanti all’incontrario. E la pacifica compresenza non può che risultare infiltrata. Beneficamente, in modo da mescolare insieme, e non esser più capaci di distinguere che le unità.
Se si ha presente la possibilità del senso (che tutti insieme si sta andando da qualche parte), non ha rilevanza la conservazione della notizia, le ‘caratteristiche’ etniche, l’appartenenza a generi e specie. L’identità è trasfusa.
Gli attuali orientamenti, centrifughi e centripeti, andranno o verso la divisione e la decadenza, o verso la costituzione di un popolo del mondo, di un’arte del mondo, di una politica universale.
Le acque,
l’aria, le intercapedini.
Confini / rinvio / canti sradicati (1)
Dischi registrati rigorosamente sul posto. Con attente pretese filologiche.
Tendono a riprodurre la cultura del luogo. E appartenere alle biblioteche del futuro, ché altrimenti qualcosa andrebbe irrimediabilmente perduto. Alessandrinismo. Fa rima con sperimentalismo.
Confini / rinvio / canti sradicati (2)
Quelli dei popoli che da sempre risiedono altrove. Canti di migrazione. Canti che vengono dalla guerra. Canti che non sarebbero mai voluti andar via. Meritano rispetto.
Confini / rinvio / canti sradicati (3)
Gli autentici compositori ci mettono le mani, e allora cose morte diventano improvvisamente significanti. Cose ‘etniche’ acquistano un sapore particolare. Qualcosa di profumato, insomma.
«La modernità
è libera di guardare il pensiero meridiano mettendolo nelle rassicuranti
caselle che permettono di classificarlo come esotismo privilegiato, embrione di
integralismo o apologia della marginalità» (Cassano). Ma la modernità è lo
stato di fatto. Non ancora della maggioranza. La ‘marginalità’ è la vera
maggioranza. Essa deve far confluire il proprio essere meridiano nel tentativo
collettivo di crescita. Se ciò non accade, prevale la velocità per
C’è «aggressività tecnologica»...? C’è sicuramente. Ma c’è anche aggressività (fisica) integralista.
Stringa ulteriore:
dissipazione-dispersione-disgregazione-deriva
[ Strategie di smaterializzazione ]
Strategie di smaterializzazione (Icone:)
deriva
dispersione
dissipazione
estetica dell’abbandono
etica della sottrazione
confusione
Erosione (strategie di smaterializzazione)
Scorrimenti carsici
...........................ogni volta che si prova......... a formulare un pensiero.....
........................preferisco accensioni di senso
‘memorie del sottosuolo’ (la città piegata, la nostra città piagata)
artisti disciolti
le prassi c’invogliano a frantumarci
a casaccio sul bagnasciuga
il senso è un vettore
implica direzione
da/verso qlcsa
Ogni atomo comporta divisione e connessione
Rete
Rete neurale
Accensioni di senso
da Capo al Fine
--------->stringhe
trivellare superfici
strato su strato mille piani intricati e sovrapposti
<---- Senso (2)
il senso è un vettore qualsiasi?
se c’è direzione si va da/a, e questo può bastare
se c’è direzione c’è già qualcosa,
c’è già moltissimo
intanto, c’è movimento
qualcosa che va
c’è un luogo d’arrivo - e partenza
(perché talvolta ci fermiamo)
ma se mancassero sarebbe perfetto:
un dio motore davvero energico
ma cose vanno, cose si fermano
sussiste un senso residuo
Un vettore è il senso residuo, la noce della relazione
Se non ci fosse senso io e altro non saremmo in due
Non potrei pensare altro che un numero due ipotetico
‘Uscire da me’ dà una propulsione di senso
‘Uscire da me’ è già direzione
è già eversione, diversione
uscire dal sistema
Dissipazione (strategie... )
Intersezioni (Chambers)
Dissipazione dell’Occidente
L’apertura al mondo (world) -da Londra alla vicina New York- è l’ultimo respiro energetico (recupero?) dell’Occidente. Simile a uno spasmo (---->agonia).
E infine dissipazione: creativa, esistenziale, dei percorsi, del pregiudizio d’autore e d’esecutore (davvero figure arcaiche...).
La nuova complessità è un’estensione di senso. Oppure è la sua dissipazione a programma.
In questa forchetta di significato sta già il dramma della dispersione.
Dispersione (strategie... )
Intersezioni (Chambers)
Dispersione del soggetto.
Il soggetto (europeo) subisce lo spaesamento per la trasvalutazione del linguaggio.
È soggetto ad azioni di disturbo. Il soggetto verrebbe dopo la lingua (Heidegger).
Disgregazione (strategie... )
Disgregazione: i suoi semi sarebbero nell’anteriorità della storia e del linguaggio.
Ma è uno dei soggetti possibili.
Deriva (strategie... )
Deriva dei testi, abbandonati al trascinamento. Deriva delle pratiche.
Etica della sottrazione (strategie... )
Etica della sottrazione
spazi sempre più angusti
scelti volontariamente
per esiliare/isolare lo spirito
Etica della sottrazione
gesto etico, evidentemente
morale solo temporanea
che stabilisce forme
nelle quali poter sopravvivere
senza troppo dolore
Etica della sottrazione
un luogo soprattutto interiore
dal quale per emorragia
dell’esterno indifferenziato
possono sortirsi effetti
fin qui insperati.
prassi compositive
impediscono
di percorrere differenti altrove
che non siano sonori.
Sperimentalismo (superamento)
La nuova ‘sperimentazione’ cerca (e spesso trova) nuove forme di offerta musicale. Concerti gradevoli, musiche pensate per piacere, non rinunciano alla ricerca ma abdicano al distacco esibizionistico (snob) dello “sperimentalismo”.
La differenza tra sperimentalismo e sperimentazione è nell’interferenza.
Tra ruoli (compositore da un lato e interprete dall’altro) spettacoli (concerto-rituale/ concerto invenzione) supporti (compact disc come semplici raccoglitori o come oggetti d’arte con piena dignità ed autonomia).
Tale interferenza è figlia della modernità.
Ma supera la modernità permutando le forme e triturandole in un caleidoscopio di generi.
Più della forma, prevale il rinvio all’altro.
Dal quale dipende il riconoscimento della ‘stazione di partenza’.
E che costituisce il parlato della musica, il discorso di ‘senso’ che si va a costruire.
L’attenzione al senso del discorso, al linguaggio, al che cosa stiamo dicendo piuttosto che al come lo diciamo.
Border music: musiche di frontiera. Modelli
===> World e Global music. Utilizza stilemi appartenenti a diversi generi musicali o/e a diverse zone geografiche. Può usare clusters pianistici o tecniche del respiro circolare, per mescolarle a progressioni ‘soltanto’ modali (jazz). Può utilizzare voci del popolo dei Tuva ed un formicolante quartetto d’archi come live elettronics (---> Kronos Quartet).
Nuove figure (compositori?) hanno in comune la scelta individualistica (fuori dalle scuole) di porsi sul confine, evadendo programmaticamente o di fatto le tradizionali categorie di appartenenza di genere. Che la loro provenienza sia colta o guadagnata sul campo non conta qui assolutamente nulla, perché l’approdo popular, neomodale, folk, new age, extracolto, è anch’esso un transito.
Antiaccademia / Modelli (esempi... )
La musica di frontiera si lascia alle spalle molti presupposti ‘accademici’, infrange i ruoli (tra esecutore e compositore): (---> Balanescu Quartet e altri), dando spazio all’improvvisazione e pari dignità estetica alla produzione musicale di musicisti provenienti da settori non convenzionali (dal rock, ---> Frank Zappa; dal jazz ---> John Zorn).
Arduo indicare soltanto ‘alcuni’ modelli musicali.
Tra gli stranieri ---> Pärt, Preisner, Gòrecki, Bryars;
e ancora fra gli ‘ibridi’ --->Harold Budd, Brian Eno, il sassofonista Jan Garbarek
Tra gli italiani un precursore ---> Luciano Cilio
[ ------> strutture------> ]
(... esempi) / Ghiaccio
Circa
Strutture:
-sottrazione interlineare e verticale, condensazione/elisione motivica (--->strategie di smaterializzazione);
-citazione di atmosfere tradizionali, utilizzo di veri e propri segmenti di repertorio (---> estetica del plagio);
-sovrapposizioni armoniche e dinamiche, realizzate in studio attraverso tecniche di overdubbing di tracks, e dal vivo attraverso una sofisticata trascrizione e l’uso di una tecnica esecutiva in grado di simulare la presenza di apparecchi elettronici (amplificatori, distorsori, etc.);
-stratificazione di pedali e risonanze;
La musica non tenta di essere descrittiva, né impressionistica; posso chiamarla ‘musica per immagini’, ma non allude solo ad immagini pittoriche ma a quelle interiori
Intimismo, concentrazione (---> Estetica della sottrazione ---> concentrazione/sottrazione del suono ---> sul suono);
-fusione e confusione di stili, generi, atmosfere: melting-pot, e non semplice accostamento, ma il tentativo di realizzare il gioco del rimbalzo di senso (---> eteroriferimento) utile a comunicare la densità del sentito attraverso un lavoro sul linguaggio.
Tutte le stringhe (zapping concettuale) mentre ‘parlano di’,
contemporaneamente ‘sono’ un materiale oggettivo, linguistico (discorso <---> senso), di struttura che
attua il rinvio. Una partitura.
MUSICHE PER OGNI CONSUMO
Consumo di oggetti esposti, esposizione del
consumo, consumo dell’esposizione del consumo, consumo dei segni, segni del
consumo.
Henry Lefebvre, 1971
In fin dei conti, l’opera è un oggetto che ‘può’ essere commercializzato, venduto, consumato. La qualità di quest’opera musicale prescinde dal suo veicolo, inteso estensivamente come le caratteristiche e le precondizioni che ne consentono il consumo, e non ha nulla a che vedere con la effettività di ciò che la rende ‘cosa da vendere’.
Questa semplice premessa ha conseguenze di straordinarie importanza, poiché a causa dei teorici della seconda scuola di Vienna, e degli epigoni di Darmstadt, fino a poco tempo fa l’estetica non era riuscita a spiegare e ad assimilare la musica commerciale, e la sua validità, cioè la capacità dell’opera di mantenere una effettiva capacità di creare relazioni, rimandare ad altro, possedere un senso (inteso sempre come vettore di significato capace di rinviare a qualcosa di differente, il cosiddetto ‘eteroriferimento’ dell’opera).
Per essere più espliciti, la qualità e il veicolo hanno certamente una qualche relazione, ma la qualità prescinde tanto dal veicolo quanto dalla comunicazione e dall’influenza dell’industria culturale: solo così può esistere un’opera di valore anche nel caso delle più becere canzoni pop. Questo valore, in sé, può risiedere ad esempio nella funzione sociale o politica svolta, nella sua struttura, nel contributo di evoluzione delle forme musicali e dei linguaggi, e in generale nella capacità di senso del brano.
L’opera è anche rappresentazione di un’idea. Come tale viene tutelata, con alcuni eccessi (tipo società degli autori)[288]. Senza arrivare ad un’abolizione del copyright dovrebbe invece esistere la possibilità di un’opera collettiva., e di un’opera frutto del cosiddetto ‘dono unilaterale gratuito’. Queste forme caratteristiche sembrano essere quelle che potrebbero dare all’opera musicale il suo significato[289].
Anche se viene generalmente trascurato in un’epoca incapace di riferimenti storici men che prossimi (ciò avviene nelle università, nelle accademie, nei conservatori più retrivi, ed è tipica di luoghi istituzionali che hanno perso qualsiasi capacità di produrre cultura), dal punto di vista delle macrostrutture estetiche la linea che unisce la materialità dell’opera e la sua capacità di significato è stata rintracciata nella dissertazione dottorale di Marx, e nella critica della Ragion pratica di Kant, come dimostrato altrove[290]. L’ intuizione del problema, non la soluzione, è invece riconducibile sorprendentemente ad Otto Weininger. La qualità dell’opera ed il suo consumo di massa non possono prescindere da entrambe le stringhe:
-materia / potere / industria culturale /
commercializzazione / vendita / consumo
-idea / resistenza / memoria /
intenzionalità / utilizzazione consapevole.
I criteri per analizzare e per produrre appaiono plurimi; gli insiemi che girano attorno all’opera risultano estremamente complessi. Ad esempio, un fenomeno (o una corrente) potrà apparire anche interessante se studiato con finalità sociologiche, ma andrà subito stigmatizzato dal punto di vista delle strutture musicali in senso stretto. Alla sponda opposta, opere estremamente stratificate andranno ugualmente combattute, al contrario, per la loro incapacità di comunicare con il pubblico, e condannate per una ricerca fine a sé stessa (è il caso della produzione extracolta di moda fino a un decennio fa e di derivazione darmstadtiana: di recente tutti hanno velocemente cambiato pelle, adottando di fatto quanto teorizzato nel lontano 1984)[291].
L’opera può essere consumata senza per questo perdere qualità estetica. La questione, posta in relazione al problema dei consumi giovanili, potrebbe creare qualche malinteso. Invece anche qui ci si trova né più né meno che di fronte al problema che riguarda tutte le tipologie di consumo. Mi chiedo se esista un consumo ‘adulto’, o se si possa parlare propriamente di ‘consumi per soli adulti’… Un consumo ‘adulto’ infatti prescinde evidentemente dall’età del consumatore, e coincide con quel consumo che riesce a mantenersi il più possibile consapevole, ad indirizzarsi verso questo o quel prodotto musicale assecondando la tasca del fruitore, propensione e volontà di ascolto - orientamento, differenziazione tra prodotti ed esigenze del momento, tra motivi di studio o di svago, intrattenimento o ascolti ‘d’arredamento’. Questa consapevolezza nella capacità di scegliere non ha nulla a che vedere con l’età del consumatore perché la capacità d’individuazione, la selettività, e soprattutto la lucidità non sono certo variabili dell’età. Esse anzi vengono offuscate per consuetudini, lotte di sopravvivenza e resistenza, tutte cose che caratterizzano l’attuale fase della storia occidentale, anche per le inevitabili e parziali ‘compromissioni’ che oggi qualsiasi agire comporta.
Allora bisogna individuare le tipologie generali di consumo, valutare quanto queste siano applicabili all’universo giovanile, stabilire la convenienza di un intervento e la sua ‘effettività’ (possibilità di riuscita in relazione alle condizioni del mercato, il quale sembra presentare poche brecce tra monopoli consolidati).
Se la tipologia del consumo giovanile ha un carattere di generalità, questo non ci esonera dal tentare un intervento. Esso non avrà un carattere ‘correttivo’, né surrogherà o si sovrapporrà a quello delle industrie culturali, ma concernerà l’offerta più variegata di opere/merci. E, soprattutto, considererà lo studio dei flussi di mercato con la stessa serietà e competenza degli analisti di vendita degli ipermercati reali o virtuali, ma con finalità differenti dal mero utile, finalità ad esempio di conservazione della memoria (onde evitare facili revisionismi), di lucidità nelle scelte, di capacità di orientare il mercato anche dal basso attraverso forme di resistenza o di contropotere (come avrebbe scritto Foucault). Sembrerebbe così almeno necessario ampliare la scelta della mercanzia sugli scaffali degli ipermercati della cultura, intendendo con questo auspicio l’arricchimento e la diversificazione dell’offerta musicale, e comprendendovi anche le tipologie ritenute oggi erroneamente ‘ostiche’. Infatti, da un lato è vero che il mercato sceglie, che viene orientato almeno quanto orienta, che distribuzioni su larga scala diventano antieconomiche per chi produce. Ma è pur vero che nella possibilità di dischi ‘collettanei’ frutto del lavoro di più autori, o attraverso opere con tracce estremamente diversificate, potrebbe sia garantirsi il ritorno economico delle major, sia non escludere la possibilità di una scelta a priori. Nella mancanza di capacità di suggerire tali strategie alle case di produzione, una enorme responsabilità ricade sulla critica giornalistica, di sempre minore qualità, e sullo snobismo selettivo ed acido della musicologia specializzata. Invece, ampliando la scelta, o considerando la possibilità di consentire maggiori opzioni all’interno dei dischi più venduti (cosa accadrebbe se ogni cantautore di successo consentisse all’inserimento di un brano ‘altro da sé’ nel suo disco di successo?), o nelle liste gratuite di file Mp3, le possibilità di riuscita potrebbero essere interessanti, anche se percentualmente poco significative, o corrispondere alla resistenza che s’impunta sulla soglia esterna del potere diventandone la ruga inaspettata. Non escluderei anche colpi di scena e capovolgimenti temporanei tra le forze in campo. Un brano frutto di un’operazione intelligente, acuta, strategica, potrebbe sorprendentemente occupare il mercato, ritagliarsi una nicchia di sussistenza, svolgere (fino alla sua inevitabile assimilazione) una funzione di salutare, temporanea, icona di progresso.
Le opere frutto di nuove consapevolezze estetiche, e potenzialmente in grado di occupare una nicchia di mercato e di incunearsi come piccola resistenza presentano caratteri che stanno definendosi abbastanza velocemente, ma che vanno considerati in progress, a causa della straordinaria velocità delle innovazioni tecnologiche, e dei gusti dei fruitori/consumatori. Ne elenco alcuni.
1- Molti brani non sono congelati all’interno dei confini di genere.
2- Essi hanno accesso e utilizzano le tecniche della contaminazione, la quale non è affatto quella che ci propinano i giornali (mettere in una canzone pop una tabla o un sitar per renderla world o etno[292], oppure minimizzare la portata del fenomeno asserendo che “tanto la contaminazione c’è sempre stata”[293]). Come tali sono con/fusi, frutto dell’ibridazione, meticci.
3- Le opere/merce utilizzano le nuove tecnologie e spesso ne sono condizionate (vedi il caso del già citato formato di compressione audio denominato Mp3, e all’opposto, sul versante della eccellenza qualitativa, i nuovi supporti audio-video DVD e soprattutto SACD). Tale condizionamento non ne inficia il valore estetico.
In particolare, tutta una serie di modalità e tecniche sono collegate allo sviluppo informatico. Occorre però fare dei distinguo. Sarà opportuno, ad esempio, rifuggire dalla sorda aspirazione d’appartenenza al repertorio cristallizzato ed evitare il crisma della novità per la novità, agitato come bilancino di validità estetica e a mo’ di spauracchio dai teorici di Darmstadt.
Dal punto di vista delle nuove tecnologie, appare importantissimo l’uso dei recenti registratori multitraccia, o la possibilità ormai alla portata delle tasche di chiunque, di lavorare in audio digitale anche a casa propria. L’aspetto che riguarda l’arricchimento della creatività, e pertanto la cura e lo sviluppo delle immagini sonore, è stato reso straordinariamente facile dallo sviluppo dello standard Midi, che consente da anni di colmare lacune dell’immaginazione con strepitose sonorità di tutti i tipi, alla faccia dei benpensanti e dei guru della musica elettronica. Tale sviluppo e tale ‘massificazione’ hanno dato fastidio a quanti ritenevano di detenere un potere-sapere nell’esercizio esclusivo delle tecnologie, e nella trasmissione di questo sapere ad una ristretta cerchia di allievi (a tutto vantaggio dell’altra chimera della musica veterosperimentale, quella della ‘scuola’ compositiva di riferimento: per valutare il tasso di accademia di un compositore basterà considerarlo equivalente al processo di identificazione che nutre per i suoi allievi…)[294].
4- Le nuove opere sfruttano naturalmente inedite modalità di comunicazione: in rete, opere collettive scritte e diffuse a più mani, divulgazione via fanzine, passaparola informatico, reti alternative di diffusione autogestita, divulgazione di software i cui molteplici autori hanno lavorato a titolo gratuito (esempio tipico quello del sistema operativo Linux). Quello che è in gioco, insomma, è il pregiudizio d’autore[295]
5- Le opere tengono spesso conto del mutare degli standard di attenzione dei fruitori: essi sono ormai abituati dal genere ‘canzone’ a fruire di lavori che non superino i quattro minuti; la loro attenzione cala a causa dell’abitudine a percepire entro pochi secondi i messaggi pubblicitari; il loro consumo va differenziandosi in relazione alle occupazioni quotidiane e va orientandosi secondo un criterio per il quale ad ogni istante della giornata, e a ciascuna esigenza di lavoro, svago, riposo, rilassamento, sessualità, corrisponde una determinata musica. Pertanto, non una generale omologazione della produzione, ma una differenziazione che tenga conto dei parametri estetici della nostra quotidianità, e che riaffermi la validità estetica di ogni produzione.
Il plagio e le sue estetiche[296], la possibilità di alterare, invertire, in fondo saccheggiare qualsiasi aspetto della cultura ufficiale[297], gli jinglemakers e la musica da spot, le compilation dei dj e le loro estetiche scratch[298], le nuove musiche metropolitane, quelle usate nei megastore per favorire la vendita, o nelle aziende per aumentare la produzione, le siglette di attesa telefonica, il proliferare del protocollo Midi tra i sedicenni, delle musichette personalizzate dei cellulari, di quelle rigorosamente pirata dei siti Web, delle segreterie telefoniche e dei videogames, le musiche/icona pensate direttamente o esclusivamente per un supporto multimediale, le tecniche del morphing acustico[299] creano un reticolo di nuove musiche per il quale gli strumenti di analisi consueti risultano non solo inadeguati, ma addirittura fuorvianti.
Come si può constatare nelle prassi quotidiane dei musicisti che si mantengono al di fuori delle accademie, la straordinaria ‘massificazione’ temuta e combattuta da Adorno ha invece fatto sì che la musica arrivasse, nella sua valenza di gioco creativo o di puro intrattenimento e passatempo, ad una gran quantità di non addetti ai lavori. Peò anche molti compositori professionisti hanno ampliato le loro possibilità notazionali utilizzando a profusione i nuovi mezzi, oggi finalmente diffusi perfino nelle scuole e messi in rete grazie a normative che consentono la creazione di laboratori musicali informatizzati[300].
Alle pratiche dell’agire solo in parte hanno corrisposto adeguate formulazioni teoriche. Tra gli autori più consapevoli, nel 1990 Fredric Jameson ha ipotizzato una insufficienza adorniana sulla questione dell’opera d’arte e della sua massificazione. Il suo libro, tradotto in italiano soltanto nel 1994, mette in luce la distanza tra le esperienze di fruizione di massa ed i codici tradizionali usati per rivisitarle. Dopo averla posta, lascia la questione in modo interlocutorio: «(…) bisogna allora escogitare una definizione e un’analisi dei surrogati dell’arte per tutti quegli spettatori e ascoltatori che, pur credendosi impegnati in un’esperienza culturale, non sembrano tuttavia sapere cosa sia l’arte né aver mai raggiunto una ‘genuina esperienza artistica’, né infine aver saputo d’essere stati fin dall’inizio privati di essa»[301]. Finalmente Jameson ipotizza che la perfezione tecnologica della cultura di massa «sembra infatti rendere più plausibile la nuova dignità di tutti questi oggetti d’arte commerciali, in cui una specie di caricatura della concezione adorniana dell’arte come innovazione tecnica si sposa ora con il riconoscimento della più profonda saggezza utopica inconscia propria di quelle masse di consumatori il cui ‘gusto’ la convalida»[302]. Si colgono tra le righe sia ironia che auspici, subito illustrati: «(…) forse oggi, in un tempo in cui il trionfo delle teorie più utopiche della cultura di massa sembra completo ed egemonico, abbiamo bisogno del correttivo di una qualche nuova teoria della manipolazione e della mercificazione»[303].
Sempre del 1990, anch’esso tradotto in italiano nel 1994, è il lavoro di Richard Middleton. Quest’ultimo, con maggiore acutezza di Jameson individua nella popular music i caratteri della eventualità di opere collettive o gratuite, grazie alla quale si potrebbe sfuggire dalla vendita delle opere «come se fossero oggetti di consumo»[304]. Egli descrive bene il controllo solo parziale delle case discografiche sul mercato: «le case discografiche cercano certamente di controllare la domanda, di incanalarla in direzioni conosciute, ma non sono mai sicure del loro mercato; il massimo che possono fare è offrire un ‘repertorio culturale’ per coprire un ventaglio di probabilità in modo da minimizzare i rischi – ed è proprio questo che dà una spiegazione alla colossale sovrapproduzione di dischi, gran parte dei quali è in perdita». Middleton prosegue spiegando come la musica non possa, ancorché prodotto di massa, «essere solamente un prodotto, un valore di scambio, anche nella sua forma consumistica più rozza»[305]. In definitiva Middleton sottopone le tesi adorniane ad una critica giusta quanto spietata, e si ricollega a Benjamin per ridefinire i termini dei prodotti culturali in relazione al loro consumo di massa. Molti temi sono toccati e portati a buon esito, anche se talvolta se ne sottovaluta la portata, come nel caso della nozione di ‘massificazione’. Avevo espresso la medesima necessità di un allontanamento da Adorno e dai teorici di Darmstadt in un pamphlet del 1993, ed in numerosi altri luoghi[306].
Altri due
autori sono interessanti, John Walker e Dick Hebdige, anche se appaiono
piuttosto confinati all’ambito pop. Per il primo la consapevolezza che «la
passione dell’avanguardia per la sperimentazione formale, la ricerca di
originalità e il continuo esercizio critico non sono affatto incompatibili con
le richieste del mercato della musica»[307], può consentire ad
alcuni musicisti pop di sperimentare, purché mantengano entro certi limiti
Musiche per il consumo di massa, che non abdichino alla qualità, perché il valore estetico è nell’eteroriferimento dell’opera, cominciano ad affacciarsi soltanto da qualche anno in un ambito che non sia esclusivamente quello pop. Vengono fuori con stupore da qualche spot di successo, o dalla colonna sonora di un film-spazzatura, o creano fenomeni stravaganti come le migliaia di copie vendute da un pezzo sacro di Pärt o da una sinfonia di Gòrecki. Questi fenomeni, gli autori, i meccanismi di produzione automatica di musica (siglette, musiche libere dal copyright, compilation alla John Zorn, etc.) vengono combattuti sia dall’accademia che dalla veteroleografia consolatoria, come lo sono stati Glass ed altri minimalisti americani ed europei che avevano dato voce nell’ambito colto alla cultura esclusivamente pop della riproduzione di serie.
Ma con questi brani e queste tecniche, probabilmente, gli studiosi devono ancora fare i conti per comprendere dove stia andando la musica, e soprattutto quale possa essere la sua funzione comunitaria.
In questa prospettiva, certo complessa, si pone il lavoro di alcuni musicisti, per i quali si era cercato a lungo un nome. Essi appaiono sul confine, lo oltrepassano, propongono l’abbattimento delle barriere di genere. Qualificati fino a qualche anno fa come ‘musicisti di frontiera’, oggi confluiscono naturalmente nella ‘border music’, neologismo inventato per la mia rubrica su “il manifesto”[311]. Non si tratta quindi di una nuova etichetta, ma di un modo molto semplice per qualificare una produzione che, pur apparendo in continuità con quanto accaduto fino ad oggi dal punto di vista dello sviluppo naturale della storia della musica, si oppone invece (risultando talvolta in aperto conflitto), ai teoremi ed ai veti imposti dal credo di Darmstadt. Per questo la musica di frontiera viene ostacolata da quanti professano ancor oggi il culto veterosperimentale: teorici degli anni Settanta (cui pure va riconosciuto il merito di aver costruito una teoria della postavanguardia, e averla conservata attraverso la memoria, ma che poi non dovrebbe però essere oppressiva, benché reazionaria), compositori che hanno trasformato l’avanguardia in accademia, enti lirici e ‘fondazioni’, che pensano di difendere i repertori uccidendo il contemporaneo, o che il contemporaneo arrivi solo ai primi del Novecento, con l’unica eccezione di Boulez. Ecco la necessità di stabilire una linearità con la storia della musica, in particolare attraverso l’aspetto della ‘contaminazione’ intragenerica/infrastilistica, extragenerica (mescolando differenti discipline artistiche, come il cinema, la diapittura, la video-art, etc.) ed infragenerica, e nello stesso tempo segnalare il differente ed il discontinuo tra questa produzione contaminata e la più recente espressione di una contemporaneità che è apparsa spesso decisamente formalistica ed alessandrinistica, con la conseguenza, ormai riconosciuta perfino dai compositori di penna più snob, della divaricazione e della frattura quasi insanabile tra compositore e pubblico nella fruizione dell’opera.
La ‘musica di frontiera’ o ‘border music’ può alludere alla world o global music, alla ambient, in parte alla fusion, e, solo in casi circoscritti, ad alcune atmosfere della new age più evoluta. Ma si tratta di riferimenti sempre temperati dalla nostra rilettura, che dà a queste ‘etichette’ un connotato di grande novità rispetto a tutto quello che era stato fatto alla fine del Novecento. In particolare bisogna precisare la vicinanza con la ambient (al capostipite Brian Eno, in accoppiata con Harold Budd e Jon Hassell), e la distanza dalla new age, perché altrimenti la pubblicistica non specializzata tende a banalizzare ed a collocare i musicisti di frontiera nell’alveo della semplificazione esasperata tipica di quest’ultimo filone. Nella ‘border’ c’è maggiore consapevolezza di cosa possa significare proporre una musica che sia figlia del nostro tempo, riuscendo tuttavia molto più comunicativa rispetto alla cosiddetta produzione ‘colta sperimentale’, cosa che per la verità, in sé sola, non c’è voluto molto a realizzare, considerata l’asfitticità e la totale assenza di ‘senso come significato’, purtroppo tipiche di molta produzione meramente retorica, speculativa e autoreferenziale.
La musica di
frontiera utilizza stilemi appartenenti a diversi generi ed a diverse zone
geografiche. Potrà usare la tecnica dei clusters pianistici o quella del
respiro circolare, e poi accostarle ad una progressione modale jazz. Può
utilizzare voci etniche e miscelarle ad un formicolante quartetto d’archi che
funge da tappeto sonoro con il live
elettronics. Può affiancare tecnologie avanzatissime a strumenti
tradizionali, orientando la ricerca di senso verso i contenuti piuttosto che
verso il vuoto formalismo dei linguaggi. Per questo la musica di frontiera si
lascia alle spalle molti presupposti ‘accademici’, infrangendo i ruoli tra
esecutore e compositore (come realizzato in alcuni brani da: Balanescu Quartet,
Adams, il vecchio Glass, e tra gli italiani l’Harmonia Ensemble e il gruppo
Sentieri Selvaggi, per citare solo
alcune formazioni), dando spazio all’improvvisazione e pari dignità estetica
alla produzione di musicisti provenienti da settori non convenzionali (dal
rock, ad esempio, come Frank Zappa; o dal jazz, come John Zorn). Quelli che
parlano questo linguaggio provengono spesso dalla popular (che poco ha a
che vedere col nostro concetto di ‘popolare’, mantenendo intatta ed integra la
valenza semantica tipicamente anglosassone, e riconducibile a Richard
Middleton) o dalla minimal, specialmente europea. Alcuni sono lettoni o
polacchi. Altri ‘pendono’ verso le proprie radici di genere, e cioè appaiono
sbilanciati verso il jazz o verso la new age, pur restando capaci di operazioni
di estrema sensibilità commerciale. I nomi sono noti: Adams, Bryars, Rannap,
nelle forme ‘minimal’ più evolute. Pärt, Gorecki, in quelle mistico-evocative.
Sakamoto, Zappa, Jarrett (nelle loro produzioni più inconsuete, ovviamente) in
quelle pendenti verso generi già definiti. Ma il fenomeno della border music,
ancorché attestato inconsapevolmente ma saldamente in tutto il mondo, conosce
una sua teorizzazione e definizione soprattutto in Italia, perché qui ha
trovato la sua codificazione e consapevolezza estetica (non soltanto pratiche
dell’agire, quindi, ma prassi), e quegli elementi tipicamente meticci,
di con/fusione, che le hanno permesso di svilupparsi e di arrivare a coprire,
non solo sul versante etnico, le richieste di alcune major, come ad esempio la
ECM di Manfred Eicher. Una particolare mescolanza di etnico ‘popolare’ (come la
nostra eccellenza melodico-tematica) e di tentazione meticcia o ‘meridiana’,
per richiamare l’opera di un sociologo (si pensi ad esempio al melting-pot
che si realizza in città come Napoli, con fenomeni come il rap metropolitano,
una scuola di elettronica, l’ emergenza di musicisti di frontiera…). Gli
italiani che, oltre all’autore di questa nota, ritengo possano inserirsi a
pieno titolo in questo filone musicale (che è anche un filone di consapevolezza
estetica), sono certamente Luciano Cilio, precursore fin dagli anni Settanta
delle nostre atmosfere, Ludovico Einaudi, Arturo Stalteri, Eugenio Fels. Molto
interessante l’opera di
Nei lavori di
questi autori la musica si avvale di amplificazioni, uso di tecnologie e supporti
Cdr, muovendosi tuttavia sempre all’insegna della comunicazione e della
gradevolezza di fruizione. Non si tratta naturalmente di una scatola vuota:
coniughiamo la nuova essenzialità stilistica alla completa assimilazione dei
linguaggi musicali contemporanei. Il favore del pubblico, per il momento,
sembra darci ragione. E non è poco.
Piccolo catalogo dei suoni-accessorio
Contra Barthes
“Lungi dall’essere silenziose, il numero delle voci che parlano attraverso e in vece delle cose mute è sterminato. L’enigma dell’oggetto non è tanto nel suo silenzio, nella sua supposta essenza, quanto piuttosto nel brusìo che cresce intorno ad esso”: è Dick Hebdige, che ha scritto La lambretta e il videoclip.
Please wait music
Analogie di percorso, ma utilizzazioni contrapposte, tra la Ambient (e la sua antenata musique d’ameublement) e le pervasive sonorizzazioni dell’etere. Le musichette d’attesa telefonica possono indurre, più che a placide considerazioni estetiche, ad allontanamenti coatti dalla cornetta, per il fastidio di songs imposte per gratificare l’assenza dell’interlocutore umano. E pensare che proprio gli esperimenti di trasmissione via telefono hanno aperto più di una strada allo sviluppo della musica elettronica! Nel ramo telefonico, di recente alla ribalta di sentenze e leggi sul diritto d’autore, imperversano sui portali Internet anche squilli personalizzati. Da sigle televisive di successo a spot cult, dal beethoveniano destino che bussa alla porta al celeberrimo ultimo grido di Paola e Chiara. Il suono del modem, infine, è pure entrato nell’immaginario collettivo, visto che fa da sfondo ad infinite pubblicità sull’e-commerce, e-trading, enciclopedie a fascicoli settimanali, gadget del quotidiano (che come in uno specchio diventa inessenziale rispetto all’oggetto donato, il giornale che a sua volta si fa ‘aggeggio’ del gadget).
Megastore player
Quando si è scoperto che le famose mucche producevano di più grazie ai suoni di sottofondo ed al libro di Baricco, nei supermercati e negli store si è moltiplicata la scelta di motivi induttivi. Il clima che si vuole riprodurre è quello dei clip in cui adolescenti agghindati ballano e si avvinghiano nello stile dei ragazzi della tale o talaltra consorteria. Le song in oggetto risultano assai gradevoli, e la percezione estetica del megastore è senz’altro enfatizzata dall’accoppiamento suono-colore. L’architettura, ambienti larghi, la spazialità dello sguardo sui piani rialzati, il movimento delle scale mobili e delle luci fanno il resto.
Bim Bum Bam Dumbo Song.
Musica per
infanti disegnata per accompagnare i consumi musicali dei più piccoli quando la
loro attenzione è a mille: sulle giostre. Ogni ‘postazione’, l’elefante Dumbo,
la macchina dei pompieri, perfino
La Pimpa, Alice ed il supermercato
Già da anni
una catena cooperativa di supermercati ha rivolto attenzione al mondo dei
bambini. Trasformano i parcheggi in arene cinematografiche, campi di calcio.
Alcune sale diventano ludoteche infantili. Laboratori per infanti, prove
tecniche sul consumo di pargoli, per “consumare senza essere consumati”. Anche
per chi commercia, il consumatore “può educare il consumo”, e non viceversa. Un
consumo di cose necessarie, un consumo da alternative solidali, ad esempio, o
che rispetti
La catena di supermercati sta studiando da anni una alfabetizzazione multimediale da introdurre nelle scuole: “si pensi alle implicazioni che potrà avere l’alfabetizzazione multimediale nel campo dei consumi, quando l’e-communication (dall’e-market all’e-information) esploderà, in un tempo non più tanto remoto come sembrava solo qualche mese fa”. Sono parole scritte l’anno scorso da Luca Toschi.
Home computing
Tecniche di uso domestico del computer per inventarsi dal nulla brani musicali ‘personalizzati’, ad uso e consumo quotidiano e per arricchire le proprie pagine web.
Home recording
Dal punto di vista delle nuove tecnologie, appare importantissimo l’uso dei recenti registratori multitraccia, e la possibilità ormai alla portata delle tasche di chiunque, di lavorare in audio digitale anche a casa propria. L’aspetto che riguarda l’arricchimento della creatività, e pertanto la cura e lo sviluppo delle immagini sonore, è stato reso straordinariamente facile dallo sviluppo dello standard Midi, che consente da anni di colmare lacune dell’immaginazione con strepitose sonorità di tutti i tipi, alla faccia dei benpensanti e dei guru della musica elettronica. Tale sviluppo e tale ‘massificazione’ hanno dato fastidio a quanti ritenevano di detenere un potere-sapere nell’esercizio esclusivo delle tecnologie, e nella trasmissione di questo sapere ad una ristretta cerchia di allievi.
Campioni di suoni
Sul CD-Rom
venduto in edicola, un corso di “musica e computer”, campeggia la seguente
frase: “musica composta da semplici esempi di sonorità, non riconducibile ad
autori, tantomeno iscritti a SIAE”. Grande! Di cosa si tratta? Sono campioni di
suono, loop, pattern, che possono liberamente essere utilizati per ‘creare’ dal
nulla le proprie musiche preferite, anche senza saper suonare uno strumento o
conoscere
Si tratta certamente di un effetto della massificazione, del consumo genericizzato verso fasce ‘basse’: ma è una prassi che ha fatto dilagare la creatività, e che fa conoscere tecniche di permutazione del suono anche ai non addetti ai lavori: un effetto secondario non previsto dalle teorie della mercificazione. Se questo non è popolare, sfugge cosa altro oggi possa esserlo con altrettanta efficacia.
“Il Mercato è il Messaggio”
E’ il titolo di un convegno che ha riunito a Roma gli operatori del settore immobiliare italiano ed europeo. Trasforma il più noto “il medium è il messaggio”, perché in effetti il mercato è una sorta di medium privilegiato, in grado di enfatizzare i desideri, come già largamente dimostrato a Francoforte, ma pure oggettivamente di anticiparli, interpretando il flusso, il trend, e di appagarli attraverso oggetti, che sono certo reificazioni del desiderio. Il gioco tra contenente e contenuto che si scambiano potrebbe procedere all’infinito, come usano fare i francesi: qui basta certificare che se il messaggio è “ciò che da una parte va a finire all’altra”, il mercato, i consumi, la proprietà, attuano strategie delle quali non ci siamo ancora impossessati, e che invece sarebbe opportuno conoscere approfonditamente per trasformare gli oggetti d’uso in doni unilaterali gratuiti. Cosa altro sarebbe un file Mp3 scaraventato in rete, a quale categoria di leicità potremmo ricondurlo se non a questa?
Mouse-Musique
Ludovic Navarre-St. Germain,
Moby, Dj Krush: sono stati definiti “musicisti del mouse”, perché con tecniche
differenti procedono alla creazione di pezzi ibridi, fatti di frammenti
‘campionati’ (trasformando suoni ripresi altrove in frammenti numerici
utilizzabili nuovamente), o di sequenze trasformate in modo originale. La
decontestualizzazione fa sì che ci si trovi di fronte ad opere nuove, di
assonanza jazz (Ludovic Navarre), Lo-fi
(Moby), più propriamente vicine alla musica da discoteca, senza interruzioni
del flusso ritmico (Dj Krush). Il genere ha rifatto persino una delle Gymnopédies di Erik Satie, e possiede
cose mirabili, come la Intro a
“Code4109” di Dj Krush, o Machete e Run on in “MobyPlay”. Navarre, dal canto
suo, nel suo disco per
Scratch
Lo scratch è una tecnica usata dai dj per alterare i suoni dei dischi nata nel Bronx agli inizi degli anni Settanta. Per John Walker «Lo scratch rappresenta chiaramente una forma di intervento del consumatore che trasforma e personalizza i prodotti del music business». Purtroppo però aggiunge: «Per chi lo pratica, lo scratch costituisce una maniera per controbilanciare la passività che caratterizza altrimenti la fruizione di beni di consumo».
Morphing
Con le tecniche del morphing si procede di alterazione in alterazione da suoni preesistenti, accostandoli liberamente. La ‘composizione’ sta in questa giustapposizione creativa (vogliamo chiamarlo sviluppo o variazione?), più che nella creazione di algoritmi che esprimano nuove sonorità. In ciò risiede la maggior possibilità di successo della nuova musica elettronica, che si differenzia dal mero sperimentalismo e dalla ricerca di suoni inediti che ha paralizzato la creatività dei compositori per decenni.
Consumi per soli adulti
L’opera può essere consumata senza per questo perdere qualità estetica. La faccenda, posta in relazione ai consumi giovanili, potrebbe creare qualche malinteso. Invece anche qui ci si trova né più né meno che di fronte al problema che riguarda tutte le tipologie di consumo. Ci si chiede se esista un consumo ‘adulto’, o se si possa parlare propriamente di “consumi per soli adulti”… Un consumo ‘adulto’ infatti prescinde evidentemente dall’età del consumatore, e coincide con quel consumo che riesce a mantenersi il più possibile consapevole, ad indirizzarsi verso questo o quel prodotto musicale assecondando la tasca del fruitore, la propensione e la volontà di ascolto - orientamento, differenziazione tra prodotti ed esigenze del momento, tra motivi di studio o di svago, intrattenimento o ascolti ‘d’arredamento’. Questa consapevolezza nella capacità di scegliere non ha nulla a che vedere con l’età del consumatore perché la capacità d’individuazione, la selettività, e soprattutto la lucidità non sono certo variabili dell’età, anzi.
Ultime Resistenze?
La resistenza si esprime anche attraverso l’appropriazione e la trasformazione di beni di consumo: “La nuova economia - un’economia di consumo, di significanti, di sostituibilità e avvicendamenti infiniti, di flussi e manovre - a sua volta produce un nuovo linguaggio del dissenso. I termini che erano stati definiti in negativo dalle èlite culturali dominanti furono rovesciati e adattati a dare significati oppositivi in quanto assunti (nel modo suggerito da Marcuse) dai difensori (esponenti della controcultura) del cambiamento e convertiti in valori positivi (edonismo, piacere, futilità, disponibilità e così via)” (D. Hebdige).
STORIA ESTETICA DEL PLAGIO MUSICALE
La ‘contaminazione’, naturalmente, è
sempre esistita. È scritto in alcune
storie della musica, ed è deducibile anche usando semplicemente la logica, in
relazione alle modalità stesse della composizione musicale, la quale da un tema
o una cellula sonora di qualsiasi tipo (tratta anche da altri autori) fa
scaturire un intero brano. Da quando tuttavia l’ ‘imbastardimento’ della
produzione musicale è diventato un fatto compiuto, e tutti i media parlano di
contaminazione, si sono creati due partiti. Da un lato quelli che la propugnano
ad ogni pie’ sospinto anche quando non di ‘contaminazione’ si può parlare, ma
di semplice accostamento confusionale di stili; dall’altro quanti si atteggiano
ad algidi difensori della purezza e denigrano un corso musicale che a loro
dispetto percorre trasversalmente tutti i generi. Per questi ultimi, la
contaminazione è esistita da sempre, quindi non ci sarebbe da gridare al
miracolo oggi; si tratterebbe di un fenomeno alla moda, da minimizzare, usato
dall’industria culturale a meri fini commerciali e quindi da portare ad
esaurimento dopo averlo spolpato per bene. Lo confondono con il lavoro di quei
musicisti colti (come ad esempio Bartòk) che in passato hanno rivalutato le
tradizioni folcloriche dei loro paesi. Non distinguono, quindi, tra popular
e popolare, e sfiorano anzi il populismo.
Date queste premesse potrà allora
risultare utile rintracciare il tema conduttore del fenomeno del plagio
all’interno della storia della musica, dimostrando che, effettivamente, la
deriva della contaminazione si è affacciata con forza nel corso dei secoli e
nel lavoro di musicisti anche importanti. Ma contestualmente ribadendo l’idea
che oggi sta accadendo qualcosa di nuovo e di profondamente diverso. Qualcosa
che marcia al passo con la globalizzazione dell’economia e che può essere usato
bene o male, così come era già avvenuto quando ci si accorse della
‘riproducibilità’ tecnologica delle opere d’arte (Benjamin). Queste nuove modalità di produzione di opere
possono essere rivolte al mero discorso economico (e quindi da stigmatizzare,
come ci insegna Ignacio Ramonet) o tendere a qualcosa di più, al melting-pot,
alla proliferazione di linguaggi capaci di arricchire tutti attraverso la
differenza di ciascuno: l’altra faccia della musica globale.
Il plagio e le estetiche nuove che ne
derivano non sono altro che uno strumento di contaminazione, uno strumento
ricco di implicazioni giuridiche, politiche e filosofiche. Il plagio artistico
consiste nella veicolazione gratuita di idee e atmosfere musicali: non si
tratta della mera copia, naturalmente. La diffusione di uno ‘stile’, infatti,
non ha nulla a che vedere con una copia, e pertanto evita di pagare qualsiasi
pedaggio. Dal punto di vista filosofico, attraverso la gratuità dell’offerta,
il plagio artistico consente di sfuggire alla logica dello scambio, con la
prassi del dono unilaterale gratuito. Io do una cosa a te, e basta: tu nemmeno
sai chi sia a dartela, si tratta di un contributo alla storia del progresso
comunitario.
Questa visione, che a tutta prima appare
utopistica, oggi diventa pratica comune. Le idee circolano da sole, senza
pregiudizio d’autore. Esse vengono sentite come proprie da ciascuno, ed anzi il
fenomeno sembra ormai innescare un problema opposto, quello della conservazione
della memoria storica. Vale a dire, almeno, della conservazione del nome di
quanti abbiano introdotto innovazioni o nuove idee, esattamente come accade nel
campo informatico per i software
open source.
Origini
del fenomeno
Già l’uso di modi ispirati a quelli greci
è in qualche modo da considerarsi una sorta di grosso plagio stilistico. In
realtà, mentre comunemente (ed erroneamente) si ritiene che la civiltà musicale
abbia seguito un percorso lineare, genericamente ‘progressista’, e cioè di
maggior complessità delle forme o di evoluzione gerarchica delle stesse (cioè
dall’elementare allo strutturato, dal facile al difficile, e così via), proprio
l’uso medioevale della modalità smentisce clamorosamente questo assunto. Nella
Grecia antica, infatti, i modi potevano assumere forme anche assai più
complesse: per esempio oltre ad essere diatonici (antenati delle nostre scale
moderne), potevano diventare cromatici e addirittura enarmonici, utilizzando
quindi rapporti tra suoni che noi occidentali abbiamo completamente dimenticato
(eccettuato naturalmente i lavori microtonali contemporanei di qualche
interesse, quelli di Harry Partch, Lou Harrison, Lamonte Young, John Cage...).
Prima dell’epurazione fatta da San
Gregorio Magno, che ‘ripulisce’ i canti da più antiche e suadenti effusività
orientali, il canto liturgico medioevale conosceva una estrema libertà
geografica: da quello monodico basato su otto modi di derivazione bizantina, a
quello ‘occidentale’, che presentava differenti tipologie, tra le quali anche
quella mozarabica. In tempi di barricate come quelli presenti non farebbe male
ricordare il contributo offerto dalla cultura araba alla musica occidentale.
Durante il Rinascimento, mentre in
Germania Lutero rinnovava le fonti dei canti liturgici ed in Francia Calvino
proibiva di usare la musica se non nelle sue espressioni più sobrie (vale a
dire con melodie cantate all’unisono), in Spagna accadeva qualcosa di molto
interessante. Si creava una sorta di melting-pot, di crogiolo capace di
raccogliere elementi franco-fiamminghi ed italiani, e fin qui nulla di strano,
perché i fiamminghi avevano rivoluzionato le forme vocali (anche con ardite
composizioni: il Deo Gratias di Okeghem
arriva fino a 36 voci!) e l’Italia aveva perfezionato l’arte strumentale. Ma il bello era che in Spagna questi elementi
si fondevano con stilemi gotici, celti, baschi, arabi e berberi. Bernard
Champigneulle, nella sua piccola e provocatoria Storia della musica spiega la commistione con gli arabi: istallati in Andalusia fino
all’inizio del Rinascimento, essi avevano segnato nel profondo la civiltà
spagnola. La straordinaria presenza di elementi tanto variegati fanno della
cultura spagnola rinascimentale un meraviglioso precedente di commistioni e...
plagi d’inestimabile valore artistico.
In Spagna pomposi oratori sostituiscono i
villancicos d’ispirazione etnica
locale. In Germania, Inghilterra, Fiandre ci si ispira alla scuola di
Versailles, ma rifacendola alla maniera italiana: sono quelli che Couperin
chiama i ‘gusti fusi’. Keiser ad Amburgo fa seguire in una stessa opera testi
in francese, italiano e tedesco, a seconda dell’atmosfera della musica o della
forma prescelta.
Il grande Georg Friederich Händel compone
ispirandosi alle forme napoletane, ma ha la tecnica degli organisti tedeschi ed
uno spirito tipicamente... inglese, specie nei brani di circostanza che lo
fanno affermare in Inghilterra. Händel dichiarava tranquillamente di prendere
spunto da temi di Stradella e Keiser. Ma gli addebitano prestiti da... ventinove compositori! Nel solo Israele in Egitto compaiono ben
diciassette ‘citazioni’.
Il grande codificatore delle prassi del
sistema temperato (che solo apparentemente è un passo avanti nella storia della
musica, contrariamente a quel che ritenne Schönberg), Johann Sebastian Bach,
trascrive concerti barocchi di Marcello, Vivaldi, Johann Ernst; scrive corali
su temi luterani, riscrive se stesso adattando numerosi brani a differenti
strumenti. Ispirato dalla celebre Piango,
gemo, sospiro e peno, di Vivaldi, Bach ne trae un Andante per il Concerto
in si minore BWV 979 (trascritto da autore ‘sconosciuto’), e vi si ispirerà nel
fugato del Preludio Fantasia BWV 922,
quello poi trascritto dal pianista Egon Petri per
Il grande Mozart, amato dagli dei e
filmicamente odiato da Salieri per il suo genio, si divertì a copiare temi di
altri compositori. Nella Ouverture
del Flauto magico vi sono temi di
Cimarosa e di Clementi, considerato il “padre della musica pianistica”. Mozart,
come ricorda Luciano Chailly, «ebbe molte accuse di plagio per ‘prestiti’ da
Gluck, Haydn, Paisiello, J. Christian Bach, Sarti, ed altri». Giovanni Carlo
Ballola scrisse che «se Mozart fosse vissuto ai nostri tempi, avrebbe dovuto
passare molto tempo, per i suoi plagi, in un’aula di Pretura». Chailly
riferisce che Clementi, ristampando una Sonata,
dovette segnalarvi in calce con comprensibile stato d’animo il celebre «plagio
di Mozart».
L’Ottocento
Nell’Ottocento, con l’imperversare di
trascrizioni, parafrasi, adattamenti e facilitazioni per fanciulle, la pratica
della citazione dilaga e si esplicita. Nasce contestualmente l’idea di
‘repertorio’ e si consolida quella di ‘autore’. Così, Wagner si sente in dovere
di avvertire Liszt di aver ‘preso in prestito’ un tema che compare nella Walkiria, riconoscendo all’altro un
diritto di proprietà su qualcosa di immateriale. Questo momento, benché fosse
stato anticipato dalla denuncia di Clementi del plagio subito da Mozart, è di
fondamentale importanza: il ‘pregiudizio d’autore’ (v. oltre) e cioè la sensazione
di sentirsi legittimi proprietari dell’opera creativa, era ormai assimilato, e
sarebbe stato rimesso in discussione solo nel Novecento, da Igor Stravinskij.
Fino a quel momento, l’opera era considerata come un oggetto artigianale, e gli
stessi artisti venivano trattati come artigiani. Non a caso Beethoven fu tra i
primi ad avere la consapevolezza del valore economico delle sue composizioni,
pur non restando a sua volta immune da ricadute nel plagio. E’ possibile, come
caso limite, ricostruire il tema della famosa Pastorale assemblando alcuni
incisi mozartiani (Sonate K 332 e 135; Fuga della Fantasia K 394). Ma la
sintesi di quel tema, come segnala Tito Aprea in un suo celebre libro sul
plagio, compare addirittura in Bach, nella Cantata “Dio tu guardi la Fede”, e si tratta di un
caso limite, che può illustrare quanto fosse profonda nei musicisti
l’introiezione del lavoro e delle opere dei loro predecessori e contemporanei.
La nozione di ‘proprietà’ sull’opera e del rischio che altri possa in malafede
appropriarsi di idee musicali considerate ‘originali’ e quindi ‘proprie’, è
talmente già consolidato in Beethoven da fargli confessare ad Eleonora Breuning
«...non avrei scritto in questo modo una cosa simile, ma ho notato che, quando
improvvisavo la sera, c’era sempre qualcuno a Vienna che il giorno seguente
trascriveva molte mie trovate e se ne faceva bello. Siccome ho previsto che
presto saranno pubblicate cose simili mi sono deciso di prevenirle» (citato da
Tito Aprea). Assieme alla nascita del concetto d’autore, si moltiplicano i casi
di plagio. Donizetti viene accusato di plagio stilistico da alcuni critici, ed
altri così lo difendono: [...] vogliamo spendere poche parole sul conto di
taluni critici di professione che in qualsivoglia classico lavoro trovano
sempre a ridire. Vi è chi sostiene incontrarsi nelle musiche di Donizetti
talune cantilene che ad altre somigliano. Senza dir di tante sue teatrali
produzioni, questi Zoili invidiosi potran sentire la Lucia, nella quale son
tanti nuovi pensieri che lungo sarebbe ad enumerarli: e se vi à qualche cosa
che a loro modo di vedere senta di reminiscenza, ciò nasce dal perché essi
confondono ciò che può dirsi plagio musicale con lo stile del compositore. Ogni
maestro di musica à il suo stile come ànno la lor maniera di dipingere i
pittori («I curiosi», Napoli 15 ottobre 1835, citato in Le prime
rappresentazioni delle opere di Donizetti nella stampa coeva, a cura di
Annalisa Bini e Jeremy Commons 1652 pp., Skira, 1997).
Molteplici i plagi artistici: Wagner
attinge da Schubert, Mendelssohn, Beethoven, Brahms, e perfino da una messa
gregoriana. Brahms a sua volta prende da Beethoven, Verdi, Dittersdorf. Lo
stesso Liszt, avvertito da Wagner del
già citato plagio del tema della Walkiria,
gli risponde con filosofia: “Hai fatto bene: così avrà almeno la possibilità di
essere ascoltato da qualcuno...”.
Il
Novecento
Puccini ‘prende’ da Rachmaninov (un tema
di Turandot del 1926, tratto dall’Elegia del 1892...), Rachmaninov da
Chopin. Puccini a sua volta, nella Tosca,
si ispira al celebre Capriccio sulla
partenza del fratello dilettissimo di Bach ed alle Images di Debussy. Ma in cambio cede qualcosa dal Tabarro alle Fontane di Roma di Ottorino Respighi. Anche Cilea prende da Debussy, e Debussy da
Schumann, Prokofiev acquisisce un tema dal Trovatore
di Verdi, e così via, in un gioco intrecciato di citazioni espresse, occulte,
inconsce o consapevoli e colpevoli... fino a Berg, che nel Wozzeck non potendo plagiare un tema perché usa il sistema
dodecafonico copia... un ritmo: precisamente quello della Pastorale di Beethoven. Tantissimi i casi di plagio o similitudine
nella storia dell’Opera lirica,talora con riguardo ai libretti. Il musicologo
Antonio Cassi Ramelli ne cita molteplici casi in un suo importante lavoro del 1973:
«i cosiddetti plagi (...) sono in verità ancora meno percepibili in campo
musicale e perseguibili di quelli letterari. Che Verdi abbia ripreso l’avvio
della romanza del baritono pel Ballo in
maschera, Boito quello del tenore del suo Mefistofele, Giordano quello
della “donna russa che è femmina due volte”, molti si confidano ancor oggi
strizzando astutamente l’occhio destro e scuotendo il capo, mentre molti
arricciano il capo, non si sa perché, quando risentono gli squilli dell’inno
americano nella Butterfly o la nenia
dei battellieri del Volga ripresa in Siberia. Osiamo almeno sperare (...) che
nessuno ricordi che lo spunto dell’intermezzo dell’Amico Fritz proviene da un notturno del Martucci e che nella Moldava di Smetana riappare la nostra
collaudatissima Fenesta ca lucive.».
Più ci avviciniamo alla contemporaneità,
più gli autori presentano elementi che confluiscono nella attuale modalità del
plagio artistico. Nel Novecento, quelli che maggiormente hanno contribuito a
dar corso a questa acquisizione sono stati Erik Satie, che prende in giro le Sonatine di Clementi con piglio ironico
e spregiudicata abilità permutatoria, ed Igor Stravinskij, che fa della
citazione la sua principale arma, a dispetto di Adorno che lo considerò
inautentico con scarna preveggenza. Stravinskij era grado di sorprendere
sistematicamente pubblico e critica con inaspettati prestiti stilistici, sia in
direzione dei suoi contemporanei che verso il periodo classico ed il
Settecento. In Pulcinella, ad
esempio, si ispira a Pergolesi, ne ricrea le atmosfere a modo suo, e lo
dichiara esplicitamente, affermando contestualmente la legittimità
dell’operazione. In Colloqui con S.
confessa: «Pulcinella fu la mia
scoperta del passato, l’epifania attraverso la quale tutto il mio lavoro
ulteriore divenne possibile. Fu uno sguardo all’indietro naturalmente, - la
prima di molte avventure amorose in quella direzione - ma fu anche uno sguardo
allo specchio. A quell’epoca nessun critico lo capì, e io fui attaccato di
conseguenza per essere un pasticheur
(...). Per tutta quella gente la mia risposta fu ed è ancora la stessa: Voi
‘rispettate’, io amo». Anche Massimo Mila riferisce di questa
caratteristica. Tanto che chiude il suo Compagno Strawinsky con la seguente
riflessione: «anche la sorprendente piroetta finale, con la graduale
conversione o piuttosto convergenza di S. verso il metodo di composizione
dodecafonica, non è il recupero d’un contatto smarrito con l’avanguardia ma si
inscrive sotto lo stesso segno di parodia creatrice che è il contrassegno del
costume contemporaneo». Mila attribuisce
a S. una vera e propria «tecnica dell’appropriazione» verso «ogni fenomeno di
natura musicale». E lo stesso
Stravinskij noterà, in Poetica della musica, che «una vera
tradizione non è la testimonianza di un passato concluso, ma una forza viva che
anima e informa di sé il presente. In tal senso è vero il paradosso che tutto
ciò che non è tradizione è plagio...».
La
musica concreta
Oltre a molteplici innovazioni e primati
(l’uso del calcolo algoritmico nella musica elettronica),
Le prassi compositive di Grossi, la sua produzione
artistica (la cosiddetta “home-art”), gli statement estetici, sempre mutevoli e divulgati in copie uniche,
naturalmente celano una più alta idealità presente nel suo lavoro, e legata al
filo rosso Kant-Weininger, di rispetto per l’uomo, distinzione tra il dominio
sugli oggetti da un lato e l’invadenza della proprietà dall’altro. Celano ancora
il desiderio dell’anonimato a favore del lavoro di gruppo svolto nello studio
elettronico, e la necessità di ridimensionare la funzione della proprietà
privata sull’opera artistica e intellettuale, perché non c’è possesso sulle
buone idee. Grossi risulta, così, uno di quei rari musicisti in grado di
leggere trasversalmente le pratiche del fare motivandole con profonde certezze
teoriche, etiche, estetiche. Un personaggio non ancora sufficientemente noto,
ma che fu in grado di opporre una concreta resistenza politica, anche se emersa
in modo saltuario e frammentato, attraverso le sue conoscenze tecnologiche. Si
deve a pionieri come Grossi se l’uso del mezzo elettronico si è via via
‘addomesticato’, se oggi ci pare normale che il ‘computer’ possa avere molteplici
usi ‘domestici’, e possa essere uno strumento che ci fa ‘risparmiare tempo’
quando nel comporre si improvvisa su tastiere collegate via Midi al
calcolatore, che scrive scrupolosamente traccia su traccia, facendoci
riascoltare il tutto con la freschezza di suoni campionati (rendering audio). Grandi pionieri quelli
come lui, Teresa Rampazzi ed
Dalla
Hausmusik alla Mouse musique
Anche per i campionamenti si pone il
problema del plagio: quando i suoni o i break ritmici restano riconoscibili
essi necessiterebbero di una liberatoria dell’autore. Per questo, in tempi
recenti, si è pensato di risolvere il problema commissionando sound-pool
liberi da copyright, royalty-free.
Oggi in qualsiasi messaggeria attrezzata si trovano cd-rom con campioni già
pronti, intere librerie di suoni o di groove
di batteria pronti ad essere messi in loop per essere utilizzati in molteplici
applicazioni domestiche.
Quando la tecnica si diffuse negli anni
Ottanta grazie al proliferare sul mercato di campionatori molto economici, essa
si impose in ambito hip hop, estendendosi in breve anche ad altri generi
musicali, dalla break music (dove per ‘break’ si intende ‘blocco
ritmico’), al funk. Tra jazz e funk si è
mosso il pianista Wayne Horvitz, che ha lavorato sia con Zorn che con Marclay. Per
Horvitz si parla più che di una ‘scomposizione’ di brani, di ‘ricomposizione’
di suoni eterogenei. Ha fondato il gruppo dei President. Marclay è più vicino
al mondo dei Dj, i quali sempre con più creatività utilizzano e mixano
utilizzando appositi programmi o mixer digitali che consentono lo scratch anche con i moderni compact
disc. Ricadute della tecnica del campionamento avvengono oggi in molteplici
generi, fino alla jungle.
La pervasività di queste tecniche nelle
musiche di consumo è oggi un dato innegabile, dimostrato dalla presenza di
musicisti ‘campionatori’ in quasi tutti i generi musicali, da Tom Jenkinson
(drill’n’bass), Nigel Casey (house), Michael Reinboth (jazz), a Marco Passarani
(tecno), Johnny Halk (braindance), fino ad arrivare a Moby (di provenienza
tecno, usa però stilemi blues, ambient, un vero melting pot) ed a
Ludovic Navarre alias St. Germain (lounge jazz, sorta di jazz da camera). Un
altro esempio è dato dai romani Gabin, diventati celebri per aver ricreato in
modo geniale Doo Uap, Doo Uap, Doo Uap, da un originale di Ellington, e per
questo considerati come i St. Germain italiani.
Non si può dar conto facilmente di quello
che accade oggi, se non compilando un ponderoso elenco telefonico. Molti autori
usano la citazione volontaria, o portano agli estremi l’espediente della
trascrizione, reinventando o sporcando intenzionalmente con interventi estranei
i brani del passato. In mente vengono subito le modalità compositive di Zorn,
che accosta frammenti in un velocissimo gioco di rinvio concettuale, le
operazioni di Garbarek, le allusioni dei neoromantici, le rivisitazioni dei
brani di Hildegard Von Bingen.
Una vera svolta è rappresentata proprio
da John Zorn, che scrive colonne sonore per cartoni animati (repentini cambiamenti
tra rumori e musichette pensate ad hoc),
ad esempio con Roadrunner, e lavora
con il già citato Dj Christian Marclay, il quale utilizza il missaggio tra
brani differenti in modo libero, e lo contamina con suoni e rumori estranei. Le
due cose fanno nascere in Zorn l’idea di inanellare citazioni velocissime (Zorn
le chiama “sketch”, v. il paragrafo sulle tecniche), in cui i frammenti
originari sono quasi irriconoscibili, e dei quali non viene più dichiarata la
paternità originaria. Tra un pattern e l’altro, il sassofonista propone ‘insert’
strumentali tecnicamente all’avanguardia. Il risultato è un universo polimorfo,
una evoluzione delle intuizioni usate da John Cage in quei brani per radio e
performer o per radio e televisione considerati scandalosi al loro apparire (si
ricordi che all’elemento della casualità rispondeva l’utilizzazione di
frammenti musicali trattati in modo oggettivo, benché prodotti da una semplice
radio a modulazione di frequenza). Il filo rosso che è forse possibile
tracciare parte da Satie (per le componenti dell’ironia e della musica
d’ambiente) e Stravinskij (per la consapevolezza estetica del rifacimento
stilistico), attraversa John Cage (indeterminatezza non solo dell’esecuzione ma
anche dei materiali prodotti dalla fonte: alea controllata per l’esecutore,
vera e propria indeterminatezza per le fonti) ed i tanti sperimentatori
elettronici; arriva a John Zorn, ed ai musicisti che utilizzano campionamenti.
Ognuno di questi passaggi è stato a suo modo rivoluzionario, e tuttavia in grado
di conciliare l’innovazione e la creatività con la memoria e la conoscenza di
quanto già avvenuto in sistemi contigui o (geograficamente) lontani, sempre nel
presupposto della ‘contaminazione’. Sarà appena il caso di ricordare ancora una
volta che questa nozione, oggi abusata, è stata fortemente osteggiata e
combattuta dai sostenitori della novità dell’arte, della purezza, della
‘grandezza’ della musica colta o occidentale. Non bisognava essere visionari o
veggenti per scorgere all’orizzonte quello che sarebbe accaduto nel mondo della
cultura e della letteratura, e che oggi si stringe come un cappio attorno
all’anelito della globalizzazione culturale. Il cappio è quello che separa
artificialmente le culture, le religioni, erigendo nuovi muri e steccati
attorno all’idea di un occidente pieno di progresso al quale si opporrebbe una
cultura araba, islamica, da mettere alla gogna. Due concezioni opposte, dalle
quali discendono alternativamente tolleranza oppure autoritarismo.
E invece la ‘contaminazione’ sopravvive,
nella vecchia come nella recente musica concreta, che utilizza frammenti spuri
provenienti da ogni dove (ad esempio lo fanno Andrea De Luca e
Alla contemporaneità della
contaminazione, più o meno inconsapevolmente, appartengono, come si è
detto, le brevissime citazioni degli spot,
i rifacimenti, i plagi musicali della musica leggera, i brani sottratti al
diritto d’autore e modificati per essere immessi in rete (tagli nella frequenza
di campionamento, e tagli operati dall’algoritmo usato dal formato Mp3 e dalle
sue evoluzioni), ma anche brani e frammenti liberi da copyright
(chiamati via via loops osoundpool) immessi sul mercato dalle ditte
che vendono software utilizzabili per creare pagine Web, video
promozionali, o musiche di consumo (vedere i cataloghi di campioni diffusi da
Sonic Foundry per il noto software “Acid”; da Magix, che dispongono
anche di immagini ‘free’ utili per costruirsi video con tasselli
‘prefabbricati’, etc. etc.). Molteplici tecniche sono state inventate,
perfezionate, messe a disposizione di tutti, in un primo tempo solo con intenti
commerciali. Questa ‘mercificazione’ ha invece sortito un effetto inaspettato:
la divulgazione capillare, la massificazione, una sorta di popolarizzazione
della creatività. Una creatività ‘a basso costo’, vale a dire ottenibile con
pochissima spesa, benché talvolta di buona qualità. Tutto ciò ha fatto in modo
che anche un metalmeccanico potesse essere prodotto dall’etichetta di Zorn, con
risultati sorprendenti!
L’esposizione delle tecniche parte dalla
‘variazione’ e della ‘trascrizione’, fondative di ogni musica, ma superate
nella loro applicazione accademica) e arriva a quelle tipiche del nostro
secolo, patrimonio collettivo il cui debito va indirizzato alla straordinaria
capillarità dei nuovi media elettronici.
Variazione
Uno dei più esaurienti studiosi di forme
musicali, Andrè Hodeir, dedica ampio spazio alla variazione: «Come l’uomo, pur
così vario nella sua struttura e nei suoi comportamenti nasce da una sola
cellula, l’opera deve svilupparsi a partire da un elemento unico. Tutta l’arte
di chi crea consiste nel ricavare da questa cellula iniziale il massimo della
varietà: è ciò che si sforza di fare la tecnica della ‘variazione’, una delle
forme più pure della musica occidentale». Aggiungendo, tuttavia, che: «secondo
la prospettiva in cui la si considera, la variazione può essere una forma o un
procedimento, o entrambi. Variare un tema significa trasformarlo senza
alterarne l’essenziale, sia ornandolo, sia trasducendolo, sia dando preminenza
ai disegni secondari che l’accompagnano» (Andrè Hodeir, Les formes de la musique). Indicazione più vicina allo studio delle
tecniche compositive è fornita dall’inventore della dodecafonia: «Il termine
‘variazione’ ha diversi significati. La variazione crea le forme-motivo per la
costruzione dei temi, produce contrasto nelle sezioni mediane e varietà nelle
ripetizioni; ma nel tema con variazioni essa è il principio strutturale
dell’intero pezzo» (Arnold Schönberg, Fundamentals
of Musical Compositions, London 1967).
La ‘variazione’ si configura quindi come
una delle più antiche tecniche usate per costruire un brano musicale. Nella
tradizione musicale ‘colta’, al fianco all’invenzione del tema, valore molto
sentito in un periodo successivo, da sempre ha contato il momento dello
sviluppo, dell’organizzazione dei materiali, dell’invenzione ‘variata’ di
cellule magari non originali o non troppo originali. Per questa ragione, come
rileva Tito Aprea, moltissimi incisi tematici restano identici a cavallo di
epoche e di stili (e, naturalmente, di generi): alcuni salti d’altezze, alcune
direzioni dei temi obbligate da un prevedibile e raccomandato ‘buon andamento’
del basso che supporta le armonie, sono stati considerati come un patrimonio
comune, come l’abc del linguaggio musicale, del quale tutti potevano servirsi a
patto di sorprendere poi l’ascoltatore con inaspettate formule ‘variate’. La
medesima forma del ‘tema con variazioni’, addirittura, è poi diventata un
modello di scrittura, laddove certe varianti ritmiche, o modalità di divisione
e spezzettamento del tema, o procedimenti come dilatazione e concentrazione
venivano riutilizzati per richiamare alla memoria dell’ascoltatore le opere
precedenti, o quelle dei grandi compositori contemporanei, come se l’intento
fosse stato non solo quello di innovare, ma anche quello di riallacciarsi
implicitamente ad un linguaggio e ad una tradizione. L’arte dell’implicito
citare varia molto tra i differenti compositori, e non è detto che i più
‘grandi’ siano stati anche quelli più innovativi e radicali. E quasi tutti,
inevitabilmente, hanno fatto ricorso alla variazione, spesso su temi popolari o
di altri compositori.
Trascrizione
Anche la nozione di trascrizione ha
diverse accezioni. La più interessante, ai fini di questo studio, è quella di
‘cambio di destinazione strumentale’. Attraverso la trascrizione, un brano
composto originariamente per un determinato strumento viene trasformato ed
adattato alle necessità di uno strumento differente, in modo più o meno fedele
all’originale e assecondando problemi come l’estensione, il timbro, la
possibilità di fraseggio dello strumento originario e di quello di
destinazione. Esistono trascrizioni ‘da concerto’ (compositori come Liszt e
Busoni amplificano in modo creativo l’originale con raddoppi, riempimento di
armonie, etc.: si pensi all’amplissimo catalogo delle trascrizioni da
concerto); e trascrizioni che diventano vere e proprie ‘reinvenzioni’: in tal
caso musicisti come Rendano, Siloti, Petri sviluppano creativamente arpeggi
appena enunciati, o completano linee di basso con temi inventati da loro. Il
nuovo brano, spesso, pur mantenendo nella corretta sequenza i nomi del compositore
e del trascrittore (ad esempio: Bach-Siloti), è quasi sempre stilisticamente
più vicino al musicista trascrittore mostrando chiaramente quanto nella musica
classica sia stato (e sia) molto comune sentire come propria l’idea musicale di
un altro compositore.
Collage
La tecnica del ‘taglia e cuci’, già
ampiamente abusata nella sua versione ‘manuale’, è oggi di facilissima
attuazione grazie alla omonima modalità presente in qualsiasi calcolatore. Essa
consente di ‘selezionare’ l’area di un testo o di una composizione codificata
in formato Midi, oppure una qualsiasi porzione audio di un brano digitalizzato,
e di servirsene in qualsiasi contesto. Usando appositi programmi, inventati
inizialmente con finalità didattiche, è possibile fondere dati audio e Midi con
testi ed immagini, visualizzando e ascoltando ogni frammento come se si
trattasse di un ‘mattoncino’ o di una tessera di un puzzle, ricomponendo un
contesto originale di proprio gradimento. E’ facilmente immaginabile che con
tali software qualsiasi persona, anche se non musicista, può permettersi
di ‘creare’, a vari livelli, opere più o meno inedite. Come nota un attento
osservatore dei nuovi fenomeni musicali,
È importante precisare che la tecnica del
‘collage’ fu utilizzata, in versioni molto meno edulcorate, da quasi tutti i
compositori del filone della musica concreta. Naturalmente questi antesignani
delle odierne tecnologie realizzavano e trattavano le porzioni audio in modo
molto più sofisticato, ancorché distaccato dai desiderata del pubblico.
Scratching
I primi ad usare la tecnica dello scratch furono Hindemith e Toch nel
1930! Utilizzarono, naturalmente, vecchi dischi in vinile, e non la chiamarono
in questo modo (Cfr Aa. Vv., Konsequenz, n. 3-4). Lo scratching è stato definito da Michel
Chion come quella tecnica che consente di utilizzare «dischi di vinile e piatti
di grammofoni alla stregua di strumenti: si controlla il movimento del disco
manualmente e si creano così ‘tracciati’ sonori simili a zebrature, come tracce
pungenti» (M. Chion, Musica, media e
tecnologie, p. 119). Sarà utile aggiungere che oggi è possibile fare scratching anche al computer a partire
da formati compressi come Mp3, oppure utilizzando normali i compact disc con
uno speciale mixer inventato apposta per le discoteche ed i Dj.
Sketching
Zorn nelle sue composizioni usa il
termine ‘sketch’, ad esempio per
qualificare il suo brano Roadrunner
(Ed. Theatre of Musical Optics). Il termine definisce la prassi di far
susseguire velocissimi frammenti audio (‘schizzi’, appunto). Non tutte le
composizioni di Zorn sono costruite così, ma lo sono quelle che utilizzano le
tecniche del montaggio (che lui desume dal cinema). In sostanza, quella di Zorn
è l’estetica del collage. In un suo articolo sul cinema illustra la tecnica del
montaggio cinematografico che probabilmente è la stessa usata per costruire i
suoi pezzi , visto che tra gli esempi riportati nell’articolo compaiono gli
stessi rettangolini presenti nelle sue partiture. Per Zorn: «il montaggio crea
una serie di problemi (...) dove la materia dell’esperimento è costituita dal
tempo. Spesso il montatore non ha materiale sufficiente per creare un flusso
continuo ed è costretto a scegliere altrove immagini per conservare l’illusione
del tempo che passa a un ritmo regolare». E ancora: «all’aumento di velocità
segue la riduzione della capacità di attenzione. Se in precedenza sembravano
indispensabili blocchi di informazione di un minuto, ora bastano dieci
secondi». Come si vede, la velocità, il cambiamento, il flusso delle informazioni tra continuo e
discontinuo hanno un ruolo centrale nell’uso della tecnica dell’assemblaggio.
Sampling
Secondo Pamela Samuelson «le tecniche di
campionamento digitale permettono di ‘tagliare’ una registrazione sonora in
parti, le quali possono essere rimescolate e combinate con altre provenienti da
diverse registrazioni, producendo una nuova registrazione che non è più
riconoscibile come derivata dagli originali». Purtroppo, però, talvolta la cosa
non è così semplice, perché alcuni originali vengono dichiarati, magari a scopo
pubblicitario, e riconosciuti dagli attentissimi produttori e dalle major
discografiche...
Il sampling,
o campionamento, è una tecnica che può effettivamente consentire, grazie
all’uso dell’elettronica, la ‘cattura’ di qualsiasi suono da tracks di cd
preesistenti, la sua trasformazione in
un dato numerico visibile al computer, un evento digitale che può essere
utilizzato a piacimento, trattato, alterato, rivisitato fino a renderlo
irriconoscibile. I primi ‘campionatori’ erano macchine costose ed ingombranti,
che tuttavia permettevano di registrare i suoni, inserirli nella macchina e
modificarli nei loro parametri fondamentali (altezza, timbro, intensità,
durata). Il sistema del campionamento si diffuse alle tastiere, anche di tipo
economico. Oggi, finalmente, si può lavorare sul campionamento con computer di
basso costo, ma i risultati, la riconoscibilità dei campioni, la banalità o
l’originalità del risultato finale dipendono esclusivamente dalla creatività e
dall’abilità degli operatori.
Clearing
Il Tribunale Distrettuale
degli Stati Uniti emette il primo verdetto inerente al campionamento musicale
nel dicembre 1991, vietando al rapper Biz Markie di utilizzare nella canzone Alone Again inserita nell’album Need a Haircut (1991) alcune parti
campionate tratte dalla omonima Alone
Again (Naturally) di Gilbert O’Sullivan, un cantante noto negli anni
Settanta. L’album fu ritirato dal commercio, e ripubblicato privo di Alone Again. Il caso ebbe una notevole
risonanza anche per il fatto che dopo due anni Biz Markie diede al suo nuovo
lavoro il titolo provocatorio di All
Samples Creared. Da questo titolo nasce la pratica del ‘clearing’, che consiste nel dichiarare
ai legittimi detentori dei diritti d’autore tutti i campionamenti prelevati dai
loro brani (‘rubati’ dai compact disc grazie alle tecniche digitali oggi in
uso) versando un corrispettivo in cambio del loro utilizzo.
Wall of noise
E’ una raffinata tecnica del
collage sonoro, migliorata da Hank Schocklee, produttore dei Public Enemy
(Sandro Ludovico, “Campionare, l’arte di attingere ai suoni”).
Campionamento libero
Il gruppo dei De La Soul ha
dedicato uno spazio web dedicato ai campioni utilizzati nei loro dischi,
rispondendo alle faq degli utenti sul loro uso. Altro organismo nato per
contrastare il clearing e contestualmente favorire la libera utilizzazione dei
campioni, è l’associazione no profit “Musicians against copyrighting of
samples”. Uno dei suoi fondatori, il musicista Uwe Schmidt ha messo a
disposizione i suoi campioni allegandoli agli album (1992, Cloned: binary, in edizione limitata) (S. Ludovico).
Internet
Nelle musiche di libera utilizzazione
collegate a software di sviluppo di pagine Web, l’autore vende i brani
al produttore del software una sola volta, il quale ne liberalizza l’uso da parte
dell’utente in cambio dell’acquisto del programma. Assai interessante la
casistica relativa alle banche dati, per le quali si discute di libero utilizzo
(e pertanto di scappatoia dalle maglie del diritto d’autore, v. il paragrafo
sul copyleft) da parte dell’
‘assemblatore’. Su Internet sembrerebbero implicitamente autorizzati i download di frammenti di bassa qualità
audio, laddove l’Autore ne possa disporre e ne dia cautelativa informativa all’
ente di tutela.
Già da anni esistono programmi in grado
di rilevare casualmente la musica presente in rete consentendo collage sonori
più o meno automatizzati. Si va dall’evento live trasmesso via internet, alle
musichette Midi, dalle siglette dei telefonini
alla cattura dei suoni trasmessi dalle net-radio. Tutte musiche trattate
come veri e propri ‘oggetti sonori’, molto spesso non più riconducibili agli
autori originari.
Metacomposizione
Tecniche di metacomposizione vengono
utilizzate soprattutto in ambito colto. Tra gli autori spiccano il gruppo Timet
ed il suo leader
Le tipologie di plagio musicale sono
molteplici: può parlarsi di plagio tipico e atipico, involontario, stilistico e
imitativo, parziale, ritmico, autoriferito, artistico o attenuato, popolare. La
classe tipologica qualificata come plagio artistico o attenuato mira a mostrare
quale sia stata l’evoluzione della nozione dal punto di vista delle tecniche
musicali (negli studi classici di composizione la progressione storica coincide
con la progressione dell’apprendimento e la padronanza delle tecniche
compositive). Ogni categoria, naturalmente, non vuole essere esaustiva, si
qualifica come classe tipologica suscettibile di ulteriori articolazioni,
poiché spesso, nella realtà del caso specifico, ogni classe può mescolarsi o
integrarsi con le altre classi.
E’ necessario ribadire che la nozione
giuridica di plagio musicale va intesa in modo estensivo. Le tipologie
giuridiche, difatti, sconfinano in fenomeno estetico nella misura in cui
nell’evoluzione delle tecniche musicali si va via via facendo strada la
convinzione dell’ineluttabilità del ricorso a temi, ritmi, atmosfere mutuate da
opere di altri compositori. Tale consapevolezza, come si è già accennato nel
delineare il percorso storico della nozione di plagio, assume in ogni epoca
importanti differenze prospettiche, che vanno dal divertito omaggio ai grandi
autori del passato alle furibonde accuse di vero e proprio furto di idee. Dire
che la nozione giuridica sconfina in quella estetica significa che la vecchia
definizione di plagio deve per forza di cosa tener conto delle acquisizioni che
si sono accumulate nel tempo, nella storia delle opere, e nel tenerne conto
deve uscirne ampliata, non nel senso di aggiungere nuove tipologie, ma in
quello costitutivo di modifica della stessa percezione giuridica del termine
plagio.
Per queste ragioni, non avrebbe avuto
senso procedere ad un elenco delle tipologie di plagio se non precisando
chiaramente che se da un lato si sta cercando di ‘incasellare’ e definire casi
noti o poco noti, dall’altro si sta cercando di mostrare come sia già insita
nel gesto compositivo, e data quasi per scontata nell’uso pratico delle
tecniche, una modalità di uso dell’altro,
e del rinvio all’altro, in cui appare
legittima l’appropriazione creativa di frammenti altrui. Tali frammenti vengono
considerati dal compositore alla stregua di materiali oggettivi (escludendo
pertanto i casi di malafede).
A questa esigenza di chiarezza risponde
la necessità di ipotizzare tra le classi anche quelle di plagio attenuato,
artistico e popolare, che seguono un criterio di natura estetica più che di
natura giuridica.
Quello che è in gioco, preme
sottolinearlo, non è una mera questione musicologica, ma alcune importanti
acquisizioni etiche: impossibilità di opere che possano considerarsi
completamente ‘pure’; ineluttabilità della contaminazione dei linguaggi;
importanza di questa contaminazione per l’avvicendamento delle forme e
l’arricchimento delle culture. Due visioni del mondo evidentemente opposte:
quella lineare, che respingiamo; quella che declina dalla linea, che
accogliamo, perché non escludente a priori la possibilità di scatti in avanti
dovuti ad una originalità che potrebbe dirsi ‘causata’.
Plagio
tipico
Ipotesi di scuola, definisce la casistica
tipo che può inquadrare il fenomeno dal punto di vista giuridico. Se «una
persona si appropria degli elementi rappresentativi e creativi di un’opera per
introdurli in un’altra opera sotto il proprio nome, ci troviamo in presenza di
un ‘plagio’, cioè di una contraffazione qualificata e aggravata, ossia di una
riproduzione abusiva di un’opera altrui con appropriazione di paternità» (l.
633/1941). Per legge, tuttavia, l’opera simile all’originale, per essere
realmente definita plagio, deve suscitare nell’ascoltatore le stesse emozioni
evocate dall’originale. Assecondando questa definizione, potrebbero sussistere
senza incorrere nel plagio alcuni tipi di utilizzazione di tipo
‘citazionistico’, perché i frammenti usati, ad esempio, negli sketching di Zorn non hanno più nulla in
comune con i brani iniziali.
Plagio
atipico diretto e indiretto
Sono atipici tutti quei casi che non rientrano nella
definizione ‘di scuola’.
Con rilievo al profilo della titolarità
del plagio, se un terzo plagia l’opera da una sorgente per conto dell’autore
plagiante che si assumerà la titolarità dell’opera, si ha plagio atipico
diretto. Se un terzo plagia l’opera a nome di un compositore ignaro si ha
invece plagio atipico indiretto (riferito alla figura del compositore ignaro) o
falso d’autore (riferito alla figura del terzo, reale autore del plagio).
Se uno studioso (o l’opinione comune)
attribuisce l’opera ad un compositore che non ne è autore si ha plagio atipico
o errore di attribuzione (la modalità ha rilievo per il fatto che nella pratica
da concerto molte opere continuano ad essere eseguite con la falsa titolarità,
attraverso la dizione ‘attribuita a...”). Se il plagio atipico viene ricondotto
con certezza ad un terzo che volontariamente lo pone in essere a fine di lucro
si è in presenza di una truffa (plagio atipico indiretto è quello del Requiem
di Mozart, nelle parti completate dagli allievi su commissione della moglie, a
danno di un committente il quale a sua volta intendeva assumere la paternità
del Requiem - plagio tipico) o di uno scherzo (celebre in campo artistico il caso
dei falsi Modigliani).
Si ha ancora plagio atipico nel caso in
cui un compositore affidi ad un ghost
writer la propria opera affinché questi la completi a pagamento (celebre e
molto discusso il caso di Giacinto Scelsi, che però consegnava ad alcuni trascrittori
dei supporti magnetici di sue improvvisazioni: il plagio avrà rilievo solo nel
caso in cui possano essere documentate porzioni estese della composizione non
concepite dal committente).
Plagio
involontario
Tipologia squisitamente giuridica che
inquadra il caso di similitudine fortuita o casuale. Apre una serie di problemi
giuridici tra creatori di opera indipendenti
Plagio
stilistico e imitativo
La diffusione di trattati di
orchestrazione e analisi consentono oggi perfino agli studenti dei corsi di composizione
di poter scrivere à la manière de...,
formula usata dagli autori per esplicitare un rifacimento stilistico. Molti
sono gli esempi di plagio di stile, esplicito o implicito, da Ravel che si
rivolge a Couperin, a Debussy che ne La
Cathédrale engloutie si appropria della tecnica della sospensione accordale
usata quattro anni prima da Satie in un Corale,
fino a Rossini che nel Petite Caprice
per pianoforte fa il verso ad Offenbach, con uno sberleffo aggiuntivo: usa solo
indice e mignolo della mano destra, nel gesto dello scongiuro, perché pare che
Offenbach portasse male...
Il plagio imitativo è ‘esplicito’ nelle
composizioni accademiche; ‘implicito’ nelle composizioni di corrente, ad
esempio in alcune opere della scuola seriale; ‘attivo’ quando l’imitazione
stilistica procede da consapevole volontà di attribuirsi un vantaggio economico
o un vantaggio intangibile; ‘passivo’ se ci si limita a subire l’influenza di
un caposcuola o di un autore che si è molto amato (ad esempio il caso di
Sakamoto che da giovane, dopo aver molto ascoltato e amato il Terzo concerto
per pianoforte e orchestra di Beethoven scrisse un brano di natura didattica
del tutto simile a quello di Beethoven).
Si ha plagio imitativo cinematografico
quando nella musica da film si usano alcuni codici per suscitare reazioni
convenzionali nel pubblico, una specie di codice inconscio: un collage di
queste tipologie è raccolto in un celebre prontuario, l’Allgemeines Handbuch der Filmmusik di Becce-Erdmann-Brav,
pubblicato a Berlino nel 1927. Basta comunque ascoltare la musica da film di un
compositore come Sakamoto per rintracciare decine di citazioni stilistiche o
tematiche. In Little Buddha un tema
simile a quello del Dies irae viene
orchestrato alla maniera della Pavane
pour une enfante défunte di Ravel. Molti ritmi di El mar Mediterrani riportano al Sacre
di Stravinskij o ad opere di Bartòk, e via di seguito...
Il plagio imitativo da spot
ricorre nel caso dello jingle-maker che costruisce musiche per la
pubblicità, e si adatta camaleonticamente a rifare Springsteen e Bach
nell’ottica mobile dell’estetica del plagio..
Plagio
parziale
Può riguardare una successione armonica
inusuale ma identica a quella di un altro autore nella sequenza accordale,
nelle posizioni e nei legami armonici. O solo una parte del tema di una
composizione, intendendo per tema la frase compiuta che identifica il brano di
provenienza. Plagio parziale può essere quello del controsoggetto o tema
secondario o seconda voce della composizione. Infine può essere quello che riprende
la tipicità di un timbro orchestrale, laddove questo sia palesemente ‘rubato’
da un brano preesistente.
Plagio ritmico. Laddove la ritmica sia
identificativa di una composizione, essendo il ritmo la caratteristica
musicale che per prima consente l’dentificazione
del pezzo, quella cioè che dal punto di vista psicoacustico risulta essere
individuata dal fruitore molto prima dell’assorbimento di parti tematiche,
timbriche o armoniche, sarà possibile parlare anche di plagio ritmico.
Esperimento: una famosa mazurca di Chopin suonata con altezze differenti e resa
politonale verrà individuata egualmente da un musicista esperto. Il famoso tema
beethoveniano del destino che bussa alla porta verrà allo stesso modo
riconosciuto da ascoltatori non musicisti anche con altezze dei suoni alterate.
Sembrerebbe sorgere un problema teorico: nei brani di musica cosiddetta ‘pop’
le ritmiche vengono ripetute o considerate di pubblico dominio anche grazie
alla loro divulgazione in appositi cd ed a programmi che ne rendono possibile
la libera utilizzazione. Tuttavia, laddove un ritmo risulti riconoscibile per
alcune caratteristiche tipiche si parlerà di plagio ritmico anche in caso di
differente velocità di esecuzione? Ragionando per similitudine, se un ritmo di
origine classica (danze e balli) viene usato tranquillamente senza incorrere in
plagio, anche altri ritmi semplici o a cadenza regolare dovranno considerarsi
di patrimonio comune, prescindendo dalla velocità di esecuzione. Invece, ritmi
complessi o irregolari (si pensi ad alcune composizioni contemporanee o a
quelle di Stravinskij) verranno generalmente ritenuti plagi ritmici, sempre a
prescindere dalla loro velocità d’esecuzione. L’uso e la permutazione ritmica
viene generalmente considerata lecita dai compositori. Gli studi
etnomusicologici sul gamelan di Giava e Bali, e più in generale tutte le
polimetrie arcaiche sono stati saccheggiati da quanti ne hanno tratto cellule
da impiegare con procedimenti di inversione, retrogradazione, aggravamento,
etc. In linea di principio non si comprende per quale ragione il plagio di un
ritmo debba essere considerato meno riprovevole di quello di un tema o di una
successione armonica. Per quale ragione, cioè, la componente ritmica, che pur
individua per prima la specificità di un brano, possa essere considerata più
‘oggettiva’ della componente ‘melodica’ e quindi trattata come un materiale
liberamente utilizzabile...
Autoplagio
o plagio autoriferito
L’autoplagio è una categoria intermedia
tra quelle di derivazione giuridica e quelle di derivazione estetica. Difatti,
un compositore può plagiare se stesso per motivi contingenti - laddove non
riuscendo a soddisfare una commissione si trovi costretto a riproporre un
lavoro precedentemente composto - o per motivi artistici - laddove l’utilizzo
di un tema o di una parte della fonte originaria scaturisca da esigenze
esclusivamente creative. L’autoplagio può consistere in una autocitazione (di
un tema proprio o di parte di un’opera precedente); in una trascrizione da
catalogo proprio; in un rifacimento
(assemblaggio da parte dell’autore di parti o interi movimenti tratti da
opere precedenti o addirittura parziale riscrittura di opere complete); può
ridursi ad autorevisione (celebre il caso dell’Otello di Rossini) o ad una semplificazione di precedenti lavori a
fini didattici o strumentali; può spiegarsi come lavoro svolto nel tempo, e
intendersi come versione successiva e stratificata nel tempo (con importanti
cambiamenti) del medesimo lavoro (si pensi alle molteplici versioni delle
mazurche di Chopin o dei preludi di Gershwin).
Di tale casistica si è anche occupata la
giurisprudenza, laddove l’autore risulta vincolato da un contratto di edizione
che gli impedisca di riprodurre, anche parzialmente, l’opera, o di produrne e
metterne in commercio una simile. Si parla, in tal caso, di ‘plagio di se
stesso’ (cfr. Marco Fabiani, “Il plagio di se stesso”), caso che potrebbe
ricorrere anche al di fuori della tipologia del contratto di edizione (nel caso
di diritti di esecuzione o di registrazione di opera musicale). Si propende a
cercare un bilanciamento tra la libertà dell’Autore di ricorrere ad espressioni
stilistiche che lo caratterizzano (in caso contrario molti brani di Glass
sarebbero da annoverarsi nella categoria dell’autoplagio!) e l’esigenza di
buona fede richiesta dal codice civile e dalla correttezza dei comportamenti di
chi si pone sul mercato.
Plagio
artistico
Il plagio artistico è insito nelle
tecniche e prassi compositive tipiche della musica classica, che come si è
visto procede da un tema o da una cellula allo sviluppo della forma musicale
prescelta. Si è dimostrato che nella musica colta è piuttosto frequente
comporre un brano su tema altrui, oppure autocitare frammenti della propria
opera in altre composizioni, o trascrivere lo stesso pezzo per uno strumento
diverso dall’originario. Dall’espediente della ‘variazione’ (su/da tema altrui)
ha forse origine il senso di liceità che accompagna il compositore quando si
serve di idee altrui: un tema interessante poteva in un primo momento essere
ripreso solo occasionalmente dagli esecutori, poi essere elaborato, abbellito,
infiorettato, come era antica prassi comune, adattandolo alle possibilità
offerte da strumenti diversi e piegandolo alle possibilità improvvisative degli
esecutori solistici. Si comprende, dunque, come già una semplice ‘trascrizione’
fosse una rudimentale forma di contaminazione tra l’originale d’autore e la sua
rielaborazione più o meno variata compiuta da un altro musicista. Si può
ipotizzare che queste ‘rielaborazioni’ diventassero ‘trascrizioni’, poi vere e
proprie ‘reinvenzioni’ nella misura in cui maggiormente si allontanavano
dall’originale, ed infine plagi (atipici ) quando il nome del primo autore
scompariva del tutto.
Il plagio artistico, che è quindi un
plagio attenuato dal punto di vista giuridico, perché solitamente non si
accompagna ad una malafede ma, al contrario, alla sensazione di utilizzare un
materiale oggettivo, a disposizione del sentire comune, può essere di vari
tipi. Può trattarsi di una citazione: viene riportata in una propria opera un
frammento dell’opera di un altro compositore. Può essere una citazione in bella
evidenza quando assume la formula di un omaggio esplicito alla sorgente oppure
può essere una citazione mascherata quando attraverso piccole modifiche chi
plagia cerca di ottenere un effetto del tutto simile a quello della pezzo
originale, che non viene dichiarato. In epoca successiva si sviluppò la forma
della parafrasi. Si ‘trascrive’ da una composizione per orchestra o si creano
‘parafrasi’ pianistiche dai brani d’opera, poi se ne fanno musiche differenti,
vere e proprie reinvenzioni. E’ interessante, a questo proposito, segnalare che
la Siae ha solo di recente risolto il problema della ‘trascrizione’ di opera di
pubblico dominio, e non ha ancora risolto quello dell’opera trascritta da
autore vivente o morto da meno di settant’anni.
Le tecniche odierne, già illustrate,
utilizzano la digitalizzazione del suono, vale a dire la sua trasformazione in
un parametro numerico, che davvero può considerarsi con facilità un ‘materiale
oggettivo’, fatto proprio da chi mostri competenza nel raccoglierlo e
alterarlo. Le tecniche sono quelle già
citate del sampling o campionamento,
dello sketching (fusione/confusione
creativa di frammenti altrui), del clearing
o del prestito dichiarato, nel caso già descritto del campionamento in cui pur
utilizzando frammenti o campioni di suoni tratti altrove, se ne dichiara la
sorgente corrispondendo i relativi diritti.
Plagio
popolare
Un lasciapassare al plagio è sempre stato
costituito dalla musica popolare. Molti compositori si sono rivolti ai
repertori tradizionali (considerati di
pubblico dominio) per trattarli liberamente. Da Liszt e Brahms fino alle scuole
popolari, con in cima Béla Bartòk e Zoltan Kodàly, a volte con intenti perfino
filologici, i musicisti classici hanno permutato modi e temi folclorici o noti
trasferendoli in forme colte. Mahler riprende Fra’ Martino, la trasporta, la trasforma in re minore e la
inserisce nel terzo movimento della sua Prima
Sinfonia. Ma ‘popolare’ non va confuso con ‘popular’. Il termine ‘popular’
ha infatti una più vasta accezione. La migliore definizione è quella data da
Richard Middleton, e riassunta da Franco Fabbri. Comprende la canzone, il pop,
il rock, la musica da cinema, della televisione, della pubblicità e «gli altri
generi che insieme formano il campo musicale definito ‘popular’ dagli
anglosassoni». Quindi, ‘popular’ è termine molto vicino all’ambito che
interessa la produzione contemporanea contaminata.
Il termine ‘popolare’ va invece riferito
in modo più circostanziato alla produzione legata al folclore locale,
all’etnico in senso stretto. Può usarsi ‘popolare’ anche nel caso di produzioni
provenienti da segmenti sociali identificati con la massa (!). Il passo tra popolare
e ‘populista’, in quest’ultimo caso, è quantomai breve: la musica da discoteca,
la leggera più commerciale, non sono generi autenticamente ‘popolari’, perché
discriminano in partenza i gusti della gente, dando per scontato che la massa
non possa interessarsi di musiche differenti da quelle a loro prossime. In
questa accezione, la musica extra-light non è nemmeno ‘popular’
(tranne che in alcuni casi, in cui si effettua realmente una contaminazione),
ma è spesso ‘populistica’. Sovente i compositori, di ogni provenienza, si sono
appropriati di temi e motivi ‘popolari’ in senso proprio, magari soltanto
ipotizzando che lo fossero. Al punto che alcuni temi, diventati talmente famosi
da essere considerati ‘popolari’, hanno perso la loro stretta riferibilità ad un
autore specifico, e sono stati trattati come vero patrimonio comune.
Nascita
della nozione di autore
Contrariamente a quanto si ritiene
comunemente, la nozione di Diritto d’autore fu introdotta fin dal Settecento,
visto che il primo atto di copyright viene varato nel
Bach versus hacker ? Novecento
che riproduce un sentire del Settecento, con antiche idee che ritornano? In
effetti questa analogia è molto vicina alla realtà delle cose e del sentire:
per farsene una ragione si può consultare il libro di Pekka Himanen sull’etica
hacker, che non a caso comincia proprio con l’ analisi dell’etica protestante
del lavoro, e con la similitudine tra sistema monastico e sistema
autoritaristico. Nel tentare un
parallelo tra quanto accade da secoli nel mondo musicale e l’attuale evoluzione
nel mondo della ricerca elettronica, va tenuta presente una distinzione
importantissima: quella tra free software
(libero utilizzo senza limiti) e open
source (in cui è obbligatorio citare la fonte di ogni miglioramento dei software).
Entrambi i modelli sono a struttura aperta, e contrastano con le strutture
chiuse di tipo aziendale-economicistico. Per il modello open source, diversamente da quel che si pensa, il plagio è
riprovevole, ed il rilascio di diritti si intende assolto a due condizioni:
«che quegli stessi diritti devono essere trasmessi quando viene condivisa la
soluzione originale o la sua versione perfezionata, e chi vi ha contribuito
deve essere sempre citato ogni volta che una delle versioni viene condivisa»
(P. Himanen).
Le
utilizzazioni plurime
La Società italiana per la tutela dei
diritti d’autore ritiene che le nuove tecnologie conducano a differenti tipi di
“utilizzazione” dell’opera, e che tali utilizzazioni plurime possano e debbano
essere egualmente tutelate, attraverso marcatori come Mmp, che consente la
marcatura in filigrana, il watermark,
attraverso algoritmi di cifratura. Numerosi gli altri standard Secure
Digital Music Initiative. Le operazioni indicate da Mario Fabiani come
riconducibili ad una utilizzazione plurima di tipo diverso da quello
tradizionale sono l’Uploading (si
immette l’opera in rete), il Browsing
utente (altri utenti accedono all’opera), il Client caching (consultazione dell’opera in rete), la registrazione
dell’opera sul proprio computer, la riproduzione (attraverso i vari formati di
compressione, Mp3, Real Audio, ed altri formati derivati o evoluti), e la
trasmissione dell’opera ad un pubblico indeterminato.
Dal nostro punto di vista non sembra
tuttavia che la ‘consultazione’ di un’opera, ad esempio, con qualità inferiore
dovuta alla compressione oppure ad una resa ‘mono’ (privando il brano della sua
efficacia stereofonica), possa essere considerata una ‘utilizzazione’. Altrimenti
tutti i negozi di dischi, nel proporre
una titletrack al compratore dovrebbero pagare diritti di utilizzazione.
E analogamente perfino i giornalai nell’esporre riviste alla consultazione per
l’offerta di acquisto, dovrebbero pagare dei diritti per la ‘consultazione’!
Altro punto discusso della normativa è la
possibilità concessa agli acquirenti di CD di trarne almeno una copia per un
uso differente, ad esempio per ascoltare una compilation in auto, purché tale copia sia dotata di un codice che
ne impedisce una ulteriore duplicazione. Ne esistono molti tipi differenti, il
più conosciuto è il Serial Copy
Management System. Alcuni sistemi di protezione digitale oggi adottati in
prova per certi prodotti discografici impediscono anche tale copia, limitando la
libertà di utilizzazione dell’acquirente ed inibendone il diritto di conservare
in perfetto stato l’originale, e il diritto di ascoltarne solo una porzione,
considerando la natura non unitaria del ‘prodotto cd’ (formato da differenti
tracce, spesso molto differenti). Si ricorda che per motivi simili (differenti
funzionalità implementate nel sistema operativo Microsoft Explorer) sono state
intentate molteplici cause contro Bill Gates.
Qualcosa in più di una ipotesi è la
possibilità di una protezione ‘attiva’ dei materiali musicali presenti in rete.
Attraverso un virus immesso illegalmente in file musicali, alcune major
sabotano i sistemi peer-to-peer (vale a dire quei programmi e siti che
consentono lo scambio di file). L’utente crede di ‘scaricare’ un file musicale
e si ritrova invece con un “MediaDecoy”, cioè con una sorta di ‘cavallo di
troia’ che danneggia l’hard disc del computer. Altre proposte restrittive
arrivano dagli Stati Uniti, dove diciannove membri del congresso hanno chiesto
al segretario della giustizia John Aschcroft di rendere reato il semplice atto
di ‘scaricare musica’ dalla rete. Non a caso la proposta ha tra i suoi
firmatari alcuni esponenti dell’aria liberal. Iniziative del genere non
colpiscono di certo la vera pirateria (che consiste nel duplicare centinaia e
migliaia di copie contraffatte di interi dischi, creando un mercato parallelo
ed illegale) e finisce invece con il limitare la libera circolazione delle idee
e dei materiali. Ogni sistema di protezione digitale, infatti, viene tranquillamente
aggirato dai ‘veri’ pirati semplicemente fabbricando una nuova copia digitale,
attraverso le uscite analogiche di qualsiasi lettore cd. Dalla nuova copia i
contraffattori riproducono digitalmente ed in tutta tranquillità la quantità di
dischi desiderata.
Il problema della pirateria è collegato a
quello del plagio musicale laddove si vada a colpire la libera circolazione di
musiche in rete. Sarebbe come dire che Haendel, Bach e Mozart non avrebbero
dovuto memorizzare temi altrui ed arricchire conseguentemente la propria opera
e la storia della musica di capolavori. E che magari, per impedire questa
assimilazione, fosse stato proibito l’ascolto di nuove opere nei teatri e nei
salotti! L’argomentazione, esasperata e paradossale, mostra tuttavia abbastanza
efficacemente l’effetto di limiti imposti alla circolazione delle musiche per
scopi di conoscenza e studio. Ed implicitamente di assimilazione,
rielaborazione, campionamento, metacomposizione, ...
Plagio
e riproducibilità
La possibilità di replicare “enne” volte
un’opera musicale attraverso dischi, video, e così via, la espone al rischio di
manipolazione delle masse da parte dell’industria culturale. Ma d’altro lato
tale replicazione può servire ad introdurre attraverso l’opera temi rivoluzionari
nella politica culturale. Quest’intuizione di Benjamin lo rende il più lucido
dei francofortesi. La tecnica della riproduzione, scrive Benjamin, «pone al
posto di un evento unico una serie quantitativa d’eventi». Al di là delle
implicazioni storiche ed estetiche, la novità della riproducibilità è che in
ultima istanza non si può più eludere il confronto col pubblico «degli
acquirenti che costituiscono il mercato». Ciò, indubbiamente, cambia il
rapporto tra artisti, opere e massa. Definite infatti certe costanti come di
sicuro successo, la tentazione forte è quella di cedere al fascino del già
detto, dell’autocitazione, della fabbricazione di canzoni, brani, video fatti ad hoc, cioè pensando esclusivamente
alle esigenze dell’industria culturale. Tecnicamente è piuttosto semplice
ricreare le atmosfere o riutilizzare certe suggestioni armoniche oppure
‘arrangiamenti’ simili per ottenere un effetto di ‘trascinamento’ sulla scorta
di un successo da hit. Tale prassi, però, espone l’autore ad un logoramento ed
uno svuotamento che alla lunga gli sono fatali. La prassi della ‘citazione’ o
del rifacimento (da un mambo, dalla colonna sonora di un film di successo,
etc.) è tale che essa va raccolta per quello che è, senza escludere a priori
che una qualità estetica, un valore, possa comunque esservi contenuta.
Alle epoche della duplicazione e della
riproduzione sembra ora seguire l’era della ‘replicazione’. Le musiche sono
simili ai replicanti di Blade Runner: benché clonate paiono vivere come corpi
separati in rete, come se fossero dotate di vita propria.
Pregiudizio
d’autore e plagiarismo
Il plagio dispone a piacimento i confini
di appartenenza: distingue tra proprio e altrui solo per abbattere questa
frontiera, e stabilire un terreno condiviso. Ogni luogo in comune allarga i
propri confini originari, perché sopravanza quelli contigui. Le incursioni
pirata negli standards predisposti dall’ ‘autore’ sono già la ricchezza e la
bellezza del prodotto ipermediale. Queste ‘varianti’ dell’originale verranno
anzi richieste, perché nella variazione e nella velocità aforistica della
successione di immagini diverse vi è una via d’uscita dalla noia per il già
ascoltato. Un’opera ‘idra’ potrebbe crearsi utilizzando la rete, e abdicando
alla propria paternità d’autore, come già si fa attraverso esperimenti
letterari. Ed in effetti, su quest’ipotesi lanciata in modo teorico diversi
anni fa, oggi è possibile rintracciare molteplici movimenti ed artisti che
utilizzando la tecnologia finalmente disponibile (e felicemente massificata)
stanno procedendo a rendere evidente il fenomeno del plagio. È nato addirittura
un “movimento plagiarista” che fa capo a John Oswald, conosciuto anche al
grosso pubblico per aver composto Spectre,
cavallo di battaglia del Kronos Quartet inserito anche nel cd del ‘93
intitolato “Short Stories” (i quattro archi fingono inizialmente di
‘accordarsi’ su di un bordone, quasi cercando il suono unico caro a Giacinto
Scelsi). Oswald è l’inventore della ‘plunderfonia’, definita come «tecnica e
filosofia dell’appropriazione» ovverossia dell’uso del campionatore e della
tecnica del montaggio con finalità creative. Le fonti di Oswald sono
eterogenee: da Beethoven e Liszt fino ai Beatles, attraversando il jazz. Il
compositore canadese è diventato notissimo nell’ambito della musica
sperimentale dopo aver prodotto nel 1989 un cd in soli mille esemplari
intitolato proprio “Plunderphonic” sulla cui copertina campeggia un’immagine
rimaneggiata di Michael Jackson. L’etichetta di Jackson, la CBS, ne chiese
naturalmente subito il ritiro, scatenando la circolazione clandestina di
cassette e provocando un effetto boomerang di notorietà intorno al lavoro di
Oswald (V. Barone, in No@copyright).
Come si può dedurre dalla lettura della sua biografia, reperibile facilmente in
rete, l’atteggiamento semiserio e satirico del canadese ne fanno un personaggio
certamente interessante, la cui produzione è tuttavia ancora considerata ‘di
nicchia’.
L’altro aspetto del plagiarismo è
l’invito a produrre in modo anonimo, rinunciando al pregiudizio di proprietà
apposto dall’autore, alla paternità dell’opera, oppure liberalizzandone l’uso.
Qui, ancora una volta, la musica presenta molteplici aspetti in comune con le
tematiche dell’hackerismo. È il caso, ad
esempio, del Luther Blissett Project, formato da musicisti che in questo ambito
mantengono l’anonimato sul loro apporto ai progetti musicali (come del resto
accade anche per gli altri tronconi ‘made in Blissett’), che può essere
definito come un situazionismo musicale, prevalentemente divulgato via internet
nel formato di compressione Mp3. Il gruppo si colloca in ambito dance,
elettronica, sperimentale e si dichiara vicino all’operato di Darko Maver,
Evolution Control Committee, John Oswald, dei Negativland.
Tra
questi musicisti, l’operato di Darko Maver (Krupanj, Slovenia) lo posiziona
subito nelle pieghe della musica sperimentale e politica, rendendolo un
riferimento obbligato. L’eclettico artista assume via via parecchi soprannomi,
tra cui quelli di “Trax
Tra gli italiani seguaci del movimento
plagiarista e della filosofia ‘plunderphonica’ di John Oswald c’è Giustino Di
Gregorio, conosciuto nel ‘95 con lo pseudonimo ‘sprut’, che ha pubblicato per
l’etichetta di Zorn, la Tzadik, un disco intitolato sempre “Sprut”. Tra i gruppi, invece, vicini
all’anonimato predicato dal Luther Blissett Project sono i FerrariStationWagon.
Copyleft
La linea teorica che ispira il movimento
plagiarista ha alcuni tratti in comune con quella che proviene da
BenjaminTucker. Partendo da presupposti anarchici, cioè libertari ed
antistatalistici, Tucker ipotizza che se
la proprietà privata fosse stata godibile da più persone contemporaneamente,
essa non sarebbe esistita in quanto tale, ma sarebbe stata percepita come senza
alcun problema cosa in ‘comune’. Poiché nel caso di oggetti materiali ciò non
era evidentemente possibile, fu instaurato un regime convenzionale di regole
che difendessero la proprietà ed il suo godimento nella pienezza del possesso.
Questo tipo di argomentazione (la consistenza oggettiva delle cose) non
garantisce egualmente la proprietà sull’opera d’ingegno e sull’opera d’arte.
Difatti queste ultime sono tranquillamente fungibili da più persone
contemporaneamente senza danno per alcuno. Il regime del diritto d’autore,
concepito a soli fini economici (tanto è vero che è un regime a durata
limitata), finisce così per impedire la libera concorrenza. Il copyright
si trasforma in un vincolo capace di impedire la libera circolazione delle idee
ed il loro miglioramento a fini di pubblica utilizzazione.
La tesi di Tucker, affascinante, non
impedisce tuttavia di rilevare che un regime completamente libertario finirebbe
col favorire la scomparsa del professionismo musicale, cosa auspicata da Fluxus
e da alcuni suoi esponenti come altamente liberatoria, i cui esiti sarebbero tuttavia da verificare
(una nuova capillare diffusione della musica, oppure una rinnovata barbarie in
cui prevale soltanto l’aspetto più ‘divulgativo’ della ricerca e della
produzione?).
Per tornare allo specifico del plagio,
ulteriori argomentazioni teoriche a favore della liberalizzazione del diritto di
utilizzo dei materiali, principio senza il quale verrebbe a mancare una
spiegazione convicente del fenomeno, sono sia filosofiche che tecniche e
giuridiche. Joost Smiers riporta l’opinione di Jacques Soulillou secondo il
quale «“La ragione per la quale è difficile produrre la prova di plagio nel
campo dell’arte e della letteratura sta nel fatto che non basta soltanto
dimostrare che B si è inspirato ad A, senza citare eventualmente le sue fonti,
ma bisogna anche provare che A non si è ispirato a nessuno. Il plagio suppone
infatti che la regressione di B verso A si esaurisca lì, perché si arrivasse a
dimostrare che A si è inspirato, e per così dire ha plagiato un X che
cronologicamente lo precede, la denuncia di A ne risulterebbe indebolita”».
Smiers continua immaginando un caso tipico di plagio: «Immaginiamo che una
persona copi il lavoro di un altro artista, asserisca che è suo e lo firmi. Se
non c’è né rielaborazione, né commento culturale, né aggiunta, né traccia di
creatività, si tratta evidentemente di un vero e proprio furto che merita di
essere sanzionato. A questo punto, l’obiettivo dovrebbe essere la creazione di
un nuovo sistema che garantisca agli artisti dei paesi occidentali e del terzo
mondo redditi migliori, che si apra in modo ampio a un dibattito pubblico sul
valore della creazione artistica, che si preoccupi del miglioramento del
livello culturale del pubblico, che spezzi il monopolio delle industrie della
cultura, le quali vivono sul sistema dei diritti d’autore».
Dal punto di vista delle tecniche
musicali, il problema del plagio potrebbe in fondo essere risolto abbastanza
facilmente; basterebbe infatti compilare una sorta di ‘prontuario’ che
utilizzando gli strumenti messi a disposizione dalle più evolute teorie
d’analisi musicali consenta di individuare i cosiddetti ‘materiali oggettivi’
(e ‘comuni’) e di discriminare tra plagio tipico e artistico.
Come abbiamo visto, l’evoluzione dello
stile, delle forme e dei generi musicali, se guardata al microscopio con gli
strumenti dell’analisi, rivela una infinità di concordanze sospette, tanto da
farci pensare che sia possibile individuare alcuni tratti e procedimenti comuni
nell’uso delle melodie e delle armonie. Queste formule vengono sentite come un
essere-in-comune, al quale accedere liberamente. Il problema giuridico potrebbe
essere risolto proprio facendo ricorso al prontuario delle ‘figure musicali
ripetute’, che apparterrebbero a tutti. L’elenco andrebbe a costituirsi,
quindi, come termine di comparazione oggettiva.
Un contributo fondamentale e di indirizzo
ad un eventuale lavoro del genere è stato offerto dai ricercatori della
Stanford University che hanno pubblicato per il MIT un ponderoso studio sulle
cosiddette “similarità melodiche”. Molte altre forme e figure vengono poi già
considerate ‘libere’ da secoli, e cioè quelle che diventano modi identificativi
di un genere o di una scuola, il Basso Albertino, il “Sospiro di Mannheim”
(Diciottesimo secolo); e ancora: salti tematici frequenti (che individuano tipi
di armonizzazione melodica); modulazioni convenzionali; imitazioni e progressioni di scuola; formule
cadenzali ...
Altre vie di fuga per un diritto di
libera utilizzazione si creano grazie ad alcuni vuoti legislativi, oppure a
causa di alcuni casi fortuiti che nascono dal rapporto tra diritti, laddove sia
possibile gerarchizzarli. Alcune figure giuridiche che non individuano
violazione ricorrono in caso di plagio involontario, quando quest’ultimo
riguarda elementi tecnici dell’opera (passaggi obbligati) oppure elementi che
appartengono al patrimonio intellettuale comune. Altro aspetto giuridico che
offre una possibilità di libero utilizzo di frammenti musicali è di tipo
squisitamente tecnico, e consiste nella protezione della proprietà
intellettuale. Quest’ultima, a fronte di alcune direttive comunitarie sulla
creazione e tutela di banche dati elettroniche non sembra potersi esaurire
nell’ambito del diritto d’autore: «l’impressione che si ottiene scorrendo la
direttiva è che la matrice concettuale originaria, che fa leva sul carattere
reale della proprietà intellettuale, abbia definitivamente abdicato in favore
di regole che si rifanno direttamente alla disciplina della concorrenza, dove
rileva in via diretta la tutela dell’impresa ovvero dell’investimento economico
realizzato in vista della produzione di beni o servizi» (F. Macario).
Basterebbe estendere tale concetto, spogliarlo del carattere economicistico e
rivestirlo di quello della gratuità per ottenere il libero veicolarsi delle
informazioni, almeno di quelle in abstract
o indicizzate.
Infine, la tecnica del campionamento (ed
in generale tutte le nuove tecniche sorte grazie allo sviluppo dei mezzi
elettronici) potrebbe offrire una ulteriore possibilità di liberalizzare i
diritti collegati all’opera musicale, purché gli utilizzatori a fini creativi
si dimostrino disponibili a rinunciare a parte della qualità audio (e
generalmente lo sono, perché comunque i frammenti audio vengono poi
generalmente resi irriconoscibili). Infatti, nel campionamento l’ampiezza del
segnale, raccolta da un microfono, viene prelevata a determinati intervalli di
tempo. Meno frequente è il ‘prelievo’, peggiore sarà la qualità del suono
campionato. E’ del tutto evidente che sia i suoni a bassa qualità di
campionamento che le musiche compresse attraverso algoritmi potrebbero
sottostare a un regime giuridico differente, di maggiore libertà di utilizzo,
in ragione della loro scarsa qualità. Si potrebbe arrivare a concepire un
sistema misto, laddove per ragioni promozionali un autore o una casa
discografica desiderassero promozionare un brano o una compilation, rendendo possibile l’uso e l’accesso a frammenti in piena disponibilità di quanti vogliano
manipolarli in modo creativo. Potrebbe essere un compromesso ragionevole, una
soluzione al problema della pirateria ‘creativa’ e la naturale evoluzione del
fenomeno del ‘plagio’.
[1]È noto che, come spesso accade nella
storia della musica e in quella della cultura universale, non fu Schönberg il
vero inventore della dodecafonia, anche se fu il primo ad appropriarsene con la
forza del caposcuola e dell’esteta. Già Busoni nel 1906 anticipava certi
procedimenti dodecafonici; nel 1908 Joseph Mathias Hauer concepiva stilemi
dodecafonici e ne dava una formulazione nel 1920. Altri precursori furono Klein
ed Eimert.
[2] T. MANN, Lettere, scelta e traduzione di I. A. Chiusano, Milano 1986,
Mondadori, p. 675. D’ora in poi LE. Mann in una lettera a Maximilian Brantl del
26 dicembre 1947 così definisce questa caratteristica del suo romanzo: «(...)
il Doctor Faustus, poi, (...) è il vero
e proprio romanzo su Nietzsche, a paragone del quale quel saggio non è che
small talk, una chiacchieratina». Nietzsche muore a 56 anni, mentre Adrian
Leverkühn, nato nel 1885 e morto nel ‘40, verrebbe a morire a 55 anni.
[3] T.
MANN, Doctor Faustus, Milano 1980,
Mondadori, p. 696. D’ora in
poi DF.
[4] DF, p. 697.
[5] R. FERTONANI, in nota a DF, p. 866.
[6] A. SCHÖNBERG, Manuale di armonia, Milano 1963, Il Saggiatore, pp. 7-13. D’ora in
poi MA.
[7] MA, p. 397. Cfr. anche MA, p. 25: «(...)
perché nel sistema temperato, che è solo un espediente per soggiogare le
difficoltà del materiale, le analogie con la natura sono pochissime. Ciò è
forse un vantaggio, ma non certo un privilegio».
[8] LE, p. 681.
[9] L. ROGNONI, in prefazione a MA, pp.
XIII-XIV.
[10] Si pensi che Mann, in una lettera del 6
maggio ‘43 indirizzata a Bruno Walter, si informa circa la formazione
professionale di un compositore, non avendone idea alcuna, e domanda
addirittura consiglio su quale manuale di composizione leggere, concludendo:
«Del resto meglio chieder consiglio a Schönberg» (LE, p. 510). E, nel ‘Romanzo
di un romanzo’ : «(...) tutte quelle prese di contatto (...)», etc. (LE, p.
727).
[11] In senso generale, la partizione
orizzontale/verticale dell’armonia è teorizzata per evidenziare due prospettive
differenti, quella dello sviluppo contrappuntistico o orizzontale, che dà una
sua autonomia tematica alle voci; quella più prettamente armonica o verticale.
Genericamente, la tensione armonica dovrebbe prodursi dal rapporto tra le due
dimensioni. In senso più specifico, Mann si riferisce probabilmente alla
propensione di Schönberg a
verticalizzare l’armonia (cioè a dedurre dall’accordo gli elementi tematici
fondamentali di un brano), un procedimento esposto già nel Manuale d’armonia. Schönberg cerca una diversa ragione connettiva
tra gli accordi una affinità e complementarietà che non sia limitata alla
semplice conseguenzialità logica della serie. Cfr. anche G. TURCHI, in DEUMM,
voce ‘Armonia’.
[12] LE, p. 686.
[13] LE, p. 690.
[14] LE, p. 716.
[15] LE, p. 717.
[16] LE, p. 764.
[17] LE, p. 768.
[18] LE, p. 764.
[19] LE, p. 840. Una spiegazione del
comportamento di Schönberg può forse essere quella suggerita da Vittorio Rieti,
che lo conobbe a Vienna nel 1921: «Il contrasto fu alimentato, o meglio
determinato, da Alma Mahler dalla quale Schönberg fu indotto a ritenere che il
fatto che Mann, nel suo romanzo, si fosse ispirato a lui stesso per il
personaggio del musicista Adrian Leverkühn e per le sue teorie musicali, non
doveva considerarsi un privilegio e un onore ma un plagio. Schönberg purtroppo
si lasciò convincere e reagì nel peggiore dei modi rifiutandosi persino di
leggere quel capolavoro» (F.C. RICCI, Vittorio
Rieti, Napoli 1987, Edizioni Scientifiche Italiane, p. 250). Dello stesso
parere anche Glenn Gould che precisa che Schönberg, a causa dei suoi disturbi
alla vista, non lesse
[20] DF, p. 260.
[21] DF, p. 261.
[22] T. MANN, La genesi del Doctor Faustus, in calce a DF, p. 730.
[23] T.W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, Torino 1980, Einaudi, p. 66. D’ora
in poi FMM.
[24] Mann ci tenne a precisare in più riprese
che il suo personaggio non aveva nulla a che vedere con Schönberg, quale uomo.
Ciò non vale naturalmente per la sua musica, produzione basata sul sistema
dodecafonico e che in qualche modo segue quella reale di Schönberg, come già in
altra sede si è dimostrato (Cfr. G. DE SIMONE, Le parole sospese, Napoli 1988, Edizioni Scientifiche Italiane).
[25] DF,
pp. 99-100.
[26] oluc.
[27] oluc.
[28] FMM, p.
87.
[29] oluc
[30] oluc
[31] DF, p. 872.
[32] MA, p.
[33] FMM, p. 94.
[34] T. MANN, Genesi..., op. cit., p. 793.
[35] DF, p. 110.
[36] DF, p. 875.
[37] MA, p. 528.
[38] DF, p. 261.
[39] FMM, p. 66.
[40] DF, p. 354.
[41] T. MANN, Genesi..., op. cit., p. 850
[42] DF, p. 624.
[43] DF, p. 670.
[44] DF, p. 511.
[45] FMM, p.
100.
[46] DF, p. 511.
[47] MA, p. 37.
[48] MA, pp. 72-73
[49] MA, pp. 30-31.
[50] Altrove si è dimostrato che la nozione
di ‘entropia’, se applicata all’estetica, non conduce necessariamente all’idea
di morte dell’arte.
[51] Ciò accade in T.W. ADORNO, Teoria estetica, Torino 1977, Einaudi,
laddove l’arte appare come forma di reazione che anticipa l’apocalisse (p.9),
vittima dell’ideale del nero (p. 69) che fa disperare di un’inversione
sintropica. L’idea è poi presente in T.W. ADORNO, Minima moralia, Torino 1975, pp. 33,143, 198, 200 ss.
[52] Ciò si desume da MA, pp. 37-38.
[53] FMM, p.
134.
[54] FMM, p.
126.
[55] FMM, p.
[56] DF, p. 264.
[57]T.W. ADORNO, Minima moralia, op. cit., p. 287.
[58]Altra accezione è quella kantiana, come scienza delle regole di una sensibilità in generale. Sul legame tra le due concezioni cfr. D. FORMAGGIO, “Estetica”, in A.A.V.V., Filosofia, Milano 1966, Feltrinelli, p. 63.
[59]Questa assonanza tra opera, ricerca e possibilità (di qualità), in relazione a Musil è rilevata anche da L. NONO, Verso Prometeo, Milano 1984, Ricordi, p. 11; e da Massimo Cacciari, ibid., p. 84.
[60]Apparentemente contrario M. TUTINO, “Costruirsi un ruolo”, in Annuario musicale italiano, quarta ediz., vol. I, Roma 1989, p. 338: «un altro dato curioso è la rinnovata attenzione alla musica rivalutando l’importanza dei ‘generi’». Qui i ‘generi’ vanno intesi come ‘speciÈ sinfonica, cameristica, pianistica.
[61]Rispetto all’apertura di campi di possibilità ci si riferisce ad una mera possibilità combinatoria che può evidentemente favorire, in condizioni di maggiore ampiezza strutturale e grazie alla presenza di più eventi, una più ampia apertura verso sistemi diversi, e perciò stesso superiori.
[62]Certo non propendendo verso le note posizioni sull’ artigianato musicale: così C. LAGO, “Quell’abile e visionario artigiano”, in Annuario Musicale Italiano, cit. p. 337
[63]Che si sia già tentato di storicizzare quanto dovrebbe più propriamente essere ancora considerato ‘contemporaneo’ è dimostrato, ad esempio, dal volume di D. TORTORA, Nuova Consonanza, Firenze 1991, LIM: qui l’intento (auto)celebrativo, in fondo principiato col primo festival intitolato ad Evangelista, raggiunge l’apice, e manifesta anche la debolezza di ogni ‘gruppo’ che si istituzionalizza, si rende apologetico, si cristallizza nel già compiuto. Si cade così in una vera e propria crisi di rappresentanza.
[64]M. DALL’ONGARO, “La Tigre di Carta”, in Piano-Time anniversario, Settembre 1991.
[65] Ci si riferisce ai dati CIDIM, al progetto ITACO, a numerosi altri materiali di diretta acquisizione (interviste, conversazioni ed altro).
[66]Da una intervista concessa all’autore nel 1982, poi pubblicata in più riprese su quotidiani e settimanali napoletani.
[67]A.A.V.V., “Avanguardia e ricerca musicale a Napoli negli anni ‘70”, programma della manifestazione, Napoli 1981.
[68]«A
Napoli non c’è spazio per la composizione, c’è poca avanguardia, anche per la
scarsa presenza di interpreti specializzati»,
[69]Una descrizione significativa della crisi del linguaggio è quello tracciata da F. RELLA, in Il silenzio e le parole, il pensiero nel tempo della crisi, Milano 1988, Feltrinelli. Cfr. anche M. CACCIARI, Krisis, Milano 1979, Feltrinelli.
[70]In questa direzione anche M. TUTINO, “Costruirsi un ruolo”, cit., p. 338: « (...) esigenza (...) che si può riassumere sinteticamente nella fiducia, anche a costo di una certa cecità, nei valori interni delle singole espressioni artistiche, e nel rifiuto di dare per scontata la morte di uno qualsiasi dei generi possibili». E nella medesima posizione appare la maggior parte delle voci interpellate nel progetto curato dall’Editore Flavio Pagano sulle Autanalisi dei compositori italiani.
[71]Nel celebre articolo “Schönberg è morto”, Boulez si riferisce alla parola ‘struttura’: «a partire dalla generazione degli elementi componenti fino all’architettura globale di un’opera. Tutto sommato, una logica di ingeneramento tra le forme seriali propriamente dette e le strutture derivate è rimasta assente (...) dalle preoccupazioni di Schönberg » (in A.A.V.V., Storia della musica, Torino 1980, p. 206). È forse opportuno segnalare che Schönberg si considerò sempre più compositore che teorico, e che spesso si dichiarò incapace di definire anche soltanto ‘dodecafonichÈ certe sue opere.
[72]G. PIANA, Filosofia della musica, Milano 1991, Guerini e associati
[73] B. CROCE, Estetica, Milano 1990, Adelphi, p. 6.
[74]Oluc.
[75]B. CROCE, op. cit., p. 130.
[76]B. CROCE, op. cit., p. 21.
[77]B. CROCE, op. cit., p. 15.
[78]U. ECO, “L’Estetica di Croce”, in La rivista dei Libri, n. 7, Ottobre 1991
[79]B. CROCE, op. cit., p. 32.
[80]B. CROCE, op. cit., p.13.
[81]B. CROCE, op. cit., p. 110.
[82]E. FUBINI, L’estetica musicale dal Settecento a oggi, Torino 1968, Einaudi, p. 209.
[83]B. CROCE, op. cit., p. 145.
[84]Oluc.
[85] Lettera di Bastianelli a Croce, in M. DONADONI OMODEO, Giannotto Bastianelli, lettere e documenti editi e inediti (1883-1915), Firenze, MCMLXXXIX, Leo Olschki Editore , pp. 147-148
[86] G. BASTIANELLI, La musica pura, commentari musicali e altri scritti, a cura di M. Omodeo Donadoni, Firenze, MCMLXXIV, Leo Olschki Editore , pp. 352 ss
[87] Lettera di Bastianelli in M. DONADONI OMODEO, Giannotto Bastianelli Lettere e
documenti editi e inediti
(1915-1927), Firenze, Leo Olschki Editore MCMXCII, p. 132.
B. CROCE, Estetica, Milano, Adelphi 1990, p. 6.
[88] Cfr. G. DE SIMONE, Le parole sospese o del silenzio in arte, Napoli 1988, Edizioni Scientifiche Italiane.
[89] Citato in A.A.V.V., Giacinto Scelsi, Viaggio al centro del suono, a cura di P.A. Castanet e N. Cisternino, LunaEditore.
[90]Ad esempio, in ‘Invecchiamento della musica moderna’, dapprima conferenza e poi saggio del nostro, c’è questa frase: «Già c’è da dubitare che duecento anni fa l’oblio di Bach e il sopravvento del nuovo stile galante fossero realmente una reazione sana e un fatto positivo, come viene per lo più interpretato nella storia della musica» (in T.W. ADORNO, Dissonanze, Milano 1981, Feltrinelli, p. 159). Peccato che qui poco c’entri la storia della musica: Bach moriva nel 1750, ma dopo la morte veniva pubblicata l’Arte della Fuga, il figlio Emmanuel stampava il trattato sulla vera arte di suonare il cembalo, enumerando e raccontando in realtà gli insegnamenti del padre. I numerosi allievi di Bach diventavano abili organisti o maestri di cappella. Tenendo conto che l’epoca non era ancora asfissiata dalla supponenza del concetto di repertorio, si può ben dire almeno che l’oblio sia cominciato un po’ più tardi. Che le cronologie e le letture trasversali non siano il forte di Adorno è suggerito anche dal fatto che lo stile galante si affermò ben prima della morte di Bach, nel 1730 circa e che, anzi, dopo la sua dipartita acquistò proprio con il figlio di Bach un carattere di maggiore espressività.
[91]Alcune di queste incoerenze sono segnalate in G. DE SIMONE, Manuale del mancato virtuoso, Napoli 1993, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 70 ss. ( in relazione ad alcune affermazioni contenute in Terminologia filosofica ), pp. 74 ss. (in relazione alle inesattezze collocate in Prismi ). Altri percorsi, non necessariamente così critici, sono in G. DE SIMONE, Le parole sospese, Napoli 1988, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 41 ss.
[92]Ad esempio, il discorso sulla verità dell’arte, e sulla possibilità concreta della sopravvivenza dell’incanto ricorre in più punti dell’estetica, specie dove Adorno si riferisce all’utopia della costruzione. Qui ritorna l’idea di una perdita di tensione dell’arte, dovuta sia alla soggettiva debolezza che all’effetto della costruzione, la quale si traduce nello sforzo di giungere a qualcosa di «estensivamente normativo» (T.W. ADORNO, Teoria estetica, Torino 1977, Einaudi, p. 98). Si ripresenta l’idea del movimento causato dallo scontro tra l’incanto proprio dell’opera e il disincanto del mondo, che tuttavia non può mai essere cancellato (p. 99). I temi della verità dell’arte e della perdita di tensione dell’opera ricorrono in modo simmetrico: a p. 91: «la totalità alla fine inghiotte la tensione»; poco più avanti si espone la verità dell’arte nel duplice senso di mantenimento di certi fini e di prova dell’irrazionalità del vigente. A ciò corrisponde quanto detto a p. 99: «l’attuale perdita di tensione dell’arte costruttiva non è solo prodotto di soggettiva debolezza bensì effetto dell’idea di costruzione»; e poco avanti, l’arte «ha verità in forza della critica che mediante la sua esistenza esercita sulla razionalità divenuta ai propri occhi un assoluto». La struttura si ripropone ancora a p. 140: «l’arte oggi non è quasi più pensabile altrimenti che come la forma di reazione che anticipa l’apocalissi. A un più vicino sguardo anche creazioni artistiche di calma gestualità sono uno scaricarsi non tanto delle emozioni accumulate dal loro autore quanto alle forze che nelle opere stesse si combattono»; e, sulla verità: «Quando un inesistente spunta come se fosse esistente, si mette in moto la questione della verità dell’arte». Tutto ciò, ma è una piccola selezione di risultati da rendere noti in sedi più idonee, fa pensare all’esistenza di cellule strutturali ripetute ed intrecciate con altre, vere e proprie variazioni su temi, quali l’allergia dell’arte alla magia, la sua lontananza dalla teologia, l’ideale del nero, la dissoluzione del sociale, la similitudine tra questa disgregazione e l’entropia dell’arte. Questa metodologia, l’itineranza e la reiterazione di cellule, pare confermare la possibilità che le opere di Adorno seguano un principio di costruzione strutturale che rispecchia il suo snobismo estetico: l’esoterismo della scrittura musicale si contrappone all’exoterismo tipico delle opere facilmente e «falsamente» fruibili. Queste strutture microscopiche provano altresì l’esistenza di uno schema formale piuttosto solido, anche se accuratamente celato.
[93]Ad esempio, in Minima moralia (Torino, 1979, Einaudi) il tema dell’ entropia ricorre ciclicamente a pag. 33, 143, 198, 260-287; quello di individuo a pag. 129, 175 e 177-181, 190, 278. E così via...
[94]«Così, in questo secolo, non c’è biologia ma una storia naturale che forma un sistema solo organizzandosi in serie; non c’è economia politica ma un’analisi delle ricchezze; non filologia o linguistica ma una grammatica generale» (G. DELEUZE, Foucault, Firenze 1987, Feltrinelli, p. 126)
[95]Per
Deleuze/Foucault, strategia è un diagramma di forze o di singolarità interne ai
rapporti di forza; essa è presente ad ogni strato atmosferico del «fuori». E il
«fuori» ha un al-di-sotto, che è quello delle singolarità microfisiche. Le
strategie sono aree, contrariamente alla stratificazione, proprie della terra.
Esistono poi singolarità selvagge, «non ancora legate, anch’esse sulla linea
del fuori e che ribollono proprio al disotto dell’incrinatura». È la linea di
Melville «oppure la linea di Michaux» (G. DELEUZE, cit., pp. 122-123). Difatti,
per Michaux: «come nel Mondo ci sono anfrattuosità, sinuosità, come ci sono
cani randagi/ una linea, una linea, più o meno una linea.../ In frammenti, in
cominciamenti, colta di sorpresa, una linea, una linea.../ ...una legione di
linee» (H. MICHAUX, Brecce, Milano
1984, Adelphi, p. 190). Le linee, pertanto, hanno
un fuori e un dentro, costituito dalle pieghe, dagli anfratti del piano.
[96]A. SCHOENBERG, Manuale di armonia, Milano 1980, Il Saggiatore, pp. 34 ss.
[97] Uno sviluppo con intuizioni geniali, naturalmente, ma che della linea mantiene la direzione, curandosi poco di un’altra possibilità, quella dell’esplosione del piano per migliaia di punti in fuga. Una sorta di ‘costellazione’, per fare il verso ad Adorno, che però può essere metaforizzata attraverso la forma della spirale.
[98] Vale la pena di precisare che quella arborescente è una struttura gerarchica: «I modelli corrispondenti sono tali che un elemento non vi riceve le sue informazioni se non da un’unità superiore, e una destinazione soggettiva, da collegamenti prestabiliti» (G. DELEUZE - F. GUATTARI, Mille piani, vol. I, Roma 1987, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da G. Treccani, p. 23.)
[99]
Con
[100] Celluloid, 1983.
[101] Gruppi che si trasmettono l'arte di uno strumento da padre a figlio.
[102] È un liuto a più corde, dal suono simile a quello di un'arpa.
[103] Arion 64036; 64070.
[104] Arion ARN 64112.
[105] Arion ARN 64055.
[106] Arion ARN 64016.
[107] Playa Sound PS 65101, PS65034.
[108] Playa Sound PS 65104; PS 65085.
[109] Rispettivamente Playa Sound PS
65009, PS 65074; Auvides D8029.
[110] Ducale, CDL 012.
[111] Una sorta di doppio tamburo in legno e rame.
[112] Arion ARN 64277.
[113] D 8033.
[114] Arion ARN 64081.
[115] Arion ARN 64077.
[116] Arion ARN 64063.
[117] Arion ARN 64057.
[118] Narada 3912.
[119] Gourd Music.
[120] Narada 2755.
[121] Forse Dave Holland, ma il nome non viene indicato.
[122] Narada 3014.
[123] Narada 3908.
[124] Y 225002, Y 225037.
[125] Silex Y 225007.
[126] Naturalmente non si intende qui demonizzare il mercato come ancora fa tanta estetica di derivazione francofortese.
[127] Narada 3754.
[128] Narada 2763.
[129] Narada 3023.
[130] È un fiato ad ancia.
[131] Music West 134.
[132] Narada 2756.
[133] Narada 2762.
[134] Narada 3022.
[135] Ocora C 558661.
[136] Silex Y 225039.
[137] Ocora C 580037.
[138] Dallo smembramento del maschio primordiale Purusha.
[139] Le Chant du Monde LDX 274 910.
[140] Arion ARN 64045.
[141] Il già citato Unesco/Auvidis D 8033.
[142] Musique du Monde 82493-2.
[143] Si tratta di uno strumento a quattro corde con una curiosa cassa armonica aperta.
[144] ARN 64078.
[145] Ocora C 580016.
[146] Ocora C559011.
[147] Le Chant du Monde CMT 274978.
[148] Auvidis/Unesco D 8301.
[149] Ocora C 560059.
[150] Auvidis/Unesco D 8015.
[151] Arion ARN 64233.
[152] Rispettivamente Arion ARN 64159 e Arion ARN 64061.
[153] Auvidis/Unesco D 8204.
[154] Arion ARN 64095.
[155] Playa Sound PS 65054.
[156] Ocora C 559 057.
[157] Playa Sound PS 65074.
[158] Accord 200612.
[159] Accord 201112.
[160] Harmonia Mundi SCD8904-5.
[161] FYCD 119.
[162] Radio France/Adda 581189.
[163] Elektra Nonesuch 7559-79282-2, ed Emi 7243 5 55368 2.
[164] Argo 436 835-2.
[165] Elektra Nonesuch 7559-79348-2.
[166] ECM 1505.
[167] E. FUBINI, Estetica della musica, Bologna 1995, Il Mulino.
[168]T.W. ADORNO, Minima moralia, Torino 1954, Einaudi, p. 4.
[169]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 5.
[170]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 6.
[171]T.W. ADORNO, o.l.u.c.
[172]Il potere, tuttavia, rifiuterà i
caratteri di assolutezza e universalità.
[173]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, Torino 1970, Einaudi, p. 290.
[174]Per Adorno v’è anche una parte di verità
in ciò, possibile d’esempio con Karl Kraus, notoriamente legato a Vienna.
[175]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 291.
[176]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 292.
[177]T.W. ADORNO, o.l.u.c..
[178]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 280.
[179]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 292.
[180]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 293.
[181]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 293.
[182] F. JAMESON, Tardo marxismo, Roma 1994, manifestolibri, p. 16.
[183]T.W. ADORNO in W. BENJAMIN, Uomini tedeschi, Milano 1992, Adelphi.
[184]M. FOUCAULT, Volontà di sapere, Milano 1984, Feltrinelli, p. 81.
[185]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 277.
[186]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 277.
[187]T.W. ADORNO, o.l.u.c..
[188]T.W. ADORNO, o.l.u.c.
[189]Contro il positivismo, ed i rimproveri
che questo rivolge al pensiero, cfr. T.W. ADORNO, Minima moralia, op. cit., p. 148.
[190]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 278.
[191]Il concetto di ‘totalità’ è almeno
duplice in Adorno. Ad esempio, sui rapporti fra totalità e social
research, cfr. ADORNO, in VARI, Dialettica
e positivismo in sociologia, Torino 1972, Einaudi, pp. 96 ss.
[192]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 279.
[193]T.W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 126.
[194]T.W. ADORNO, o.u.c., p. 128.
[195]ISTITUTO PER
[196]T.W. ADORNO, Minima moralia, op. cit, p. 150.
[197]ISTITUTO PER
[198]K. MARX, Democrito e Epicuro, dissertazione dottorale del 1841, Firenze
1979,
[199]La repulsione è quella dalla
declinazione; perciò essa è formale e materiale allo stesso tempo. Tutti i
frammenti sono tratti da K. MARX, Democrito
ed Epicuro, op. cit., pp. 43 ss.
[200]ISTITUTO PER
[201]K. MARX, Democrito e Epicuro, op. cit., p. 43.
[202]ISTITUTO PER
[203]Difatti la vera matrice sembra essere
proprio kantiana, come messo in rilievo
da O. WEININGER, Sesso e carattere, Pordenone
1992, Edizioni Studio Tesi, p. 222:
«...solo chi sente che l’altro uomo è anch’esso un io, una monade, un distinto
centro del mondo con un modo particolare di sentire e di pensare e con un particolare
passato, sarà per ciò stesso immune dall’utilizzare l’altro semplicemente come
mezzo per uno scopo. Egli, conformemente all’etica kantiana, sentirà anche
nell’altro la presenza della personalità (come parte del mondo intelligibile),
e pertanto la onorerà, e non ne sarà soltanto contrariato. Condizione
psicologica fondamentale di ogni altruismo pratico è quindi l’individualismo
teorico. E’ dunque qui che si trova il ponte che dal comportamento morale verso
se stessi conduce al comportamento morale verso l’altro, quella mediazione la
cui mancanza nella filosofia di Kant fu considerata a torto da Schopenhauer
come un difetto di questa, e che fu intesa come una sua necessaria
insufficienza, radicata nei suoi principi sostanziali».
[204]Intervista rilasciata a Gérard Raulet , pubblicata su «Telos» nel
1983 col titolo Structuralism and
Post-Structuralism.
[205]FOUCAULT-RAULET,
Structuralism and Post-Structuralism,
in «Telos», op. cit.
[206]VARI, Adorno
e Foucault, Palermo 1990, Ila Palme. E’ qui possibile reperire la
traduzione italiana dell’intervista citata nel testo.
[207]VARI, o.u.c.,
p. 164,
[208]VARI, o.u.c.,
p. 163.
[209]VARI, o.u.c.,
p. 164.
[210]VARI, o.u.c.,
p. 163.
[211]VARI, Adorno
e Foucault, op. cit., p. 168.
[212]M. FOUCAULT, La verità e le forme giuridiche , Napoli 1991, privo di edizione.
[213] Questo controllo è svolto con l’aiuto di
forme di potere parallele o, in altro senso, di contropotere.
[214]T.W. ADORNO, Scritti sociologici, Torino 1976, Einaudi, p. 59.
[215]VARI, Dialettica
e positivismo in sociologia, Torino 1972, Einaudi, p. 86.
[216]VARI, o.u.c.,
p. 102.
[217]VARI, o.l.u.c.
[218]P. DEWS, in VARI, Adorno e Foucault, op. cit.
[219]M. BLANCHOT, Michel Foucault come io l’immagino, Genova 1988, Costa & Nolan,
p. 39.
[220]M.
FOUCAULT, o.u.c., p. 80.
[221]G. DELEUZE, Foucault, Milano 1987,
Feltrinelli, p. 75.
[222]G.
DELEUZE, Foucault, op. cit. , p. 75.
[223] M. FOUCAULT, La volontà di sapere, op. cit., p. 82.
[224]Ma forse già qualsiasi insieme che rimanda ad altro da sé è in fondo
metafisico.
[225]M. FOUCAULT, Nietzsche, la genealogia, la storia, Torino 1977, Einaudi, p. 39.
[226]M.
FOUCAULT, o.u.c., p. 38.
[227]M. FOUCAULT, La volontà di sapere, op. cit., p. 84.
[228]G.
DELEUZE, Foucault, op. cit., pp. 112-113.
[229]Questa
distinzione può desumersi da M. FOUCAULT, La volontà di sapere, op. cit., p. 81.
[230]M. FOUCAULT, Poteri e strategie, in “Aut-Aut”, n. 164, 1978.
[231]M. FOUCAULT, La volontà di sapere, op. cit., p. 80.
[232]G.
DELEUZE, Foucault, op. cit., p. 122.
[233]M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, Torino 1976, Einaudi, p. 24.
[234]G. PROCACCI, in VARI, Effetto Foucault, Milano 1987, Feltrinelli,
p. 191.
[235]G.
DELEUZE, Foucault, op. cit., p. 113.
[236]G. DELEUZE, o.u.c., p. 111.
[237]G. PROCACCI, in VARI, o.u.c., p. 188.
[238]G. PROCACCI, in VARI, Effetto Foucault, op. cit., p. 185.
[239]G. PROCACCI, in VARI, o.l.u.c.
[240]G. PROCACCI, in VARI, Effetto Foucault, op. cit., p. 192.
[241]Cfr. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Milano 1991, Fabbri.
[242]G.
DELEUZE, Foucault, op. cit., p. 132.
[243]G. DELEUZE, o.u.c., p. 133.
[244]G. DELEUZE, o.l.u.c.
[245]F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, op. cit., p. 38.
[246]P. A. ROVATTI, in VARI, Effetto Foucault, op. cit., p. 72.
[247]P. A. ROVATTI, in VARI, o.u.c., op. 73.
[248]Il riferimento è ancora a Felix Guattari.
[249]‘Estetizzante’ come apparente,
formalmente bello, televisivo.
[250]E. LEVINAS, Fuori dal Soggetto, Genova 1992, Marietti.
[251]L’altro, in Levinas, mi ri-guarda, mi
interessa. E’, sostanzialmente, ‘volto’; l’io «si libera dal suo ritorno a sé,
dalla sua autoaffermazione, dal suo egoismo di essente che persevera nel suo
essere, per rispondere di altri, per
difendere appunto i diritti dell’altro uomo». E. LEVINAS, o.u.c., p. 130.
[252]Questa ‘percezione’ è sia la mera
costatazione della reale presenza
altrui, sia l’intuizione di una presenza
aurorale, sconnessa da referenti empirici.
[253] Per questa ragione, forse, nelle forme
del delirio l’altro viene metamorfosizzato: perché l’io è assolutamente
centrale, solitario, ricostituito secondo un’unità ancestrale resa però
patologica per interventi traumatici.
[254]JEAN-LUC NANCY, La comunità inoperosa, Napoli 1992, Cronopio.
[255]T.W. ADORNO, Terminologia filosofica, Torino
1975, Einaudi, pp. 136 ss.
[256]Cfr. T.W. ADORNO, o.l.u.c.
[257]T.W. ADORNO,o.l.u.c.
[258]T.W. ADORNO,o.l.u.c.
[259]J. NANCY, La comunità inoperosa, op. cit.,
p. 63.
[260]J.
[261]J.
[262]J.
[263]J.
[264]J.
[265]Cfr. anche, seppur con diversa
prospettiva, E. PIZZICHETTI, “L’ ‘altro’ invisibile, l’Anonimo e Narciso”, in
“Atque, materiali tra filosofia e psicoterapia”, n. 07, Maggio ‘93, Moretti
& Vitali editori, p. 171: «Finora abbiamo parlato della verità come
significato. E’ evidente quindi che si presuppone sempre la percezione di una
comunità verso cui si è rivolti con le nostre parole e le nostre domande, e si
presuppone, più in fondo, il peso di una possibile risposta. Ogni significato
conta e vale solo al plurale. Non si è mai da soli (...)».
[266]AA.VV., Politica, Napoli 1993, Cronopio.
[267]Cfr.
J. NANCY, in AA.VV., Politica, op. cit., p. 15
[268]J.
[269]J.
[270]Cfr. J. NANCY, o.l.u.c.: «Tutta la fondazione occidentale (...) mette in gioco una
condivisione del ‘senso’ e la
costituzione stessa o l’avvenimento del ‘senso’ in una condivisione».
[271]Così prosegue il passo, nella sua
interezza: «Come, dal momento che tale ‘senso’ non è un senso particolare (come
sarebbe quello della ‘collettività’ distinto da quello degli ‘individui’), ma
l’elemento di significanza dell’esistenza in quanto essa compare, e non c’è
senso d’uno Solo (il che non significa che ‘tutto il senso’ sia ‘collettivo’,
al contrario). E come, dal momento che la comunità si scopre e si denuda come
ciò che non è sostanza di un soggetto, dal momento, cioè, che essa non è
autoappropriazione di senso» (p. 37).
[272]J.
[273]J.
[274] Questa profonda assimilazione è
manifesta nella distinzione tra Hegel per il quale è il ‘pensiero’ del reale ad
essere soggetto del pensiero, e Marx, dove il reale stesso è soggetto (e non
oggetto) del pensiero. Vi è un rovesciamento della filosofia «dal punto di
vista della prassi», e tale rovesciamento, il superamento della filosofia come
sua sopravvivenza, costituisce l’altro, l’esterno comune ad essa. Il passaggio
avviene grazie all’esistenza di un momento nel quale «l’alterità costituisce il
sé» (pp. 35-36).
[275]J. NANCY, La comunità inoperosa, op. cit., p. 172.
[276]J.
[277]J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, Milano 1979, Feltrinelli, p. 46.
[278]J.
BAUDRILLARD,o.l.u.c.
[279]J.
BAUDRILLARD,o.u.c., p. 53.
[280] si definisce ‘bots’ un tipo di software
che simula all’altro capo del modem la presenza di un umano
[281] Cfr. G. DE SIMONE, “Il bello della
cosa”.
[282]P. VIRILIO, “Allarme nel ciberspazio”, in
“Le Monde Diplomatique”, edizione italiana, Settembre 1995, p. 30.
[283]A. MATTELART, “I nuovi scenari della
comunicazione mondiale”, in “Le Monde Diplomatique”, edizione italiana,
Settembre 1995, p. 31.
[284]R. PETRELLA, “I Nuovi Comandamenti”, in
“Le Monde Diplomatique”, edizione italiana, Ottobre 1995, p. 2.
[285]F. PISANI, “Le frontiere ignote del
ciberspazio”, in “Le Monde Diplomatique”, edizione italiana, Novembre 1995, p.
2. L’articolo risponde alle tesi divulgate da Nichols Negroponte, direttore del
Media Lab del Mit e autore di Essere
digitali, Milano 1995, Sperling & Kupfer.
[286]F. PISANI, “Le frontiere ignote del ciberspazio”,
cit., p. 2.
[287]Quasi paradossalmente, questa chance è offerta proprio dal ritardo dei
cosiddetti paesi più deboli e poveri. Quale miglior messaggio per le aberranti
e inconsapevoli politiche di sfruttamento?
[288] Cfr. B. R. TUCKER, Copia pure, Viterbo 2000, Stampa alternativa.
[289]G. DE SIMONE, “Come da copione”, piccola storia del plagio, in “il manifesto/Alias” del 25 marzo 2000.
[290] G. DE SIMONE, “Le ali di pietra. Il potere, i soggetti, le tecnologie del senso”, in “Konsequenz”, prima serie, numero 2/97, Napoli 1997, Edizioni Scientifiche Italiane.
[291] G. DE SIMONE, “L’alchimia del suono. L’antiestetica”, manifesto della nuova avanguardia partenopea apparso sul quotidiano “Napolinotte” del 3 marzo 1984. Tra l’altro vi si legge: «Non v’è discriminatorietà, in termini di giudizio di valore assoluto, tra le diverse produzioni di un’espressione artistica». Altre tesi sono nel volume G. DE SIMONE, Le parole sospese o del silenzio in arte, Napoli 1988, Edizioni Scientifiche Italiane. Molti aspetti di queste nuove consapevolezze estetiche sono stati divulgati in numerosi articoli e recensioni apparsi sul quotidiano “il manifesto” e sulla rivista specializzata “CD Classica”.
[292] Sulla corretta distinzione tra opzioni della world music, cfr. G. DE SIMONE, “Speciale world music”, in “CD Classica”, n. 78, anno 9, Firenze, Febbraio 1995, pp. 32-38.
[293] Cfr. G. DE SIMONE, “Come da copione”, cit., p. 11.
[294] Cfr. G. DE SIMONE, “Macchine da primati”, speciale dedicato alla musica elettronica apparso su “il manifesto/Alias” del 6 maggio 2000.
[295] Cfr. G. DE SIMONE, “Come da copione”, cit, p. 13.
[296] Cfr. G. DE SIMONE, “Come da copione”, cit, p. 11.
[297] Cfr. D. DE GAETANO, postfazione a J.A. WALKER, L’immagine pop, trad. it., Torino 1994, EDT, p. 170: «(...) ogni aspetto della cultura e della sotto-cultura occidentale o extraeuropea può essere saccheggiato» (titolo e data dell’op. originale: Cross-overs. Art Into Pop/Pop Into Art, London 1987).
[298] Lo scratch è una tecnica usata dai dj per alterare i suoni dei dischin nata nel Bronx agli inizi degli anni Settanta. Per J. A. WALKER, L’immagine pop, cit., p. 155: «Lo scratch rappresenta chiaramente una forma di intervento del consumatore che trasforma e personalizza i prodotti del music business». Purtroppo Walker aggiunge: «Per chi lo pratica, lo scratch costituisce una maniera per controbilanciare la passività che caratterizza altrimenti la fruizione di beni di consumo» (oluc).
[299] Con le tecniche del morphing si procede di alterazione in alterazione di suoni preesistenti, accostandoli liberamente. La ‘composizione’ sta in questa giustapposizione creativa (vogliamo chiamarlo sviluppo o variazione?), più che nella creazione di algoritmi che esprimano nuove sonorità. In ciò risiede la maggior possibilità di successo della nuova musica elettronica, che si differenzia dal mero sperimentalismo e dalla ricerca di suoni inediti che ha paralizzato la creatività dei compositori per decenni.
[300] A Napoli e dintorni se ne contano almeno otto. Uno di essi ha prodotto nell’ambito di un progetto plurifondo europeo il Cd-Rom Caro Iqbal (EU 20001).
[301] F. JAMESON, Tardo marxismo, Roma 1990, Manifestolibri, p. 156.
[302] Ouc, p. 160.
[303] Op. cit, p. 161.
[304] R. MIDDLETON, Studiare la popular music, trad; it. Milano1994, Feltrinelli, p. 21 (edizione e data dell’originale: Studying popular music, 1990) .
[305] Ouc, p. 64.
[306] Cfr. G. DE SIMONE, Manuale del mancato virtuoso. Lasciate i pianisti nelle gabbie, Napoli 1983, Edizioni Scientifiche Italiane.
[307] J.A. WALKER, L’immagine pop, cit., p. 23.
[308] In ouc, Walker cita da S. FRITH e H. HORNE, Welcome to Bohemia! , Coventry 1984, University of Warwick, Departement of Sociology. Cfr. anche il volume: S. FRITH, Il rock è finito. Miti giovanili e seduzioni commerciali nella musica pop, trad. it., Torino 1990, EDT (titolo e data dell’edizione originale: Music for pleasure, 1988)
[309] D. HEBDIGE, La lambretta e il videoclip. Cose & consumi dell’immaginario contemporaneo, Torino 1991, EDT (titolo e data dell’opera originale: Hiding in the light. On images and things, Londra 1988).
[310] D. HEBDIGE, ouc, p. 72.
[311] L’autore ha tenuto una rubrica per l’inserto culturale del quotidiano “il manifesto” fino al 2003.
[312] Tra i dischi che considero come punti di riferimento obbligato per inquadrare la border music italiana ritengo indispensabili, di Ludovico Einaudi : “Salgari” (Ricordi) che avvicina e forse anticipa il Glass operistico, “Stanze” (Ricordi) un indiscutibile capolavoro con l’esecuzione della Chailly, “Eden Roc” (BMG). Di Cecilia Chailly: “Anima” (Eastwest). Di Eugenio Fels: “Alkèmia” (Konsequenz). Il mio “Ice-tract” (Konsequenz 1998 - ristampato da Curci, Milano 2000). Di Arturo Stalteri: “André sulla luna” (MP Records) e “Flowers” (Materiali Sonori). Su tutti, e prima di tutti noi, lo straordinario ed anticipatore “Dialoghi del presente” di Luciano Cilio, ora reperibile in CILIO-DE SIMONE, “Dell’Universo assente” (Milano 2004, Die Schachtel).