IL
POTERE, L’ARTE
E
LE TECNOLOGIE DEL SENSO
Napoli
1997, Edizioni Scientifiche Italiane
(in
Konsequenz, col titolo “Le ali di pietra”)
(poi ripubblicato senza
note e privo di bibliografia in Musiche
Replicanti, Edizioni Liguori)
Confrontarsi con le tematiche del potere,
della proprietà e delle mutazioni del soggetto è indispensabile per attivare un
nuovo diagramma interpretativo delle forme dell’arte e cogliere le nuove
strategie del suo significato comunitario (tecnologia di senso). I soggetti e
le opere possono ancora significativamente uscire da sé e andare verso l’altro?
Una estetica capace di aggiornare gli ultimi tentativi svolti in questa direzione non può che partire dalla Scuola di Francoforte.
Nella
Dialettica negativa Adorno ridisegna
i margini dell’individualità. Essa viene assimilata al particolare ma
contrapposta all’universale della società organizzata in Stato. Linee ulteriori
emergono da una serratissima critica alla Filosofia
del diritto, l’opera di Hegel etichettata come ‘ideologica’.
Adorno
consiglia cautela fin dall’approccio alla Filosofia
del diritto, per generalissime questioni di metodo: una fedeltà alle
intenzioni dell’autore renderebbe necessario il superamento del dato puramente
testuale[1].
Infatti, in Minima moralia, in difesa
della forma aforistica e contro la pretesa sistematica e pansistemica, Adorno
aveva posto il problema di un metodo che «polemizza contro il puro
essere-per-sé della soggettività in tutti i suoi stadi»[2].
E, poi, più chiaramente, aveva definito l’accantonamento dell’individuale come
«gesto sbrigativo» dovuto al permanere di Hegel nei limiti del pensiero
liberale: «la concezione di una totalità armonica attraverso tutti i suoi
antagonismi lo costringe a non riconoscere all’individuazione -che egli pure
determina come momento attivo del processo- che un posto inferiore nella
costruzione del tutto»[3].
Hegel
ipostatizza la categoria di individuo considerandola come fondamentale della
società borghese ed esaurendola poi nella teoria della conoscenza come datità
irriducibile[4].
Invece, nota Adorno, «nella società individualistica» l’universale viene già
realizzato dall’interrelazione tra gli individui, e la stessa società «è
essenzialmente la sostanza dell’individuo»[5].
Per questa ragione bisognerebbe ritornare sull’individualità, e soffermarvisi
ben più di quanto Hegel non faccia. Si noti come Adorno ponga l’accento sul
legame, sulla relazione tra singolarità; qualcosa di simile avverrà nelle
teorie di Michel Foucault, specialmente quando si occuperà delle dinamiche
dell’incontro/scontro tra soggetti, e delle relazioni di potere immanenti al
piano/campo sociale[6].
Invece
Hegel perviene, come è noto, a qualcosa che giustifica il condizionamento,
mettendo da parte la vera natura del procedimento dialettico. E’ così che
«l’individuo ‘può essere più intelligente di molti altri, ma non può superare
lo spirito del popolo (...)’»[7].
Ciò significa che anche chi osserva criticamente la società verrà condizionato
dall’idea di nazione[8].
E che l’individuo vive lo spazio recintato dall’ eticità dello stato, quello
del compimento del proprio dovere. Adorno ironizza: Hegel «anticipa di cento
anni il gergo della proprietà»[9];
costringendo le vittime a restare nel proprio ruolo, e a compiere comunque il
proprio dovere, non fa nulla per intaccare «la sostanzialità» della loro
situazione[10].
Così l’universale, apparentato in una stringa logica a grandezza e potenza,
«depreda il particolare di quel che gli promette»[11],
e fa in modo che «il particolare da lui sottomesso non gli sia migliore»[12].
Tutto ciò sembrerebbe obbedire a quelle stesse leggi sull’affermazione della
proprietà privata che conducono al predominio del più forte: «la scomparsa
delle individualità decretata con un gioco di bussolotti, un negativo che la
filosofia pretende di conoscere come un positivo, senza che sia realmente
trasformato, è l’equivalente della frattura persistente»[13].
Secondo
Adorno, Hegel commetterebbe in sostanza lo stesso errore di Schopenhauer.
Quest’ultimo, pur avendo intuito che la dialettica di universale e particolare
non può essere risolta negando in modo astratto l’individuale, non l’ha però
compresa fino in fondo. Essa consiste propriamente nel confronto che
l’individuo, in quanto «manifestazione necessaria dell’essenza, della tendenza
oggettiva»[14], attua tra la sua fallibilità e l’essenza di
cui è manifestazione, riuscendo infine ad aver «ragione contro di essa»[15] per
questa fallibilità. La frase di Adorno,
non lontana dalla realizzazione stilistica tipicamente dialettica
ipotizzata da Jameson[16],
potrebbe apparire controversa se non fosse supportata da una analoga
riflessione contenuta in nota a uno
scritto di Benjamin[17]:
«...i bisogni della borghesia, che imprigionano i soggetti nella propria
cerchia e li conformano a se stessi, per un certo tempo hanno prodotto in loro
quella concrezione che poi si è dissolta nello stato della produzione
incontrollata in cui essi sono semplici oggetti, consumatori. Tutte le qualità
umane si plasmano in tale concrezione. Nella loro deformazione sociale gli uomini
si accorgono della loro fallibilità, e proprio questo è l’umano».
La
posizione di Adorno nei confronti della Filosofia
del diritto di Hegel è ancora critica per quel che riguarda il ruolo
affidato alla coscienza soggettiva nel suo rapporto con la normatività del
diritto: un altro aspetto che si ritroverà nell’analitica del potere
foucaultiana, in relazione alle strategie del diritto (al diritto come sistema
e alla legge come forma)[18].
La coscienza soggettiva mal sopporta la violenza del diritto e dell’eticità
oggettiva, visto che il primo «è il mezzo, in cui il cattivo per la sua
oggettività ottiene ragione e si procura l’apparenza del buono»[19];
l’oggettività etica[20] viene salvaguardata attraverso la violenza: un
principio distruttivo che «conserva nella società il terrore»[21].
Ed
ecco ritornare l’accusa già formulata: Hegel, come fondatore del diritto
positivo, ne fornisce anche l’ideologia: «il principio formale di equivalenza
diventa norma, tana dell’ineguaglianza dell’uguale, in cui scompaiono le differenze»[22];
insorgerebbe qui, ancora, quella matrice
positivistica ampiamente criticata dalla scuola di Francoforte e dallo stesso
Adorno perché portatrice di modelli logici a prima vista inoppugnabili[23],
ma poi inadeguati e immediati in relazione ad un oggetto di conoscenza dai
mille antagonismi interni[24].
L’idiosincrasia
adorniana per il sistematico che ignora negazioni è espressa anche nella
condanna di un diritto che esiste nella definizione
di sue norme . E’ questa normalità ben definita che viene indicata come
limitativa, come fonte di tutte le esclusioni: quanto non rientri nella
definizione finisce con l’essere scartato, l’eccezione viene coperta da
una maschera , una falsa realtà si
sovrappone a quella effettiva e plurale. Lo stesso Hegel ammetterebbe, con un lapsus sfuggitogli dalla penna, che
coscienza e norma giuridica non sono stati infine conciliati, perché in fondo
«l’ordinamento giuridico è oggettivamente estraneo ed esteriore al soggetto»[25];
nasce allora l’apparenza della conciliazione, che potrebbe definirsi come un
tentativo d’autodifesa degli individui. Questi ultimi, aggrediti dalla totalità[26],
e consapevoli dell’antagonismo reciproco, per autoconservazione finirebbero per
accettare «ciò che gli è estraneo»[27].
L’universale schiaccia l’individuo, lo costringe a «guardare solo se stesso,
ostacola la sua comprensione dell’oggettività»; e così infine il nominalismo
odia l’utopia, perché in fondo si serve di quest’ultima attraverso il primato
del particolare, dimenticando quanto ormai questo particolare sia divenuto
funzione dell’universale. Si potrà intervenire su quello soltanto
considerandolo come una funzione, una
partizione di questo, in grado tuttavia di agire in modo discontinuo
‘disturbando’ il pensiero che si pone sulla ‘linea retta’. Per questa ragione,
forse, sarà la dialettica negativa, più che il positivismo[28],
a centrare l’ideale conoscitivo, perché in grado di accettare la contraddizione
presente nella realtà e capace di accogliere l’ oggetto anche quando rifiuti di
assoggettarsi al pensiero. Quest’ultimo sarà in grado di compiere tutte quelle
deviazioni da sé che gli permettono di liberare gli antagonismi interni e le
contraddizioni, evidentemente al di là della semplice norma giuridica posta.
Il
pensiero deve allontanarsi dalla tentazione di essere schematicamente
‘normativo’; in modo quasi aporetico
deve poter contenere il suo ‘pensarsi-contro’, e riuscire ciononostante a
sopravviversi. Adorno lo dice chiaramente nella Dialettica negativa, quando tenta una di quelle definizioni aperte,
in progress, che ne caratterizzano lo stile: nella
dialettica negativa «il pensiero non è costretto ad accontentarsi della propria
normatività; è in grado di pensare contro se stesso, senza rinunciare a se
stesso»[29].
La dialettica di Hegel, che tenderebbe alla conciliazione, infine non la consegue perché attraverso il
principio di identità lo spirito assoluto diventa il particolare, pur avendo
raggiunto la totalità con la comprensione di ciò che non è identico; in ciò il
non vero: il tutto finisce col negare la singola determinazione, e «l’atto del
rendere uguali riproduce la contraddizione»[30] che pur aveva tentato di conciliare[31].
Dalla critica ad Hegel emergono idee
(forse non sufficientemente radicalizzate dall’autore di Minima
moralia) poi divenute centrali nelle
teorie di Foucault. L’accento posto sulla ‘relazione’ tra individui, il
nomadismo del soggetto, la ricerca affannosa di una ‘uscita’ del pensiero da
tutto quanto sembrerebbe ridurlo nei limiti della ‘norma’: tematiche dense di sviluppi ed esiti
inaspettati, utili sia a ridisegnare le nuove forme di soggettività che a
riconsiderare l’ambito dello scambio simbolico e le valenze della ‘merce’. Una
matrice comune è nell’opera di Karl Marx.
La
nozione di ‘individualità’ presenta in Adorno almeno due aspetti. Per quello
affermativo, l’individuo è un essere-per-sé, una unicità elevata a propria
determinazione[32].
Egli rappresenta ancora (condannato com’è): «la verità contro il vincitore»[33];
colui che «differenzia sé dagli interessi e mire degli altri, si fa sostanza a
sé medesimo, instaura come norma la propria autoconservazione e il proprio
sviluppo» [34].
Dal punto di vista dinamico lo sviluppo dell’individuo consiste proprio nel
momento della sua determinazione differenziale, cioè in quel di diverso dagli
altri che egli intende valorizzare; dal punto di vista statico, o
specificamente affermativo, lo sviluppo dell’individuo consisterà
nell’accettare quanto di sé è già sostanza, facendone progetto
d’autoconservazione. Questo secondo momento è importante per un successivo
passaggio, quello in cui la singola autocoscienza si confronta con le altre
divenendo nuova a se stessa, cioè autocoscienza sociale. E’ questo il motivo
hegeliano riferito al Marx de L’ideologia
tedesca e che non è inopportuno,
invece, riportare ad una spiegazione materialistica in senso proprio, contenuta nella Dissertazione. Marx vi procede ad una radicale distinzione tra la
fisica atomistica democritea ed epicurea, rinvenendo in quest’ultima l’origine
di un vero e proprio materialismo (visto che gli atomi non avrebbero a che fare
che con altri atomi), perché la declinazione dell’atomo da una caduta
rettilinea nello spazio vuoto apparirebbe casuale, e priva di determinazione
formale.
L’idea
di un soggetto capace di migrazioni imprevedibili sembra presentarsi
originariamente in Marx proprio nella
dissertazione dottorale[35] del 1841: «gli atomi costituiscono l’unico
oggetto di sé stessi, possono essere in rapporto solo con se stessi, e
pertanto, scontrarsi»; «l’individualità nella sua immediatezza si attua solo
ponendosi in rapporto con un’altra realtà, che è sé stessa, anche se
quest’altra si presenta nella forma dell’esistenza immediata». Rilevante la
conclusione: «Così l’uomo cessa di essere un prodotto della natura solo quando
l’altro, con cui egli è in rapporto, è non un’esistenza diversa ma anch’esso
un’individualità umana, anche se non è ancora lo spirito. Ma perché l’uomo, in
quanto uomo, diventi il suo unico oggetto reale, deve avere in sé infranto la
sua esistenza relativa, la potenza dei desideri e della mera natura. La
repulsione è la prima forma dell’autocoscienza, e corrisponde pertanto
all’autocoscienza che si apprende come essere immediato, come astratta
individualità. Nella repulsione è dunque attuato il concetto dell’atomo, secondo
cui esso è l’astratta forma e, del pari, il contrario, l’astratta materia;
poiché ciò con cui l’atomo è in rapporto sono sì atomi, ma altri atomi. Ma se
io mi comporto con me stesso come con un altro in senso immediato, il mio è un
comportamento materiale. E’ la massima esteriorità che possa pensarsi. Nella
repulsione degli atomi, dunque, la materialità dei medesimi, espressa nella
caduta rettilinea, e la loro determinazione formale, espressa nella
declinazione, sono unite in una sintesi»[36].
La
reciprocità dei concetti di individuo e società è la conseguenza del confronto
tra le autocoscienze. In questo istante, per i francofortesi, l’ «individuo in
senso pregnante è addirittura il contrario dell’essere di natura, un essere che
si emancipa e si estranea dai meri rapporti di natura»[37] riferendosi fin dall’inizio al sociale. E’
un’idea mutuata ancora da Marx, laddove l’individuo, assieme all’esistenza
relativa, deve infrangere «la potenza dei suoi desideri e della mera natura»[38].
E’
fin dalla reciprocità tra individuo e società che nasce la seconda nozione di
individualità, laddove la società invade la sfera del «singolo soggetto»
costringendolo a muoversi in campi sempre più circoscritti; in quel momento si
svilupperà un dinamismo sociale che costringerà «il singolo soggetto economico
a perseguire i suoi interessi di guadagno spietatamente e senza preoccuparsi
del bene della collettività»[39].
Chiara
la matrice marxiana, senza voler ricondurre certi motivi fino alla speculazione
kantiana[40],
si palesa l’ulteriore vicinanza con le tesi di Foucault: la relazione tra
soggetti, già indicata come probabile nesso comune, si colora di una
interessante connotazione, relativa allo scontro
tra emergenze. Non è superfluo, forse, aggiungere che questa emergenza
sottintende una uscita da sé, la
ricerca dell’altro, un eteroriferimento
ancora circoscritto nel genere (l’altro
è come il sé) ma già connaturato ad
una determinazione formale che sola consente la definizione di una singola
soggettività: ciò anticipa e disegna un rapporto con Levinas.
La
reciprocità tra individuo e società, particolare e universale, sembra invece
già rimandare al gioco ‘dentro-fuori’ di Deleuze, e nell’accezione
‘singolo-comunità’ (mera veicolarità del senso) all’opera di Jean-Luc Nancy.
Tra
Foucault ed Adorno c’è corrispondenza non biunivoca, perché è naturalmente il
primo a rivolgersi all’operato della Scuola di Francoforte evidenziando come,
nonostante il diverso retroterra
culturale e tradizionale, gran parte delle tematiche trattate a partire dagli
anni Settanta in Francia vengano quasi a sovrapporsi e a completare le analisi dei francofortesi. In una
intervista[41] Foucault da un lato lamenta la scarsa
diffusione delle teorie della scuola, dall’altro assicura che se avesse
conosciuto quelle teorie fin dai tempi d’apprendistato avrebbe evitato «molti
giri tortuosi» e seguito alcune delle «strade aperte dalla Scuola di
Francoforte»[42].
Muovendo
da questa indicazione, alcuni si sono rivolti ai problemi posti dall’ istanza
normalizzatrice, allo spazio che quest’ ultima lascia o lascerebbe
all’individuo[43].
Peter
Dews, in Potere e soggettività in
Foucault : «i continui dinieghi di Foucault che si possa considerare il
potere come una cosa posseduta da gruppi o individui diventano comprensibili
alla luce della descrizione weberiana della transizione da forme di
dominio ‘carismatiche’ e ‘tradizionali’
a forme ‘legali-razionali’»[44].
Ciò significherebbe che le due tematiche, quella weberiana e quella
foucaultiana, avrebbero un punto d’incontro nel fatto che Weber stabilisce
elementi che poi Foucault attribuirà «al potere per sé nella sua specificità
storica»[45].
E
ancora: «nelle società moderne, il potere non dipende dal volere e dal
prestigio degli individui, perché si esercita attraverso un macchinario amministrativo
impersonale che opera secondo regole astratte»[46]:
queste ultime sono forme di una
strategia che si sovrappone ad
un’altra -l’amministrazione sul sistema
del diritto - entrambe poi cospiranti ad
una effettualità del potere (gioco di forza). Questa descrizione convergerebbe
con la riflessione di Horkheimer ed Adorno culminante nella descrizione di una
«soggettività vuota e adattata che ha perso quell’autonomia per il cui amore
era iniziata la conquista della natura»[47].
Porre
l’accento sull’iniziale sviluppo del soggetto, e sull’impossibilità di una
sopravvivenza di quest’ultimo in un contesto che ecceda nel perseguimento di un
interesse privato[48] conduce infine Adorno a lamentare l’esuberanza
della totalità in direzione dell’individuo. L’aforisma «Il tutto è il falso»
indicherà , nel famoso capovolgimento della formula hegeliana, il precario
equilibrio tra momento e totalità, individuo e società, particolare ed
universale.
A
questa invadenza del tutto corrisponde, in Foucault, la minimalità dello spazio
subiettivo, il residuo che la formulazione e l’estensione del comando lasciano
al quale della libertà singolare. Al
soggetto è consegnata la mera intenzionalità, dal momento che una volontà
indirizzata appare incapace di raggiungere il suo oggetto, se non in modo
casuale. Alla totalità indifferenziata di Adorno potrebbe somigliare in
Foucault la tracimazione delle relazioni di forza, l’onnipresenza del
potere (e purtroppo però, per Foucault,
ogni relazione è già potere).
La
dinamica sociale scaturita dal prevalere dell’interesse privato - la
nullificazione che produce nell’individuo -, diventa in Foucault uno dei motivi
che spiegano e fanno da presupposto (al)l’introduzione di nuovi meccanismi incrociati di potere-sapere. Ad esempio, in
alcune conferenze tenute da Foucault[49],
l’introduzione della pratica dell’esame (ed il conseguente sviluppo delle
scienze umane) all’interno della
‘società disciplinare’ è motivata dalla necessità di un controllo
sociale minimale[50] reso necessario dalla nuova distribuzione
economica sorta alla fine del secolo XVIII.
Un
altro punto comune esiste anche tra la teoria della società amministrata
fondata sulla coazione, e la società disciplinare descritta da Foucault. Nella
fase classica della Scuola di Francoforte esiste una circolarità tra la
necessaria amministrazione e la tendenza di quest’ultima ad assumere una
posizione autonoma e talora contrapposta a quella di ciascun amministrato[51].
Questa tendenza assume la forma della coazione perché nasce dalla
contrapposizione, ma resta tuttavia una forma sottile di controllo che tende,
attraverso molteplici meccanismi, a ricostituire una falsa conciliazione fra
soggetto ed oggetto: il soggetto diventa egli stesso oggetto, secondo
un’intuizione che caratterizzerà gran parte della riflessione postmoderna.
L’industria
culturale, che gestisce ma anche indirizza il gusto, è uno di questi meccanismi
di controllo. Da questo momento in poi, vero diavolo in musica, ogni riuscito
tentativo di interfacciare il gusto dell’utenza verrà contrabbandato come
proliferazione della strategia industriale e rifiutato con monolitico disprezzo
da tutti gli intellettuali ed i compositori di grido.
Un
ulteriore ghetto autoesclusivo. Una ideologia capace di preformare i linguaggi
ed accecare la vera ricerca di soggetti/oggetti estetici.
Numerose
altre analogie tra i due autori sono nell’individuazione, molto più
caratterizzata in Foucault, della strumentalità
e trasversalità di
scienze tradizionalmente immuni dall’ingerenza del potere o della totalità, e
che vengono invece ricondotte allo stesso ‘diagramma’, o al medesimo ‘campo di
forze’. Adorno fa riferimento al caso
della sociologia empirica, che fornisce dati che possono facilmente essere
strumentalizzati «da ogni forma di amministrazione»[52],
utilizzando sistemi come l’indagine demoscopica, la quale «merita di essere
insieme considerata e disprezzata»[53].
L’errore risiederebbe, per Adorno, nello scambiare la volontà di tutti con la verità assoluta, per il solo fatto che
«non è possibile accertarne un’altra»[54].
Foucault, dal canto suo, teorizza,
all’interno del sistema disciplinare, la coestensività tra scienze umane
(sapere) e potere, attraverso la formazione di strutture di controllo (esame).
Anche per Foucault pensare ad un ordinamento sociale basato sulla volontà di
tutti è profondamente illusorio, perché si ignorerebbe la reale incursività del
potere[55].
Quest’ultimo utilizza il meccanismo disciplinare per rendere strumentali anche
scienze umane come sociologia, psichiatria, psicologia. ‘Disciplina’ è quello
strumento giuridico (e non solo) di verità (di verità plurali) che consente una
‘strutturazione’ del diagramma o della rete. Queste discipline vengono a
costituire una sorta di controdiritto. E
a un contropotere si
riferisce lo stesso Foucault alludendo a quello che viene dal basso e che
«permette a gruppi, comunità, famiglie o individui di esercitare un’azione su
qualcuno».
Questo
contropotere (e, in subordine, anche il controdiritto), come la semplice
‘resistenza’ prevista da Foucault, ha la rilevanza di una mera presa d’appoggio
della quale il potere si serve in ogni caso. Entrambi sono già inclusi nel
diagramma delle forze agenti. Negli spazi minimali in cui Foucault dà spazio
alla possibilità di una opposizione tesa a sostenere effetti apparentemente
legati ad una volontà dei soggetti politici agenti, potrebbe aprirsi una
possibilità di intevento volitivo del soggetto. Ma ciò non corrisponde alla
logica complessiva del sistema: queste ‘aperture’ devono da noi essere intese
come opzioni già previste dall’andamento
casuale del potere.
Al
confronto tra l’istanza normalizzatrice adorniana e la tecnologia
normalizzatrice di Foucault, occorre specificare che, specie per il secondo, dal punto di vista
della sovranità, ogni tentativo di
fondare una teoria che determini l’autonomia dei soggetti di conoscenza
risulterebbe fallace. Le stesse discipline,
già coinvolte per effusione del potere, formerebbero il primo nucleo di
quel soggetto ipoteticamente libero sul quale qualsiasi teoria viene a fondarsi.
Questo soggetto è invece eteronomo già in partenza, come l’istanza
normalizzatrice lamentata da Adorno è in qualche modo già inserita nel
diagramma al livello dei singoli nodi individuali. E’ per questo che ciascun
dire, anche nel caso delle cosiddette ‘resistenze’, è un detto che si fonda
sulle operazioni disciplinari di controllo. L’istanza normalizzatrice diviene
un «controllo coagente sempre più serrato del corpo e di ‘tecnologie
normalizzatrici del comportamento’»[56].
Sembrerebbe,
così, che volendo immaginare l’uscita dallo stallo occorra dedicarsi alla
ricerca di brecce, sacche interne, tali da consentire al soggetto, vale a dire
ai soggetti, di progredire in modo volontario. Cioè secondo qualità e con un
percorso di senso.
Se ci si rivolge in modo capillare
(benché sintetico) alle teorie di Foucault ci si accorge subito dell’eccesso di
intrusività del potere sul soggetto. Individuare in alcuni dei soggetti
possibili spazi residuali di relazione estranei all’ingerenza del potere e tali
da consentire al soggetto l’utilizzo di libere cose (merci) in circolazione è
importantissimo. Soltanto attraverso questa relazione sarà possibile assegnare
un ‘senso’ di percorso all’agire dei soggetti, dalla sfera della capacità
critica a quella della capacità creativa. L’analisi sociologica e giuridica
(nella sua validità) dovrà portare allo stesso punto di quella estetica; solo
così la nostra visibilità sulle forme dell’arte potrà essere confermata.
Nella
Volontà di sapere [57],
Foucault riferisce della necessità di fondare una analitica[58] capace di mostrare il cammino del potere, di
tagliare finalmente la testa al monarca[59],
di affrancare la nozione stessa di potere dal privilegio teorico della legge e
della sovranità[60],
nell’intento di smascherare una duplice
impudenza: l’autoaffermazione del potere quale principio del diritto
(attraverso l’identificazione tra volontà del monarca e legge, secondo il
postulato che il discorso vero viene pronunciato da ‘chi di diritto’) e la
finzione che il suo campo di azione sia limitato alle semplici procedure del
divieto e della sanzione. La miglior efficacia del potere risiede così nella
sua capacità camaleontica: più riesce a nascondere, più è in grado di
restituirsi i risultati che si era proposto. Sarebbe infatti intollerabile al soggetto
immaginare una completa privazione di libertà (libertà dalla molteplicità dei
rapporti di potere, dalla loro effettiva capillarità): camuffato nella semplice limitazione negativa - di non
infrangere il divieto per non incorrere nella sanzione -, il potere concede l’illusione dell’esistenza
di una sfera personale ed esistenziale ancora inviolata, ed inviolabile a
condizione che il comando resti a sua
volta intatto. Questa integrità si fonda sulla presunzione che il comando resti
in sé e per sé: in sé nella sua mera formulazione, per sé nella restituzione al
concetto senza aver subìto resistenze. Ancora in sé perché mantiene una forma,
e per sé quando percorre la pluralità di campi disponibili mantenendosi non
contraddetto.
Ma
il comando può ancora (mai) sopportare questa purezza? Non è piuttosto sempre
mediato dalla pluralità degli ostacoli che pure alla fine supera o coi quali si
scontra (illecito)? Quando il potere finge l’integrità del comando tende
innanzitutto a farne scomparire la derivazione occasionale. Ma la norma è sempre
occasionata, perché trova la sua legittimazione[61] nella sua alterità, nella capacità di
rimandare ad altro. Questa necessità
logica di essere fondata viene utilizzata dal ‘potere’ per attuare la prima
delle sue impudenze, per collegare alla verità ciò che è solo detto dal
legislatore, e detto per rimediare o per ricucire con strategia e circostanza
(a)gli strappi derivati dagli scontri dei vettori.
La
mistificazione relativa al comando non si esaurisce qui: è nella semplicità ed
unicità del meccanismo divieto-sanzione che si raddoppia. Mai il comando riesce
a percorrere intero il suo percorso, a chiudere il cerchio, e ritornare integro
‘per sé’, se non immaginando,
contraddizione in termini, una ‘terza forza’ neutra. Questa ‘terza forza’, che
è la paura della sanzione, è invece effettivamente in grado di scoraggiare
l’illecito ed è, per Foucault, parte del gioco: entra in campo modificando le
relazioni e frantumandole. Per questo il comando non può mai essere integro, perché
non riesce mai ad essere unitario: la sua efficacia è data proprio dalla sua
adattabilità, e quindi dalla possibilità di frantumazione e scissione.
Dall’altra
parte del comando si colloca la seconda impudenza, sotto le spoglie di un’ampia
libertà concessa alla persona. Ma ‘tutta’ questa libertà è infine solo quella
residuale: essa è cioè sempre soltanto seconda, pur concedendo integro il
comando. La libertà, ancorché sia condivisa quella altrui, ha un limite più
forte e principale nel comando. Ed ha anzi per di più un limite di principio
perché il comando sembra stabilire quali sono i campi in cui la libertà
individuale può sciogliersi e quali quelli in cui deve irrigidirsi. Il comando
deve poter trasformare la piccola resistenza incontrata in un «punto
d’appoggio», in un appiglio dal quale lanciarsi alla realizzazione dei (di)
suoi effetti, per conservarsi liquido e multiplo.
Ecco
allora che la estraneità tra comando e libertà personale tende ad affievolirsi,
confondendo e mescolando in un’unica soluzione i due momenti: quando il comando
entra nel merito, quando è in grado
di incidere le qualità, stabilendo quale sia la nostra minor libertà, esso
s’è già mescolato con la libertà singolare, ed ha confuso questa libertà con la
realizzazione di effetti che a questa restano estranei. Allora anche l’unicità
della sfera di libertà è menzogna: non è autonoma che per quantità, e quindi
mai realmente autonoma. Al soggetto, al vecchio soggetto, sono possibili ‘scelte’ circoscritte e numerate, azioni già
previste nel loro genere: altre gli sono precluse, e confinate in un campo che
Foucault definisce ‘esclusivo’, perché il potere si dimostra in grado di
assimilare ‘recintando’, escludendo.
Non
avrebbe propriamente senso parlare di ‘scelta’ e quindi nemmeno di libertà: il
potere ha già deciso il ‘quale’, ha già programmato le devianze, ed è in grado
di affrontare ed utilizzare qualsiasi resistenza. Ciò conduce Foucault a passi
ulteriori e inevitabili.
Foucault
procede negativamente. Il potere non è identico al sapere, come alcuni avevano
ritenuto[62],
anche se la relazione tra i due concetti viene definita coestensiva. L’intreccio, e talora la sovrapposizione, è dovuto
alla cellularità ed alla serialità, le costanti metodologiche che richiamano al
sistema (ché tale ora ci appare) mobilità e pluralità. Ne La volontà di sapere si
afferma che il potere non è forma di assoggettamento dissimile dalla violenza
per la sola sussistenza di una regola: questa violenza non è mai costitutiva
della nozione di forza in sé, come accade per il diritto naturale. Lo precisa
Deleuze quando considera l’accezione nietzschiana della ‘forza’ in Foucault:
ogni forza è già rapporto, il suo unico oggetto «è costituito dalle altre
forze»[63].
La violenza è soltanto la conseguenza della forza, e si esplica nella
modificazione coatta di ciò che è estraneo al vettore considerato. Non bisogna
confondere uno dei risultati con ciò che
definisce la forza: essa è tale per il solo fatto di essere azione, relazione,
interazione. Non potrebbe pertanto esistere isolata, ma solo forza come «azione
su azioni», come variabile capace di agire su altre variabili[64].
Ancora,
«il potere non è una forma»[65],
non va confuso cioè con alcuna
forma-Stato: e anche in questo senso va liberato dal privilegio teorico
della sovranità; esso non è dato dall’insieme degli organismi giuridici e
amministrativi che garantiscono la sottomissione del cittadino, perché non si
esaurisce nell’opposizione binaria dominanti-dominati. Non garantisce la
gerarchia[66].
Così, se da un lato non è costituito dalla violenza (che ne diventa strumento
eventuale) dall’altro non si esaurisce nel dominio (che ne è effetto
mascherante).
Il
potere di Foucault è sempre obiettivo, da due punti di vista. In primo luogo
perché è intenzionale: ogni potere si esercita per conseguire intenti o
obiettivi. Poi perché è oggettivo: non è fondato sulle scelte individuali del
soggetto. La oggettività indica la immanenza al campo delle relazioni di forza, non è esclusiva di intenzionalità , ma
l’intento realizzato non tiene conto della scelta individuale. Il presupposto è
nietzschiano, e riguarda la casualità d’esito nello scontro di forze. Foucault
stesso delinea questo principio in Nietzsche,
la genealogia, la storia , in relazione alle idee di ‘provenienza’ (Herkunft) ed ‘emergenza’ (Entstehung). All’ ‘origine’, che è
quella che rimanda ad una altezza ed una
profondità metafisiche[67] Nietzsche aveva opposto la provenienza come
stirpe, appartenenza al gruppo, e, soprattutto, l’emergenza come «entrata in
scena»[68] delle forze. La genealogia consentirebbe di
evitare la «potenza anticipatrice d’un senso», e di ristabilire «il gioco
casuale delle dominazioni»[69].
Se
ogni vettore segue la propria direzione (e per questo è intenzionale), l’esito dello scontro è però casuale, non riesce a
mantenere il ricordo individuale degli effetti desiderati. Inoltre, e
soprattutto, il potere scaturisce dalla relazione stessa dei vettori, è
effettivamente oggettivo perché lo scontro avviene prescindendo da qualsiasi
volizione, o volontà individuale.
Per
questo noi sosteniamo che l’elemento volontaristico si attenua nell’emergenza
della mera intenzionalità. ‘Mera’, perché riferita ad una semplice ‘relazione’,
e non al soggetto che si dispone verso l’oggetto: «gli intenti (sono)
decifrabili, eppure può darsi che non ci sia nessuno che li abbia concepiti e
ben pochi che li abbiano formulati»[70].
Anche
Deleuze esclude una intenzionalità riferita al soggetto, perché il campo del
sapere viene ad essere costituito da due forme tra le quali può esistere una
relazione, che è però di non-rapporto. Le due forme di sapere sono quelle della
Luce-visibilità e del Linguaggio-enunciato, ed ognuna di esse ha proprie
caratteristiche: «come potrebbe esserci intenzionalità di un soggetto verso un oggetto dal momento
che ognuna delle due forme ha i propri oggetti e i propri soggetti?»[71].
Secondo Deleuze il luogo riservato all’intenzionalità può essere soltanto
nell’intreccio tra le due forme del sapere, un intreccio che ancora non si
piega sul sè, non costituisce quel dentro-come-piega-del-fuori in cui il
soggetto potrà trovare residenza. Questo intreccio lascia parlare una
intenzionalità microscopica, particellare, microcellulare, ben lontana dal vecchio soggetto (essa,
tuttavia, già illustra alcune caratteristiche delle nuove forme di
soggettività).
Se
rispetto alla realizzazione di effetti il potere, che è immanente al campo,
riesce sempre a conseguirli (un effetto vale l’altro nel gioco casuale dei
reciproci domini), l’individuo non riuscirà mai a sortire l’effetto desiderato,
per la casualità che indirizza in modo incerto le singole intenzioni. Da qui la
‘effettività’ della storia, la quale evita accuratamente un fondamento
qualsiasi, anche la prospettiva che cerca di rintracciare ‘costanti’ nel movimento degli eventi.
Il
potere (oggettivo e meramente
intenzionale) è immanente al campo di
forza, e l’azione su azioni, la forza, Foucault la confonde con la relazione:
quest’ultima è sempre una relazione di forza; presuppone una forza plurale che
è tale già nel semplice rapporto tra particelle. Questa particellarità
microcellulare esclude che il potere sia confinato nell’ambito del semplice
comando negativo, che è semmai espressione di una strategia di realizzazione di
effetti. Il comando, la legge, è propriamente una forma di strategia, e il diritto costituisce un intero sistema strategico[72]:
esso è innanzitutto una rappresentazione del potere, dove rappresentazione è
intesa non come ulteriore maschera, mistificazione o illusione, ma come «modo
d’azione reale»[73].
E difatti il diritto trova posto come corollario del potere, come una delle strategie con le
quali i rapporti di forza realizzano degli effetti. E’ così che il rapporto di
forza sembra a noi confondersi con la semplice relazione tra singolarità:
esso è immanente all’intero diagramma, che diventa «diagramma di forze», e
presume l’esistenza di singolarità considerate soltanto nel loro reciproco
interagire nella turbolenza di vettori incrociati. E’ così che viene rovesciato
il binomio diritto-potere, perché il potere concreto è quello che rende
effettiva ciascuna sua strategia. Una scienza utile a smascherare questa
onnipresenza concreta è l’analitica del potere. Quest’ultima «non prende più
per modello o per codice il diritto»[74].
Se il diritto è per Foucault una
strategia del potere, aggiungeremo che il diritto è una strategia d’esclusione.
Sovente legato ad un luogo particolare, il diritto definisce le modalità di
comportamento, escludendo chiunque non ne sia a conoscenza. Lo straniero, il
paria, l’uomo che in buona fede la ignori, non sono scusabili per aver infranto
una legge. Perciò il diritto è in primo luogo configurabile come un recinto
ideato non solo per proteggere chi sa, ma soprattutto per difendere chi ha.
Tutta l’impalcatura della legge traballa quando si mette in discussione la
legittimità della proprietà. Già solo nei termini, l’alterità viene tenuta alla
larga.
Il
diritto si configura come una delle strategie possibili perché strategico è
l’incrocio tra vettori, e strategico (effettivo) il risultato casuale di
qualsiasi incrocio. ‘Strategia’ è «lo
stesso diagramma di forze o di singolarità interne ai rapporti» di forza[75].
Una forma interna a questa strategia è la legge, col meccanismo
divieto-sanzione; una seconda forma è la paura della sanzione; una terza è
collegata all’esecuzione della pena. La giustizia, problema centrale già in Sorvegliare e punire, è così un esempio
ulteriore della capillarità del potere, e della coestensività tra quest’ultimo
e il sapere; una molteplicità magmatica di giudizi e giustizie si aggiunge per Foucault all’originaria unicità del
provvedimento: vi si sommano istanze apparentemente istallate nella zona del
sapere, ma che infine «spezzettano il potere legale di punire»[76].
Quale
spazio resta al soggetto? Nessuno, evidentemente, per il vecchio soggetto di
conoscenza. Esso viene frantumato in una miriade di altri soggetti: è talora
quello che ha preso coscienza della propria impossibilità di dire, conoscere,
essere titolare di diritti[77],
talaltra quello che si fa consapevole della propria pluralità, cercando
altrove (in un «fuori») il significato del sapere ed il luogo della
propria residenza (la «stanza centrale» di Deleuze). La conoscenza si trasforma
in sapere prospettico, che non è altro
che un sapere storicizzato, mobile a sua volta e fondato sull’esperienza, un
sapere che nasce dallo scontro, dalla lotta tra le due sue forme dell’enunciato
e della luce; una relazione data, paradossalmente, dal non-rapporto [78].
Anche da questo punto di vista, cioè dall’interno della coscienza e del
soggetto, l’intenzionalità viene ad attenuarsi, e diventa addirittura
‘infinitesimale’. Ciò che Foucault rifiuta è che la coscienza intenzioni la
cosa, o che si significhi; sia gli enunciati che la luce non intenzionano
nulla: «il sapere è irriducibilmente doppio, parlare e vedere, linguaggio e
luce, questa è la ragione per cui non
c’è intenzionalità» [79].
E se c’è essa appare «reversibile e moltiplicata».
Si può tendere una stringa logica che
parte dal soggetto, attraversa il potere e arriva al governo. Sulla soglia del
governo si verifica che anche un soggetto collettivo si trova costretto ad
attraversare il potere. Ciò è estremamente rilevante perché contiene in nuce la
ragione della perdita di rappresentanza. Quest’ultima troverà un contraltare
ben visibile in campo estetico.
Il
‘governo del sociale’, «come spazio (...) di sperimentazione di una possibile
via della riforma, dimostra la non contraddittorietà dei due termini
tradizionalmente contrapposti nella concezione liberale classica, l’emancipazione
cioè dell’esistenza individuale e l’espansione dello Stato nella vita civile»[80].
La stringa è fondata su tre eguaglianze: il soggetto è potere; il potere è
governo; il governo è a sua volta soggetto. Il soggetto è potere perché è «un
precipitato di relazioni di potere»[81], e può avere senso soltanto se letto
attraverso il diaframma del sociale, presumendo cioè la preesistenza di
relazioni di potere. Ma qui può forse rilevarsi la scarto già segnalato tra la
semplice relazione ed il rapporto di potere, tra incontro e scontro. Il potere
è governo perché «governare è agire in modo ‘da strutturare il campo di azione
possibile di altri’»[82].
Cioè, il governo presume l’esistenza di una sfera di autonomia e di libertà del
soggetto nella sua relazione con altri.
Ma
questa libertà è soltanto residuale, con margini già qualificati dal potere. E
se la libertà è nella resistenza senza la quale non può esserci potere, allora
in F. anche la resistenza è uno strumento per la continuità del potere.
Il
governo è poi a sua volta soggetto, perché esso è dato proprio dalla relazione,
dal fatto che trova un suo luogo nello strutturare il campo d’azione degli
altri. Il soggetto si situa a metà strada tra il possibile del governo ed il
possibile del soggetto, riferendosi alla possibilità della rivolta, alla
«intransigenza della libertà». Pure questa intransigenza è strumentale, è a sua
volta appiglio per una presa, pretesto della turbolenza infrastratica.
Il
governo del sociale sembrerebbe svilupparsi in modo separato dall’insieme dei
contenuti giuridici e delle questioni riguardanti l’interesse individuale, cioè
la proprietà privata: si rispetta il diagramma foucaultiano che vede lo Stato
ed il diritto come semplici strategie del potere ( e questa visione è sicuramente
pragmatica, razionale e positiva). Il cittadino non possiede più i diritti che
lo Stato e il sistema del diritto sembravano concedergli; gli resta soltanto il
dovere: ogni contrapposizione di matrice liberale tra i due settori sembrerebbe svanire, finisce «l’io possessivo, soggetto
di attributi che ne allargherebbero la libera sovranità»[83].
Ma
questa consapevolezza non sembra lasciare spazio al possibile, alla libertà di
una singolarità (altro ancora è il problema delle ‘singolarità selvagge’), se
non nell’ottica di Nietzsche.
Il
nuovo soggetto di Foucault: da un lato
profondamente lontano dall’uomo e dal garante che fu la divinità, dall’altro
simile a una macchina che sfugge al carbonio per rifugiarsi nella realtà del silicio. Non più sguardo sull’infinito[84],
ricerca della profondità originaria, ma caduta verso la quantità, che è
indifferente all’infinito perché illimitata[85].
L’auspicio va tristemente verso una forma «che non sia peggiore delle due
precedenti[86]. Quest’uomo possiede tutte le qualità e tutte
gli sono indifferenti (aristotelicamente non possiede quindi nessuna qualità)[87];
possiede tutte le virtù, ma le manda a dormire[88];
dalla sua relazione con il ‘fuori’ ritaglia un ‘dentro’ come piegamento;
tuttavia si autointrude per evitare ogni esclusione[89].
Il soggetto è, in definitiva, inquieto, diviso, frantumato; il suo movimento è
la sua nuova fragilità, la sua «eccedenza rispetto a ogni possibile
individuazione»[90].
Ecco
lo slittamento positivistico verso ciò che è possibile numerare, enunciare.
Scambi microscopici che effettivamente si svolgono sullo stesso piano delle più
avanzate tecnologie informatiche: ed il molto piccolo è suscettibile di essere
facilmente scambiato, confuso, sovrapposto. Le stesse specie di sapere vengono
definite coestensive perché il loro intreccio sfugge, in fondo, ad una
analitica che non si perda nella ricerca di ciò che è impossibile individuare.
Avrebbe
ancora senso parlare di diritti umani irrinunciabili, o ritagliare uno spazio
di libertà non solo residuale, nell’incombenza della forza come necessità?
Questa forza si è detta vettoriale, multiforme, infrastratica ed immanente al
piano delle relazioni interpersonali, quando non addirittura identica a
quest’ultime. L’intero sistema foucaltiano potrebbe definirsi proteiforme, perché il potere assume mille
sembianze diverse, ineffabili e tuttavia efficaci, in grado di sortire effetti
giuridicamente rilevanti. Per questa ragione il potere «non si possiede, ma si
esercita», e la rete che presuppone è tale da essere un campo di trasmissioni
incrociate piuttosto che un piano inerte. Anzi, vi si intersecano mille piani,
e le forme tradizionali della forma-stato, della violenza, della repressione,
dell’alternanza dominanti-dominati, vi compaiono come maschere occasionali.
Tra
le urgenze più pressanti, quella di favorire una ‘uscita dal sistema’ che possa
ritagliare nuovi spazi al soggetto, non
spazi ad un nuovo soggetto, ad un soggetto plurale.
Un
nodo centrale è rappresentato dall’ effusività del potere, già presente al
livello delle semplici relazioni interpersonali. Per Foucault, difatti,
ciascuno trasmette un certo potere, del quale è titolare.
Ma
la titolarità di un potere pare a noi comportare soltanto l’attitudine a trasmetterlo, anche alla
presenza di un soggetto in grado di esprimere soltanto la mera intenzionalità.
Esistono
relazioni che nulla hanno a che vedere con lo scambio di vettori di forza? e,
soprattutto, queste relazioni possono prescindere dalla possibilità del soggetto di essere
consapevole, o di controllare ed indirizzare la
«titolarità»[91] di un certo potere? L’attitudine a trasmettere
quest’ultimo può effettivamente concretizzarsi in una omissione, anche in
assenza di una precisa volontà?
Questa
l’alternativa: o la effusività, la capacità mimetica e camaleontica è tale da
trascinare con sè anche doni e sacrifici, o si stabilisce una differenza, una
gerarchia, una rigidità ‘arboricola’[92],
non ‘rizomatica’, tra la relazione e la relazione di potere. Questa distinzione
sembra di natura logica, e non intende anticipare alcuna conclusione di tipo
diverso. Se si qualifica il potere come linfatico, cellulare, particellare; se
si afferma che investe ogni manifestazione socialmente e giuridicamente
rilevante, allora si sarà soltanto riprodotto il sistema immanente come
trascendente, e di una trascendenza soltanto estetizzante[93].
Se il potere si maschera, esistono
probabilmente dei volti, dietro altre maschere, che talvolta dimenticano di
farsene schermo; e maschere che come vetro trasparente appaiono inaccessibili
allo scambio tra vettori, perché appartenenti a dimensioni diverse.
Stranamente, più l’analitica del potere si complica, più sembra nascondersi la
possibilità di «uscite dal sistema» che le consentano di autoriferirsi e poi di
eteroriferirsi. Un sistema realmente aperto dovrebbe più appropriatamente
assumere la forma di una spirale, con un punto di fuga individuato da un
vettore costantemente crescente.
Qualcosa
di simile è in Hors Sujet [94] di
Levinas, il problema è quello di
individuare il luogo dei diritti fondamentali dell’uomo, di arrivare ad un
«diritto originario» nel quale siano intesi i diritti a priori , quelli cioè «indipendenti da qualsiasi forza (...)»,
anteriori a qualsiasi concessione, giurisprudenza o
tradizione[95].
La spirale in fuga si dipana dal rigido e spietato determinismo naturale e
sociale per avvicinare l’unicità di ogni individuo, ciò che lo fa appartenere
al genere senza tuttavia negare l’eccedenza della sua singolarità: l’individuo
non è identico alla sottrazione degli altri membri dal gruppo. Il punto di partenza di Levinas è quasi
assiomatico: gli preme dimostrare l’evidenza dell’esistenza di diritti
naturali. Ad essi è dovuta la concreta unicità
di ogni essere umano, prescindendo
dalla sua appartenenza o non appartenenza ad un gruppo sociale, al di là di costruzioni logiche,
storiche, esistenziali.
E’
questa la nostra spirale: la
possibilità per l’individuo di essere
altrove[96]. Anche Levinas non
smette di sottolineare che l’unicità di ogni uomo consiste nella sua alterità,
«unicità al di là dell’individualità di individui molteplici nel loro genere»;
l’alterità come sottrazione all’ordine stabilito dalla natura o dalla società.
Ma alterità anche dal genere, e che, paradossalmente, rimanda al genere:
l’apertura sta nella differenza come «non-indifferenza». L’altro non sta in
rapporto con l’io attraverso una semplice norma di reciproca delimitazione
(perché talora diritti inviolabili cedono alla pressione di una buona volontà concepita nella sua interezza,
l’universalità della kantiana massima dell’azione), ma attraverso un rapporto
che è di «prossimità»[97].
L’altro, in definitiva, sta di fronte all’io.
Questa
fenomenologia dei diritti umani è, probabilmente, esemplare per alludere
all’uscita da sé ed eludere, contemporaneamente, la semplice autoreferenzialità
del soggetto[98];
e tuttavia la semplice relazione tra individui è ancora qualcosa di più
generale, ed antecedente al rapporto di prossimità, per il quale l’uno è di
fronte all’altro, l’uno riconosce all’altro una generica qualità di vicinanza ,
di titolarità di diritti.
Relazione
è già percezione[99] della presenza altrui attraverso qualità comuni. L’io può riconoscere l’altro essente soltanto
nella dimensione dell’essenza, e non in quella dell’essere; può riconoscerlo
soltanto se perviene a questo riconoscimento del quale-in-comune, qualità che
non sono identiche alla somma delle
quantità di ciascuno[100].
La stessa logica, in un linguaggio che
proceda per giustapposizioni casuali, viene a cadere, perché il senso
impazzisce e lascia dietro di sé soltanto una metodologia giocosa. Se il senso
rimbalza di continuo, e non si riconduce all’altro, non può identificare la
qualità di quest’altro, ma soltanto la successione numerica di altri
indifferenziati.
Questo
pare essere l’errore di Jean-Luc Nancy, il quale pure si è dedicato alla
nozione di comunità si è dedicato, con esiti incerti. Per ‘comunità’ egli non
intende nulla di organicistico, intimistico, infrapolitico. Ne La comunità inoperosa[101] Nancy
prende le distanze sia dall’interpretazione
cristiano-personalistica che da quella legata alla Volksgemeinschaft nazista,
indicando invece un percorso che
procede dall’assunto di una
nozione ben difficilmente traducibile o identificabile se non in modo astratto:
quella di comunità come «essere-in-comune». Qui la particella «in»
non significa «essere insieme», né «essere con», ma allude invece alla semplice
veicolarità, all’ ‘essere’ inteso come vettore in movimento. Quest’ultimo,
nell’uscire da sé, nel raggiungere il limite che gli è possibile, tocca
l’esteriorità irriducibile di ciò che pure è ancora interno.
Il
sistema di definizioni di Nancy è basato
sulla esclusione reciproca di concetti tipici della filosofia
(esistenza, individuo, proprietà, comunità). Il movimento avviene attraverso
l’eliminazione dell’ intermediazione dialettica, dal momento che l’opposizione
dentro-fuori e soggetto-oggetto, come Adorno aveva segnalato nelle sue lezioni[102],
raggiunge l’aporeticità del troppo esteso, la tautologia di un soggetto talmente profuso in sé da rischiare la
completa astrazione da tutto quel che potrebbe invece conoscere[103].
Adorno, infatti, aveva già riconosciuto come nesso essenziale la tesi «che la
profondità del soggetto si costituisce solo in quanto esso si aliena a sé
(...), e cioè esce da sé ed entra nell’altro»[104].
Tale profondità, raggiunta in fin dei conti sempre dal soggetto, avverrebbe a
sue spese, perché «più lo sprofondamento del soggetto in se stesso è completo,
tanto più, per essere veramente tale, deve escludere ciò che giunge al soggetto
dall’esterno», e diventare sempre più «refrattario nei confronti dei contenuti
che devono essere considerati come estranei al soggetto»[105].
La
tautologia cui fa riferimento Adorno consiste, propriamente, nel movimento del
soggetto. Quando quest’ultimo, per conoscere, esce da sé stesso e procede di
profusione in profusione, migliora al
limite massimo la sua conoscenza, ne
raggiunge il limite esterno, la soglia
inaccessibile, diventando tanto astratto (il termine postmoderno è
‘smaterializzato’) da perdere ogni contatto con l’oggetto da conoscere.
E
proprio nello scontro/incontro con l’oggetto si giocherà la partita
fondamentale del nuovo soggetto.
Nancy
procede senza le zavorre adorniane sul problema dei luoghi e tempi del valore.
Per Nancy, ciò che è singolare è già in comune, e ciò che è comune va inteso
singolarmente. L’unico «senso» filosofico di questa identità consisterebbe
nella semplice reciprocità dei due concetti. La comunità, insomma, finirebbe
con l’essere l’ «esposizione» di ciò che rivela, che dice, «della mia nascita,
della mia morte, di tutto ciò che esiste fuori di me»[106].
E qui risiede, probabilmente, il momento foucaultiano del pensiero di Nancy: la
collettività è l’esposizione delle singolarità le une alle altre: «collettività
intere, gruppi, poteri, discorsi, si espongono qui e ‘in’ ciascun individuo
così come tra loro»[107].
La
«proprietà», ogni singolare proprietà anche come espansione del proprio, è tale soltanto nel suo estremo abbandono,
nella sua consegna a ciò che è esterno[108].
E la stessa filosofia è ciò che è in
gioco nell’ «essere in comune».
E’ importante dedurre il motivo per il
quale non debba (o sia il caso di attenuarne la pratica individuale) esserci
proprietà privata come ‘estensione del proprio’. Quando il soggetto rompe il
confine del proprio oltrepassa la frontiera due volte. La prima per raggiungere
l’altro; la seconda per tornare a sé ad un livello di maggiore profondità o
astrazione. Il movimento, ben conosciuto dagli idealisti, aggiunge strati di
‘arricchimento’ comunitario ad ogni passaggio, e in fin dei conti rende più
astratto o ‘smaterializzato’, se si vuole, il soggetto. Detto con semplicità,
sembra ‘togliere’ qualcosa all’individuo per contribuire alla formazione di un
soggetto poroso, aperto, plurimo. Ma nel complesso nulla lascia pensare alla
possibilità di una astrazione totale, e tale da impedire al soggetto di
riconoscere l’altro (cosa o persona). Questo movimento sarebbe tautologico.
Tornando
a Nancy, il suo percorso lo porta a confrontarsi direttamente con Heidegger,
precisamente con le tematiche relative al Mit-da-sein::
non esiste un Esser-ci che abbia un senso come concetto o cosa, perché
l’esistenza non è né una cosa né un concetto, ma è «la semplice posizione della
cosa»[109].
Vi
è doppia fungibilità tra essenza ed esistenza: «l’essenza dell’essenza è
l’esistenza», vale a dire che l’essenza non è altro che una funzione di
movimento, un posizionarsi, un «esser-gettato»,
un vettore che chiarisce anche il sé come un caso obliquo, possibile
soltanto grazie ad un «altrui».
Ed
ecco il soggetto, plurale in un senso ulteriore rispetto a quello di Deleuze:
qui conta più la sua pura «transitività». E Nancy prende le distanze anche da
Levinas, per il quale il sé consisterebbe nell’essere l’ostaggio d’altri;
conterebbe invece la sola «esposizione»; l’altrui ridotto a una sorta di
categoria pura della declinazione: «tutta l’ontologia si riduce a
quest’essere-a-sé-ad-altrui»[110].
Ma
la parola di Nancy risulta troppo compiaciuta; infiniti rimandi interni, infraconcettuali,
infrastrutturali. La riflessione avviene a ridosso dell’estremo margine
linguistico; e dal momento che un lungo lavorio è già stato dato sui motivi
fondamentali della speculazione, l’interesse sembra spostarsi sulle particelle
intermedie, sui luoghi infinitesimali delle pratiche discorsive. In questo modo
si può spiegare l’affannosa ricerca di uno ‘stile’ che consenta al pensiero di
muoversi in modo nuovo all’interno di
confini terminologici necessariamente allargati con espedienti tecnici.
Uso di corsivi, stringhe logiche individuate da corsivi, alternanza di parole
virgolettate o non virgolettate, con maiuscola o senza, e via di seguito in un
gioco combinatorio studiato in modo da favorire l’apparenza dell’espansione del
pensiero, ma sostanzialmente legato, poi, a varianti concettuali che si muovono
comunque all’interno di forme già
presentate. Ciò sembrerebbe indicare che in definitiva l’intuizione che è alla
base del lavoro filosofico sia solo di natura linguistica: individuato un nesso
particolare, come ad esempio la stringa <<essere-in-comune>>, si
procede allo sviluppo di questa invenzione, ad uno sviluppo strutturale, e
fortemente ancorato all’azione di una logica tradizionale, fondata sull’analisi
delle possibili (delle inevitabili) variazioni comportate dall’avvento della
nuova stringa. In questo caso, l’uso di un trattino comporta una serie
lunghissima, interminabile, di varianti, e si può ben intuire come l’unico
interesse rappresentato da un procedimento di questo tipo consista nell’ammirazione
per l’invenzione della stringa di partenza, e nella costatazione del
conseguente uso virtuosistico della logica nei suoi successivi sviluppi.
Un
linguaggio stratificato - non certo nel senso archeologico e foucaltiano del
termine - è un beneficio da tenere in gran considerazione, ma del quale fruire
in un modo che corrisponda alla effettiva complessità degli insiemi e dei
nuclei di pensiero che stanno svolgendosi.
La
parola non deve anteporsi al contenuto, ma scaturire dalla necessità e dalla sequenza
piramidale, talvolta gerarchica, delle intuizioni che si presentano. Altrimenti
il gioco diventa inutile, e il senso non si concede nemmeno lo svolgersi del
possibile del concetto.
Ci
si può tuttavia interrogare sulla legittimità di alcune ipotesi linguistiche.
Un esempio: nel protendere al limite sia l’esteriorità del singolare,
dell’individuale, del particolare, e contemporaneamente l’interiorità del
comunitario il pensiero incontrerebbe un assioma che può «essere enunciato in
questi termini: il singolare è in
comune, il comune è singolarmente e
il senso ha luogo secondo questa
reciprocità»[111].
Sulle
prime due sequenze della stringa sorge la sola obiezione sul concetto di
«limite», secondo noi strettamente connesso con le possibilità reali di uno «sprofondamento»
del soggetto. Ma come spiegare la terza parte?
Come può il senso, un senso qualsiasi, risiedere all’interno di una
linea di congiunzione? Ciò può avvenire soltanto se il limite viene sfondato,
se cioè il senso non si ferma sulla soglia, ma
Il
‘senso’, cioè, consente un ‘oltre’.
Questo oltre, se è tale, non può che essere al di là della linea, oltre il
confine e il limite. Il senso non può essere il limite[112].
Nancy
definisce il limite come abbandono, come un nulla che perciò non ha un dentro e
non ha un fuori. Ma un limite inteso come linea di demarcazione non è
configurabile nella realtà dei fatti, proprio perché conosciamo e comunichiamo.
Non saremmo capaci di sorprenderci, o di provare curiosità, se questo limite
fosse un nulla senza dentro. C’è sorpresa e quindi anche godimento estetico,
perché il limite viene costituito dal soggetto come soglia che stabilisce il
dentro e il fuori. ‘Rompere’ questo confine, accorgersi all’improvviso delle
‘aperture’ possibili: è questo che rende palese istantaneamente che un limite
vero e proprio non esiste. E’ sul nesso
della percezione individuale, sui confini della proprietà, che si gioca la
possibilità del senso.
Non si può reperire il senso spostandosi
di gradino in gradino su una immaginaria piramide (gerarchia), o procedendo di
piastrella in piastrella lungo piazze quadrettate (stringa lineare). Esso non
può risiedere nella semplice successione numerica ordinata , o per insiemi di
cui scorgiamo in modo evidente il diverso contenuto numerico.
Se ‘metafisico’ è già ciò che rimanda ad
altro (finanche la sequenza uno-due) è pur vero che la contiguità non perde di
vista il limite e non riesce a raggiungere la qualità, e cioè il rinvio ad un
altro illimitato e illuminante. Il brivido, il piacere estetico, senso e
qualità, sono invece in questo allontanamento non numerico e non razionale[113].
La capacità di rinunciare al confine, di
proiettare lo sguardo sull’altro, di infrangere la ritualità del proprio e la
primitiva abitudine di marcarlo attraverso l’apposizione di nome e cognome: è
qui che il senso gioca la sua ultima vera possibilità. Che è anche la prima di
un modo/mondo nuovo, che sta per attestarsi. Cancellare il pregiudizio d’autore
non è un semplice gioco estetico; lanciare i propri file nella rete ipermediale
non vuol dire abbandonarli all’ignoto; concepire opere collettive, uscendo dal
ruolo di compositore o smettere di eseguire opere d’altri uscendo da quello di
esecutore non è un capriccio di fine millennio. Tutto ciò è la risposta
estetica, pragmatica, di chi ha esaurito tutte le proprie insofferenze per
l’asfissia del giuridico e del proprio. Studiare gli oggetti d’arte come merci
non vuol dire essere liberisti, ma semplicemente cancellare questa parola dalle
opzioni possibili, perché in realtà è il proprio in quanto recinto che si sta
mettendo in gioco. Dare rilievo all’atto volontario, dimostrare che esistono
spazi residui di libertà, dà alla rinuncia al proprio la gratuità e
bilateralità di un dono gratuito anonimo. La consapevolezza della scelta di
‘rinunciare a’ non rende il comportamento esclusivo, a senso unico.
Se il senso è nell’altro, il progresso
sarà l’altro nel futuro (ripetizione del dono, attese mai più vuote di
contenuti); la storia sarà l’altro nel passato e nel presente (la cronaca è già
storia, anche nei suoi rivoli di contraffazione).
Con
Comparizione [114], seguito di Comunità inoperosa, Nancy approfondisce
il problema della costituzione di senso, che nella storia occidentale ha
riguardato non tanto il significato dell’esistenza del singolo, del «solo»[115],
quanto del senso nel momento in cui esso viene condiviso. Da ciò il titolo:
ciascuno di noi compare dinanzi ad una condizione comune che «si» espone
denudata, e che «ci» espone nell’ambito di una ineludibile presenza. Siamo
sempre costretti all’interno di un
denominatore comune e, contemporaneamente, ma non senza conflittualità,
presenti rispetto ad una condizione che ci vede essere in comune assolutamente.
Il
senso, come è lecito aspettarsi, «non ha luogo che per più d’uno. Anche e
soprattutto laddove l’unico, il ‘singolare’ esige il ‘suo’ senso»[116].
In questo punto, specialmente, si rivela la consapevolezza del «numero», che è
«venuto ad imporsi in ogni pensiero del ‘comune’»[117],
come elemento costitutivo della nostra stessa civiltà occidentale[118],
e fino a comporre, nelle sue spaziature, nel suo aprirsi alla «arealità» (un
puro spazio d’area, superficie), la possibilità della comparizione. Qui
soltanto risiederebbe il senso.
Sul
senso si evidenzia la difficoltà oggettiva di Nancy, tesa ad evitare cadute sul
tema della ‘qualità’. Difatti, l’approfondimento sul ‘senso’, che è ciò che più
interessa, torna solo come occasione: «quel che si presenta (...) è
precisamente la forma (...) della ‘questione’ che è più di una questione: come la comunità si appropri del senso che
è» [119] . E
il senso, per Nancy, ci sopravanza sempre perché non vi è esistenza (fin dalla
nascita) che non sia «in-comune», e
pertanto le nostre modalità di appropriazione di senso sono insufficienti a
raggiungerlo[120].
Tutto
ciò appare chiaro in una nota: «noi non cessiamo d’avere a che fare con
un’assenza di fondamento e di compimento (di sostanza, di soggetto, di senso,
di proprietà, di principio, d’unità o di unicità, ecc.). E’ su questa soglia
che tutti i nostri discorsi vengono meno, ma è anche ciò che dà la possibilità
più propria al pensiero, perfino in questa difficoltà che per il momento ci
interrompe la parola»[121].
E’ una ammissione di grande chiarezza e onestà. Un senso qualsiasi apparirebbe
poi nella politica, luogo privilegiato perché
più esposto e nudo tra gli esistenti. Qui la stessa esistenza accede a
questo «senso ‘qualunque’, attraverso un «accesso impraticabile che tuttavia
accede»[122].
Ulteriori,
numerose, obiezioni, pertanto, sembrano così articolabili: 1- può il senso
risiedere soltanto nella transitorietà (veicolarità) della particella ‘e’,
‘in’, ‘tra’? 2- E’ in gioco il pensiero della dualità, che ci pare ancora
concepita, alla fin fine, come opposizione, e non come ‘onda’, o
‘onda-principio’. La prima conseguenza del problema della dualità è il rapporto tra sé ed altro, che viene
letto ancora sulla matrice hegeliana-marxiana[123].
3- La rinuncia al senso, per il quale non si trovano più parole, viene posta in
relazione col problema della profondità del soggetto; è proprio nell’estensione
del soggetto che può invece ritrovarsi il seme della relazione e della qualità.
4- Può un «senso qualunque»
legittimare la politica e avere una forza giuridico-sociale? 5- Sono dimostrabili le
affermazioni-pilastro di questa ontologia, e cioè che «l’inesponibile (o
l’impresentabile) è l’inesistente»[124] e che «la non esistenza non ci siamo più a
condividerla, essa non va condivisa»[125]?
6- Come rispondere ai quesiti lasciati consapevolmente irrisolti? e cioè, come
dare diritto all’assenza di un fondamento dell’ essere-in-comune? come
«sostenere il tracciato dell’esteriorità», dove escluso è l’altro, l’ebreo,
l’arabo, il nero, il giallo?
A
questi problemi Nancy non sembra fin qui aver dato soluzione[126].
Il contraltare mediato del soggetto alla
fine attecchisce nel campo delle nuove soggettività. Le ‘cose’ agiscono come
soggetti. I soggetti si esteriorizzano; questa emergenza incontra l’altro
indifferenziato - cosa o persona -, più o meno mercificabile. La sua
qualificazione si annida nel percorso di senso. L’uscita da sé si perfeziona
solo quando il soggetto ha riconosciuto l’altro.
Se
alla merce si addice un carattere di feticcio, una sorta di misterioso
simbolismo che semplicemente non fa che rappresentare la possibilità di uscita
da sé -immissione nel sociale- attraverso il momento dello scambio, anche a
quest’ultimo si è riferito un forte portato simbolico.
E’
qui che il soggetto gioca la sua partita più radicale confrontandosi con
l’oggetto. Jean Baudrillard, occupandosi dell’economia politica come modello di
simulazione, ha definito la legge strutturale del valore come un codice che
rimanda alla doppia allusività reale/immaginario tipica della società
postmoderna. In particolare, quando il capitale enuncia palesemente la legge
dell’equivalenza come argomento pubblicitario non farebbe altro che utilizzare
una doppia maschera; una vera e propria manifestazione come occultamento. La
(duplice) simulazione consisterebbe proprio in questo: oggi, «una merce deve
funzionare come valore di scambio per meglio nascondere che circola come segno,
e riproduce il codice»[127].
E il simulacro s’è spostato, perché «il valore di scambio ha per noi, nel gioco
strutturale del codice, il medesimo ruolo che aveva il valore d’uso nella legge
mercantile del valore; simulacro referenziale»[128].
L’eccezionale
emergenza simbolica del sistema è tale da spingere Baudrillard a postulare
l’impossibilità di sconfiggerlo sul piano della realtà: ad ogni sfida non si
potrà non rispondere con qualcosa di altrettanto determinato, secondo l’ottica
del negozio, dello scambio. E’ facile intuire che il punto d’arrivo di questo
rinvio ad oltranza non può che essere rappresentato dal collasso, dalla morte;
e che il soggetto diviene a sua volta
oggetto di uno scambio improponibile, la cui posta in gioco è
Ancora
forme ibride di soggettività sono nell’incontro virtuale consentito dalle
tecniche ipermediali di comunicazione. E’ sempre merce la cosa che, pur se
prodotta dal lavoro di un soggetto, viene immessa in una rete di comunicazione
in modo da mascherarne la provenienza, impedirne l’attribuzione a un autore? Il
soggetto-bots[130],
entità ‘virtuale’ (più che reale, nel sortire effetti), trasformandosi in
impalpabili file che viaggiano in
reti telematiche, è più uomo o software che simula personalità, individualità?
Molti
gli effetti, già segnalati su queste pagine[131]:
l’attenuazione del vincolo di proprietà; la scomparsa progressiva del
copyright; il consolidamento della proprietà collettiva. Nuovi oggetti creano
nuove forme di soggettività; nuovi soggetti, trasformati in bit, creano nuovi
oggetti.
Alla
configurazione dello scenario tipico della comunicazione globale non sono
mancate critiche, ad esempio da parte di Paul Virilio. Egli ha rilevato, tra i
pericoli della virtualità: l’avvento di una stereorealtà (lo sdoppiamento della
realtà sensibile e il conseguente smarrimento dei riferimenti dell’essere); il
turbamento e disorientamento di tutti quelli che, smarrita la percezione
unitaria del reale, perdono anche le nozioni fondamentali di ‘democrazia’ e
‘società’; la delocalizzazione dell’alterità, del rapporto con l’altro;
l’avvento di una ciberneutica della politica che si svolga all’insegna della
conquista di un tempo unico mondiale e di un mondo unipolare, gestito
unicamente dalle multinazionali[132].
Estremamente rilevanti le obiezioni di Armand Mattelart, che individua i limiti
della global marketplace, sorta di
impero globale in cui i capitali, i prodotti e servizi, il management delle
tecniche di fabbricazione appaiono certamente globali, ma nel senso di un
modello «imperiale/tecnologico» imposto dall’egemonia culturale ed economica
degli Stati Uniti. Anche qui, la perdita della nozione di spazio avrebbe un
contraltare nella logica dell’azienda-rete che conia addirittura il neologismo glocalize per indicare la contrazione
tra ‘globale’ e ‘locale’ apportata dall’avvento delle autostrade informatiche[133].
Si
consolidano i nuovi ‘comandamenti’ dettati dal processo di mondializzazione dei
mercati, conseguenza inevitabile
dell’avvento delle nuove tecnologie: «il secondo comandamento deriva dalle
‘rivoluzioni scientifiche e tecnologiche’ di questi ultimi trent’anni nel campo
dell’energia, dei materiali, delle biotecnologie e soprattutto
dell’informazione e della comunicazione. (...) L’innovazione tecnologica
permanente, al servizio soprattutto della competitività delle imprese sui
mercati globali solvibili già saturi, o con tassi di crescita bassissimi, si
traduce nel predominio dell’innovazione dei procedimenti anziché dei prodotti;
e ciò comporta ulteriori perdite di posti di lavoro. La salvezza promessa è
dunque riservata a pochi»[134].
L’elenco
fatto da Deleuze e Guattari (Mille piani)
a proposito di capitalismo e schizofrenia viene adeguato da Francis Pisani al
Www (World Wide Web) che consente di
navigare in Internet: «connessione (qualunque punto può essere connesso con
qualunque altro); molteplicità (qualunque nodo può avere parecchie dimensioni);
eterogeneità (modi, onde e flussi sono infinitamente diversi); metamorfosi (la
rete è in costante ri-elaborazione); mobilità dei centri (sono parecchi e si
spostano); rottura (se la rete viene interrotta o il traffico bloccato in
qualunque punto, i flussi trovano nuovi percorsi); apertura (il sistema non ha
limiti, cresce e si modifica)...»[135].
Significativamente, si cita Foucault a proposito delle mutazioni dell’ordine e
del disordine applicate indifferenziatamente agli antichi o ai (post)moderni:
«oggi possiamo dire che il disordine che serve da base al nostro pensiero e al
nostro agire non ha lo stesso modo di essere dell’ordine dei moderni»[136].
Le
informazioni non conoscono più la mera, semplice veicolarità che le conduce da
un mittente a più destinatari: su Internet tendono ad essere circolari, a
viaggiare tra una pluralità di utenti. E’ appena il caso di ricordare, però,
che tali informazioni si sottraggono contemporaneamente al controllo del potere
ma anche alla verifica di attendibilità da parte di terzi (compito svolto nei
media dalla figura professionale del giornalista). Possono pertanto essere
facilmente contraffatte, e minare la credibilità del sistema.
Alla fine di tutto il percorso, le
tradizionali categorie (arcaiche e fondanti) del pensiero socioeconomico e
giuridico appaiono profondamente mutate; lo scenario accoglie la mutazione dei
soggetti politici e dei soggetti estetici (operatori e/o fruitori).
Alcuni
‘imperativi generali’ sono stati messi a fuoco: -sfuggire al potere;
-potenziare la volontà; -rispondere allo svuotamento del soggetto
costituito con l’attenuazione e
progressiva scomparsa della figura dell’autore per professione; -alla crisi di
rappresentanza politica far seguire l’espressione della volontà individuale
(ciò è tecnicamente già possibile); -consolidare il senso come direzione verso
l’altro qualificato: ciò ha un notevole impatto volontaristico perché esiste
una deliberazione forte che talora conduce alla rinunzia della costituzione
quale soggetto operante; -assumere la rinunzia come forma dell’incontro con
l’altro; -essa è relazione di qualità perché non rimbalza indiscriminatamente
(numero, quantità) su soggetti indifferenziati.
E’
possibile ora puntualizzare le specifiche estetiche.
Sfuggire al potere:
-vincere la scommessa col potere producendo liberamente opere/dono anonime e
gratuite; -vincere la scommessa rinunciando allo scambio e lanciando semi
d’opera in rete (Internet o altre: è prassi già usata in letteratura, ma poco
sfruttata dai musicisti: le opere vengono completate/contaminate/modificate da
una pluralità di utenti).
Potenziare la volontà:
-uscire dal ruolo: interpreti lasciano la forma vuota del concerto, del
repertorio, del virtuosismo come primato ed eccellenza agonistica. Compositori
non lavorano soltanto alla individuazione
del linguaggio ma alla messa in comune
dei linguaggi. Ciò creerà da un lato un movimento di rilancio della World music
globale, e dall’altro scatenerà la conservazione delle istanze locali (World
etnica). Anche immettendo in rete lavori ‘firmati’, cioè individuati, i
compositori potranno aggirare la globalizzazione dei mercati.
Uscita da sé del soggetto,
attraverso le forme dell’ opera collettiva: evoluzione del laboratorio tipico
degli anni Settanta, nuova opera da lavoro comune; opere intermediali (CD-rom)
richiedono staff di lavoro estremamente compositi; opere lanciate in Internet
senza paternità.
Crisi di rappresentanza:
alla crisi di rappresentanza politica fa già eco la crisi dei ruoli tipici delle
forme d’arte, con la nascita delle figure ibride del compositore-esecutore
(molti compositori scendono in campo eseguendo o dirigendo direttamente le loro
opere) e dell’esecutore/compositore (molti esecutori non sentendosi più
gratificati dall’assenza di un linguaggio strumentale adeguato e dal
trasferimento di creatività sull’autore, diventano essi stessi produttivi).
Incontro con l’altro:
-estetiche del plagio, come forma esasperata, ma naturale evoluzione, delle
prassi di ‘citazione’ musicale e contaminazione; -rilevanza di questo fenomeno,
poiché esso offre una via d’uscita all’opera/merce attraverso l’opera/dono.
Tale dono mantiene le caratteristiche dell’anonimato e della gratuità.
I pericoli sono molteplici.
L’inevitabile ‘confusione di confine’ tra soggetto ed oggetto si espone,
naturalmente, al pericolo della mistificazione, alla possibilità di uno
smarrimento del senso. Una volta acquisite le nuove e molteplici forme di
soggetti mutanti (cyborg) ed oggetti virtuali, la falsità della stessa nozione di ‘virtuale’ potrà offrirsi alla
riflessione critica nella forma di una scommessa che impegna la complessità dei
valori e referenti conosciuti (della merce, pretesto dello scambio col potere,
e dei soggetti, ostaggi di quello stesso veicolo di transitività tra sé ed
altro).
E’
proprio il caso di confrontarsi senza indugi con l’emergenza delle nuove forme
di soggettività, senza sottovalutarle o sorriderne, utilizzando anche gli strumenti predisposti dalla
tradizione critica e dalla scuola analitica francese; questi ultimi sono
indispensabili, ma non sufficienti:occorre,
cioè, uno sforzo ulteriore che non può essere solo individuale; bisognerà
raccogliere energia da un gruppo eterogeneo di intelligenze. La limitata
diffusione mondiale delle nuove tecnologie ci concede ancora il tempo
necessario allo studio delle sconvolgenti dinamiche del nuovo millennio[137].
Se non saremo in grado di attivarci, di sopportare il confronto col potere
utilizzando gli strumenti che abbiamo individuato, ci esporremo al rischio che
anche nella società informatizzata tutte le opzioni vengano previste. Lo
scenario non vuole essere apocalittico, ma il pericolo è che tutte queste
dinamiche di libertà, predisposte per ‘uscire dal sistema’, possano a loro
volta trasformarsi in formidabili pratiche di controllo.
Tecnologie di senso conducono a un
riconoscimento e a una rinunzia: la qualità dell’altro; il limite del proprio
(pregiudizio d’autore).
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[1]Interpretando Hegel bisognerebbe prestare
attenzione al fatto che le analisi compiute vengono eseguite «dal punto di
vista del contenuto», non limitandosi a «parafrasare il dettato letterale»
(T.W. ADORNO, Tre studi su Hegel, Bologna
1971, Il Mulino, p. 179). L’ errore sarebbe
paragonabile al detto di Scheler sull’indicatore stradale o
contachilometri, preferito al cammino «di cui dà la misura» (T.W. ADORNO,o.l.u.c.). Questo avvertimento
metodologico viene esposto nei Tre studi
su Hegel, laddove Adorno cita, a mo’ d’esempio, la tesi sulla monarchia,
ritenuta da Hegel «una pretesa senza
adempimento», aperta pertanto «ad ogni obiezione» (T.W. ADORNO, o.l.u.c.). In effetti, il punto in cui
Hegel passa dal contenuto della soggettività al contenuto dell’esistenza,
conversione operata senza mediazione attraverso la pura autodeterminazione
della volontà, conduce un concetto senza scopi nell’agire a convertirsi
nell’idea di un’esistenza naturale priva a sua volta di fini. L’idea di volontà dello stato, in
quanto «semplice (...) è individualità immediata» (G. HEGEL, citato in T.W.
ADORNO, Tre studi su Hegel, o.l.u.c.): così per Hegel la derivazione
naturale del monarca nasce nel suo stesso concetto, in quanto individuo a ciò
designato dalla nascita.
E
ancora: «In una monarchia bene ordinata compete alla legge solo il lato
obiettivo, al quale il monarca ha solo da apporre il subiettivo ‘io voglio’ «
(T.W. ADORNO, Tre studi su Hegel, o.l.u.c.). Adorno ritiene che proprio in
questa affermazione volitiva e soggettiva del monarca si concentri «tutta la
cattiva accidentalità, che Hegel pur contesta» (T.W. ADORNO, o.u.c., p. 181): distinzioni fragili e
raffinate, ma che contengono la chiave per la comprensione della pagina; è qui
che arriva una allusione al metodo, che
sembra definire e chiarire la critica : «Una fedeltà che si tenga immanente
alle intenzioni di Hegel richiede, in casi migliori di quello goffamente
ideologico della Filosofia del diritto,
che per capirlo si completi o si sorpassi addirittura il testo» (T.W. ADORNO, o.l.u.c.).
[2]T.W.
ADORNO, Minima moralia, Torino 1954,
Einaudi, p. 4.
[3]T.W.
ADORNO, o.u.c., p. 5.
[4]T.W.
ADORNO, o.u.c., p. 6.
[5]T.W.
ADORNO, o.l.u.c.
[6]Il
potere, tuttavia, rifiuterà i caratteri di assolutezza e universalità.
[7]T.W.
ADORNO, Dialettica negativa, Torino
1970, Einaudi, p. 290.
[8]Per
Adorno v’è anche una parte di verità in ciò, possibile d’esempio con Karl
Kraus, notoriamente legato a Vienna.
[9]T.W.
ADORNO, Dialettica negativa, op.
cit., p. 291.
[10]T.W.
ADORNO, o.u.c., p. 292.
[11]T.W.
ADORNO, o.l.u.c..
[12]T.W.
ADORNO, o.u.c., p. 280.
[13]T.W.
ADORNO, o.u.c., p. 292.
[14]T.W.
ADORNO, o.u.c., p. 293.
[15]T.W.
ADORNO, o.u.c., p. 293.
[16]Si
tratta di F. JAMESON, Tardo marxismo,
Roma 1994, manifestolibri, p. 16. Per l’ autore, in Adorno «una certa nozione
di verità rimane ancora in gioco in queste questioni verbali o formali», la
parte di verità che sopravvive consisterebbe nello stesso travisamento operato
dal linguaggio; questa caratteristica avrebbe a che fare con le specifiche
modalità del metodo dialettico.
[17]T.W.
ADORNO in W. BENJAMIN, Uomini tedeschi, Milano
1992, Adelphi.
[18]M.
FOUCAULT, Volontà di sapere, Milano
1984, Feltrinelli, p. 81.
[19]T.W.
ADORNO, Dialettica negativa, op.
cit., p. 277.
[20] Oggettività etica che è altro dalla morale.
Sulla morale cfr. anche T.W. ADORNO, Minima
moralia, op. cit., pp. 219 ss., dove si pone in risalto il nesso tra
«repressione e morale come rinuncia alla soddisfazione degli impulsi», cioè
come premio teologico. Questa insistenza sul premio sarebbe indicativa di quanto «la coscienza
universale sia profondamente penetrata e influenzata dall’idea della moralità
del possesso» e, pertanto, come i due concetti di ‘bontà’ e ‘proprietà’
coincidano. «L’uomo buono è quello che domina e controlla se stesso come la sua
proprietà»; la sua autonomia morale «è modellata sul potere di disposizione
materiale».
[21]T.W.
ADORNO, Dialettica negativa, op.
cit., p. 277.
[22]T.W.
ADORNO, o.l.u.c..
[23]T.W.
ADORNO, o.l.u.c.
[24]Contro
il positivismo, ed i rimproveri che questo rivolge al pensiero, cfr. T.W.
ADORNO, Minima moralia, op. cit., p.
148: «(...) Il pensiero deve puntare oltre il suo oggetto proprio perché non
perviene interamente ad esso, e il positivismo è acritico, in quanto presume di
poterci arrivare e crede di esitare solo per scrupolo».
[25]T.W.
ADORNO, Dialettica negativa, op.
cit., p. 278.
[26]Il
concetto di ‘totalità’ è almeno duplice in Adorno. Ad esempio, sui rapporti fra
totalità e social research, cfr. ADORNO, in VARI, Dialettica e positivismo in sociologia, Torino 1972, Einaudi, pp.
96 ss.: la social research «diviene
falsa non appena cerca di sopprimere la totalità (Totalitat) come un pregiudizio criptico-metafisico, perché questa
sfugge per principio ai suoi metodi»; Adorno precisa poi che «nelle scienze
sociali non è possibile passare dalla sezione al tutto nello stesso modo che ciò è possibile nelle
scienze naturali, poiché quel tutto è costituito da un’entità concettuale
completamente diversa dall’estensione (...) di questi o quegli elementi
particolari, e nondimeno (...) non ha neanche niente in comune con quelle ‘totalità’ (Ganzheiten) e forme che sono sempre
e necessariamente rappresentate come immediate». Di qui la necessità di
considerare la società non come un organismo formato da un insieme di parti
staccate, ma come un sistema che non si risolve nella coesistenza priva di
mediazione dei suoi componenti; essa appare come un oggetto che non coincide
con l’elemento comune a tutti i suoi settori. Sulla relazione fra arte e
totalità, cfr. M. VACATELLO, T.W. Adorno:
il rinvio della prassi, Firenze 1972,
[27]T.W.
ADORNO, Dialettica negativa, op.
cit., p. 279.
[28]L’atteggiamento
verso il positivo trova concorde tutta la Scuola di Francoforte: da qui nasce
la certezza della necessità della teoria per una sociologia critica. Il termine
‘positivo’ va inteso in senso lato, comprendendo tutte le tendenze
antiessenzialistiche collegate al metodo scientifico (M. JAY, L’immaginazione dialettica, op. cit., p.
72, nota). Va precisato che sia Popper che Hans Albert criticarono l’abuso che
la Scuola sembra fare del concetto, ed Albert ritiene che «Adorno diventa (...)
vittima del proprio concetto alquanto confuso del positivismo, e della maniera
tendenziosa (...) di sussumere sotto questa categoria tutto ciò che gli pare
meritevole di critica» (H. ALBERT, in VARI, Dialettica
e positivismo in sociologia, Torino 1972, Einaudi, p. 326). In particolare
Adorno confonderebbe quel che perfino a Lenin sembrava chiaro: la differenza
tra positivismo e realismo. L’accusa è quella di idealismo, qualifica in fondo
accettata da A. ed anzi la contrappone con veemenza all’empirismo della
sociologia positivistica.
[29]T.W.
ADORNO, Dialettica negativa, op.
cit., p. 126.
[30]T.W.
ADORNO, o.u.c., p. 128. Il testo
completo è: «Se l’essente si fa derivare totalmente dallo spirito, questo
diventa fatalmente simile al meramente essente, che intende contraddire. Proprio
l’insanabile principio d’identità eterna l’antagonismo reprimendo ciò che
contraddice. Ciò che non tollera quel non è come sé stesso, fa saltare la
conciliazione, per cui si prende. L’atto di violenza del rendere eguali
riproduce la contraddizione che esso spegne».
[31]Così
Adorno spiega l’introduzione della nozione di ‘spirito del popolo’: resosi
conto del fallimento della conciliazione tra individuo e totalità Hegel è
ricorso ad un elemento medio che però non sembra efficacemente ‘mediale’, dal momento che è già una sorta di individuazione superiore
di singoli individui appartenenti alla storia. Questa categoria non «si afferma
nella cosa stessa, non determina immanentemente il suo altro, bensì funge da
concetto ponte, un elemento medio ipostatizzato tra lo spirito del mondo e gli
individui» (T.W. ADORNO, Dialettica
negativa, op. cit., p. 304).
[32]ISTITUTO
PER
[33]T.W.
ADORNO, Minima moralia, op. cit, p. 150.
[34]ISTITUTO
PER
[35]K.
MARX, Democrito e Epicuro, dissertazione
dottorale del 1841, Firenze 1979,
[36]La
repulsione è quella dalla declinazione; perciò essa è formale e materiale allo
stesso tempo. Tutti i frammenti sono tratti da K. MARX, Democrito ed Epicuro, op. cit., pp. 43 ss.
[37]ISTITUTO
PER
[38]K.
MARX, Democrito e Epicuro, op. cit.,
p. 43.
[39]ISTITUTO
PER
[40]Difatti
la vera matrice sembra essere proprio
kantiana, come messo in rilievo da O. WEININGER, Sesso e carattere, Pordenone 1992, Edizioni Studio Tesi, p. 222: «...solo chi sente che l’altro uomo
è anch’esso un io, una monade, un distinto centro del mondo con un modo
particolare di sentire e di pensare e con un particolare passato, sarà per ciò
stesso immune dall’utilizzare l’altro semplicemente come mezzo per uno scopo.
Egli, conformemente all’etica kantiana, sentirà anche nell’altro la presenza
della personalità (come parte del mondo intelligibile), e pertanto la onorerà,
e non ne sarà soltanto contrariato. Condizione psicologica fondamentale di ogni
altruismo pratico è quindi l’individualismo teorico. E’ dunque qui che si trova
il ponte che dal comportamento morale verso se stessi conduce al comportamento
morale verso l’altro, quella mediazione la cui mancanza nella filosofia di Kant
fu considerata a torto da Schopenhauer come un difetto di questa, e che fu
intesa come una sua necessaria insufficienza, radicata nei suoi principi
sostanziali».
[41]Intervista
rilasciata a Gérard Raulet , pubblicata
su «Telos» nel 1983 col titolo Structuralism
and Post-Structuralism.
[42]FOUCAULT-RAULET, Structuralism
and Post-Structuralism, in «Telos», op. cit.
[43]VARI,
Adorno e Foucault, Palermo 1990, Ila
Palme. E’ qui possibile reperire la traduzione italiana dell’intervista citata
nel testo.
[44]VARI,
o.u.c., p. 164,
[45]VARI,
o.u.c., p. 163.
[46]VARI,
o.u.c., p. 164.
[47]VARI,
o.u.c., p. 163.
[48]VARI,
Adorno e Foucault, op. cit., p. 168.
[49]M.
FOUCAULT, La verità e le forme giuridiche
, Napoli 1991, privo di edizione.
[50] Questo controllo è svolto con l’aiuto di forme
di potere parallele o, in altro senso, di contropotere.
[51]T.W.
ADORNO, Scritti sociologici, Torino
1976, Einaudi, p. 59.
[52]VARI,
Dialettica e positivismo in sociologia, Torino
1972, Einaudi, p. 86.
[53]VARI,
o.u.c., p. 102.
[54]VARI,
o.l.u.c.
[55]In
questo senso, la similitudine, rilevata anche da Dews nel saggio citato, tra la
Scuola e Foucault si arresterebbe di fronte alla distruzione della sovranità
del soggetto, presente in Foucault ma assente in Adorno, che pur ventila una
lontana possibilità di utopia. A noi pare che il problema dell’esistenza e
della qualificazione del soggetto possa senz’altro essere successivo
all’analisi dell’invadenza del tutto-potere. In entrambi i casi una istanza
estranea viene a modificare (Adorno) o a preformare (Foucault) il soggetto. La
sorte di quest’ultimo, che sia una nuova forma di soggettività al silicio ,
come quella che auspica Deleuze, o una forma di soggettività fondata sulla dialettica negativa, e in grado
di guardare alla coesistenza reale di tesi, è problema successivo.
[56]P.
DEWS, in VARI, Adorno e Foucault, op.
cit.
[57]M.
BLANCHOT, Michel Foucault come io
l’immagino, Genova 1988, Costa & Nolan, p. 39. Blanchot indica la Volontà di sapere avvincente per lo stile asciutto ed esasperato
nella determinazione priva di ornamenti.
[58]In
relazione all’analitica del potere, ed al rapporto tra le relazioni di potere
ed il discorso di verità, cfr. l’intervista Foucault-Raulet, in VARI, Adorno e Foucault, op. cit., p. 99:
«(... ) studiando queste relazioni di potere, non costruisco assolutamente una teoria
del Potere, ma intendo conoscere in che modo sono collegate la riflessività del
soggetto ed il discorso di verità (...) e ritengo che le relazioni di potere
che si esercitano reciprocamente costituiscano uno degli elementi determinanti
in questo rapporto che intendo analizzare».
[59]Il
monarca può qui essere inteso anche come un soggetto collettivo: «In fondo,
malgrado le differenze di epoche e di obiettivi, la rappresentazione del potere
è sempre stata ossessionata dalla monarchia. Nel pensiero e nell’analisi
politica non si è ancora tagliata la testa al re. Di qui l’importanza che viene
ancora data nella teoria del potere al problema del diritto e della violenza,
della legge e dell’illegalità, della volontà e della libertà, e soprattutto
dello Stato e della sovranità (anche se non è più interrogata nella persona del
sovrano ma in quella di un essere collettivo)». M. FOUCAULT, La volontà di sapere, Milano 1991,
Feltrinelli, p. 79.
[60]M. FOUCAULT, o.u.c.,
p. 80.
[61]E’
questa forse già una caratteristica del linguaggio, come rileva C. SINI, Semiotica e filosofia, Bologna 1990, Il
Mulino, p. 152: «...ma c’è un linguaggio non metafisico, cioè indipendente
dalla grammatica?».
[62] «Quando leggo la tesi ‘sapere è potere’ o
‘potere è sapere’ io mi metto a ridere perché studiare il loro rapporto è
precisamente il mio problema. Se fossero identici, non dovrei studiarli, e
avrei risparmiato un bel po’ di fatica. Il fatto di porre la questione del loro
rapporto prova chiaramente che io non li identifico» Intervista Raulet-Foucault,
in VARI, Adorno e Foucault, op. cit.,
p.103.
[63]G.
DELEUZE, Foucault, Milano 1987, Feltrinelli, p. 75.
[64]Il
problema della violenza è stato posto recentemente anche da Michel Serres,
allievo di Foucault, in Le contrat
naturel, Bourin 1990, (trad. it.Il
contratto naturale, Milano 1991, Feltrinelli), sotto altra accezione: la
violenza allo stato puro precederebbe sia la storia della guerra sia il diritto inteso come linguaggio comune, convenzione di base.
La violenza soggettiva , quella cioè tra due uomini, risolve la minaccia della distruzione casuale
attraverso un contratto; modificando la concezione hobbesiana: «Di fatto e
attraverso il diritto, la guerra stessa ci protegge contro l’infinito
perpetuarsi della violenza» (p. 24). La
violenza oggettiva, invece, sarebbe quella che vede antagonisti da un
lato l’uomo come genere, come blocco uniforme e tecnologicizzato, come
«essere-dovunque», e dall’altro il mondo inteso come «Terra»; questa violenza
potrà risolversi soltanto attraverso un nuovo contratto, chiamato da Serres
«naturale»: esso è propriamente quello «firmato con il mondo» (p. 25). Sugli
ultimi volumi di M. Serres cfr. anche E. GUICCIARDI, “Aspettando il terzo
uomo”, in “La Repubblica”, 18/7/1991.
[65]G. DELEUZE, Foucault,
op. cit. , p. 75.
[66] M. FOUCAULT, La volontà di sapere, op. cit., p. 82.
[67]Ma
forse già qualsiasi insieme che rimanda
ad altro da sé è in fondo metafisico.
[68]M.
FOUCAULT, Nietzsche, la genealogia, la
storia, Torino 1977, Einaudi, p. 39.
[69]M. FOUCAULT, o.u.c.,
p. 38.
[70]M.
FOUCAULT, La volontà di sapere, op.
cit., p. 84.
[71]G. DELEUZE, Foucault, op. cit., pp. 112-113.
[72]Questa distinzione può desumersi da M. FOUCAULT, La volontà di sapere, op. cit., p. 81.
[73]M.
FOUCAULT, Poteri e strategie, in
“Aut-Aut”, n. 164, 1978.
[74]M.
FOUCAULT, La volontà di sapere, op.
cit., p. 80.
[75]G. DELEUZE, Foucault,
op. cit., p. 122.
[76]M.
FOUCAULT, Sorvegliare e punire,
Torino 1976, Einaudi, p. 24.
[77]G.
PROCACCI, in VARI, Effetto Foucault,
Milano 1987, Feltrinelli, p. 191.
[78]G. DELEUZE, Foucault,
op. cit., p. 113.
[79]G. DELEUZE, o.u.c.,
p. 111.
[80]G.
PROCACCI, in VARI, o.u.c., p.
188. Per quanto riguarda il rapporto fra
liberalismo economico e medicina, cfr. P. DEWS, Potere e soggettività in Foucault, in VARI, Adorno e Foucault, op. cit., pp. 158 ss.: «Nei dibattiti seguiti da
Foucault, si mostra come i dettami del liberalismo economico, che avrebbero
dovuto comportare per la medicina uno statuto totalmente deregolamentato e
indipendente, siano stati sconfitti dall’esigenza di sorveglianza sanitaria
della nazione». La Nascita della clinica
confermerebbe, così, che «la supervisione e l’intervento in ambito sociale da
parte degli enti del benessere e del controllo è un elemento più importante
delle società moderne rispetto a un’economia svincolata da rapporti di dominio
direttamente politici».
[81]G.
PROCACCI, in VARI, Effetto Foucault,
op. cit., p. 185.
[82]G.
PROCACCI, in VARI, o.l.u.c. Con bella
opportunità la Procacci rileva che il termine ‘governo’ va inteso in Foucault
nel modo in cui era in uso nel XVI secolo, e cioè come «il modo in cui si può
dirigere la condotta di individui o di gruppi (governare i bambini, le anime,
la casa)» (p. 185). Questa lettura sembra confortata dal confronto con il
paragrafo che Michel Serres dedica al governo ne Il contratto naturale (Milano 1991, Feltrinelli). ‘Governare’,
per Serres, equivale a ‘pilotare’, ed
oggi più che mai il «pilota che governa» insegna al «governante» che un doppio
meccanismo incrociato e reiterato tra causa ed effetto , tra azione/
direzione da un lato e mondo/natura
dall’altro, lo conduce alla necessità di un cambiamento. Il governante deve
ormai «uscire dalle scienze umane, dalle strade e dai muri della città, deve
farsi fisico, tirarsi fuori dal contratto sociale, inventare un nuovo contratto
naturale restituendo al termine natura il suo senso originario (...)» (M. SERRES, o.u.c.,
p. 61.)
[83]G.
PROCACCI, in VARI, Effetto Foucault,
op. cit., p. 192.
[84]Cfr.
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra,
Milano 1991, Fabbri: «Al vertice della tua altezza, o uomo superiore, -inciamperai!».
Così l’intero passaggio nella versione di Mazzino Montinari: «Quando volete
innalzarvi, adoperate le vostre gambe! Non lasciatevi portare in alto, non mettetevi a sedere sulle schiene e le teste
altrui! Tu però sei salito a cavallo? Cavalchi lestamente verso la tua meta?
Ebbene, amico mio! Anche il tuo piede zoppo siede con te sul cavallo! Quando
sarai alla tua meta, quando balzerai da cavallo: proprio allora, uomo
superiore, alla tua altezza - inciamperai
.»
(F.NIETZSCHE, Così parlò
Zarathustra, Volume VI, tomo I delle «Opere di F. Nietzsche» a cura di
Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Milano 1986, Adelphi, p. 353).
[85]G. DELEUZE,
Foucault, op. cit., p. 132.
[86]G. DELEUZE, o.u.c.,
p. 133.
[87]G. DELEUZE, o.l.u.c.
[88]F.
NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra,
op. cit., p. 38.
[89]P.
A. ROVATTI, in VARI, Effetto Foucault,
op. cit., p. 72.
[90]P.
A. ROVATTI, in VARI, o.u.c., op. 73.
[91]Di «titolarità» parla Foucault: ma ha qui
significato mantenere questo termine, alla presenza di un soggetto la cui
possibilità d’essere compiutamente titolare di alcunché è limitata ad una sfera
residuale di scelte di libertà?
[92]Il
riferimento è ancora a Felix Guattari.
[93]‘Estetizzante’
come apparente, formalmente bello, televisivo.
[94]E.
LEVINAS, Fuori dal Soggetto, Genova
1992, Marietti.
[95]In
questo senso sembrerebbe ritornare ancora una volta la tematica di un
sincretismo tradizionale, il quale parrebbe alludere ad origini anteriori a
qualsiasi tradizione, e perciò ritrovate anche in ciascuna di esse.
[96]L’unicità
è «al di là dell’individualità di individui molteplici nel loro genere. Unicità
non a causa di qualche segno distintivo che fungerebbe da differenza specifica
o individuante. Unità che precede qualsiasi segno distintivo, unicità
logicamente indiscernibile dell’ io della
prima persona. Unicità che non si lascia dimenticare sotto il peso di tutte le
costrizioni dell’Essere, della Storia e delle forme logiche che
[97]Cfr.
E. LEVINAS, o.u.c., pp. 129-130:
«Limitarsi, nella giustizia, alla norma della pura misura -o moderazione- fra
termini che si escludono, equivarrebbe ancora ad assimilare i rapporti fra i
membri del genere umano al rapporto fra individui di un’estensione logica, i
quali significano soltanto, l’uno nei confronti dell’altro, negazione,
addizione o indifferenza. Nell’umanità si stabilisce, da individuo a individuo,
una prossimità che non assume senso attraverso la metafora
spaziale dell’estensione di un concetto. Immediatamente, l’uno e l’altro
significa l’uno di fronte all’altro. Significa io per l’altro.».
[98]L’altro,
in Levinas, mi ri-guarda, mi interessa. E’, sostanzialmente, ‘volto’; l’io «si
libera dal suo ritorno a sé, dalla sua autoaffermazione, dal suo egoismo di
essente che persevera nel suo essere, per
rispondere di altri, per difendere appunto i diritti dell’altro uomo». E.
LEVINAS, o.u.c., p. 130.
[99]Questa
‘percezione’ è sia la mera costatazione della reale presenza altrui, sia l’intuizione di una presenza aurorale, sconnessa da referenti
empirici.
[100] Per questa ragione, forse, nelle forme del
delirio l’altro viene metamorfosizzato: perché l’io è assolutamente centrale,
solitario, ricostituito secondo un’unità ancestrale resa però patologica per
interventi traumatici.
[101]JEAN-LUC
NANCY, La comunità inoperosa, Napoli
1992, Cronopio.
[102]T.W.
ADORNO, Terminologia filosofica, Torino 1975, Einaudi, pp. 136 ss.
[103]Cfr.
T.W. ADORNO, o.l.u.c.
[104]T.W.
ADORNO,o.l.u.c.
[105]T.W.
ADORNO,o.l.u.c. Il testo continua: «Ma lo stesso soggetto
non ha propriamente nessun contenuto che a sua volta non rinvii all’esterno;
come dice la filosofia, è mediato dall’oggetto, e cioè da ciò che è fuori di
lui, fin nella sua struttura più interna, così come, viceversa, ciò che è
mediato dal soggetto. E quindi se il soggetto si addentra veramente in se
stesso nel senso che cerca di eliminare tutto ciò che è giunto a lui
dal’esterno alla fine non può ritenere altro che il suo proprio concetto.
Secondo la sua stessa forma logica, come abbiamo detto, questo sprofondamento
in sé sbocca nella completa astrazione. Poiché in un pensiero non resta allora
altro che la pura tautologia, non si può più parlare di profondità affatto;
poiché secondo il suo stesso senso una conoscenza può essere profonda solo se
porta su qualcosa che essa stessa non è già a priori - altrimenti si riduce
alla sterile ripetizione di se stessa».
[106]J.
NANCY, La comunità inoperosa, op. cit., p. 63. La citazione corretta, e più
esauriente, è: «La partizione risponde a questo: ciò che la comunità mi rivela,
presentandomi la mia nascita e la mia morte, è la mia esistenza fuori di me».
Ma la comunità non è un soggetto infinito al di fuori di ‘me’; essa stessa è
finita, e consiste proprio nella esposizione.
La «esposizione» è definita come coincidenza col limite tra dentro-fuori:
«Essere esposto è essere sul limite, dove ci sono un dentro e un fuori e né
dentro né fuori» (p. 183).
[107]J.
[108]J.
[109]J.
[110]J.
[111]J.
[112]Sul
concetto di limite cfr. alcuni recenti contributi, tra cui S. VITALE, Distanze, in “Atque, materiali tra
filosofia e psicoterapia” n. 07 Maggio 1993, p. 100, Moretti & Vitali Editori: «Il passo da
compiere è quello che, nel superare la distanza, inevitabilmente la
costituisce, e, nel mentre la scopre, è teso a cancellarla. Un doppio
movimento, dunque come quello che Heidegger indica col termine dis-allontanamento
(Ent-fernung). Se “l’Esserci, in quanto essere-nel-mondo, si mantiene
essenzialmente nel dis-allontanamento”, volto a incontrare l’ente nella
vicinanza, proprio per questo non elude la distanza, ma la scopre ad ogni passo
come limite. La lontananza si rinnova
insieme al tentativo di volerla superare, emerge incessante dalla prossimità».
Cfr. inoltre, sulla connotazione etnico-antropologica, lo stesso saggio, stesso
luogo: «Le varie forme attraverso cui si è esercitata, nel corso del tempo, la
riflessione sull’alterità spesso non hanno fatto altro che confermare la
distanza cui l’Altro è sottomesso, ora con l’apparente proposito di superarla,
ora con l’intenzione di affermarla come valore. E’ quanto è accaduto con
l’etnocentrismo, il quale - inseguendo con ingenuità o perfidia l’ideale
dell’universalismo in nome della ‘civiltà’ - ha legittimato la proiezione delle
caratteristiche di un gruppo su quelle di altri, non arretrando
nemmeno dinanzi alla violenza e allo sterminio. Nella prospettiva
imperialistica, in epoche diverse, l’Altro è stato sempre spogliato e depredato
della propria identità, confermato nella sua distanza di ‘diverso’». Così anche
Nancy, in conclusione a La
comparizione (in AAVV, Politica, Napoli 1993, Cronopio, p. 57): «L’ ‘altro’
è una figura imposta all’infigurabile. (Così per ‘noi’, e nel modo più
diretto, l’ ‘Ebreo’ o l’ ‘Arabo’ - figure la cui prossimità, vale a
dire l’in-comune con ‘noi’, non è un caso. Controprova ne è la figura del
‘Nero’, che non offre la stessa prossimità, non è supporto dello stesso tipo di
esclusione. Quella del ‘Giallo’ è ancora un altro caso, o lo fu, perché la
storia fa scivolare e trasforma queste forme d’esclusione)». In relazione alla stringa possibile tra
etnologia e ‘limite’, cfr. anche la lunga nota redazionale riportata in
“Informazione filosofica” n. 12, Aprile 1993, p. 50: «Un concetto chiave di
questa disciplina (l’etnologia nda),
attorno al quale, come giustamente osserva Flavio Cassinari, ruota tutto il
ragionamento di Duerr, è quello di ‘limite’ (Grenze), inteso come ‘delimitazione ed insieme apertura’
dall’interno, piuttosto che come ‘confine’, barriera rigida (Schranke). La critica radicale di Duerr
nasce proprio da questo snaturamento del concetto di limite compiuto dagli
studiosi nei confronti della Wildnis, la
dimensione della natura selvaggia».
[113]Cfr.
anche, seppur con diversa prospettiva, E. PIZZICHETTI, “L’ ‘altro’ invisibile,
l’Anonimo e Narciso”, in “Atque, materiali tra filosofia e psicoterapia”, n.
07, Maggio ‘93, Moretti & Vitali editori, p. 171: «Finora abbiamo parlato
della verità come significato. E’ evidente quindi che si presuppone sempre la
percezione di una comunità verso cui si è rivolti con le nostre parole e le
nostre domande, e si presuppone, più in fondo, il peso di una possibile
risposta. Ogni significato conta e vale solo al plurale. Non si è mai da soli
(...)».
[114]AA.VV.,
Politica, Napoli 1993, Cronopio. Il
volume si avvale dei contributi di Jean-Luc Nancy, Alain Badiou, Giorgio
Agamben ed è caratterizzato dalla
ricerca di un percorso capace di evocare questioni e problematiche «che la filosofia accademica e la cultura non
conoscono». Dopo il saggio di Nancy, vi è quello di Alain Badiou, che prende il
via da quella «Finzione del politico» di Lacou-Labarthe, pubblicata in Italia
dal Melangolo e che costituisce una sorta di scontro-dialogo con Heidegger.
Badiou, sostanzialmente, discute della migrazione del politico, criticando la
possibilità di indicare col nome di «comunità»
una delle possibili accezione filosofiche della politica del nostro
tempo. Giorgio Agamben, dal canto suo, propone una distinzione tra «vuota vita»
e «forma di vita», ricavata, ci sembra, dalla analisi biopolitica foucaltiana
di Dreyfus e Rabinow. Già solo questa distinzione ci
farebbe escludere una definizione della politica come prassi orientata al bene
di uno qualunque. Il bene, se riferito alla comunità e non al «Solo», non
riesce mai ad essere il bene di ciascuno, proprio perché altrimenti sarebbe il
bene di chiunque, di uno qualunque. Non accade mai che «ciascuno» sia così
«qualunque» da non possedere desideri che vadano oltre la soglia di un bene
minimale, che alla fin fine è soltanto la nuda vita, la nuda esistenza.
[115]Cfr.
J. NANCY, in AA.VV., Politica, op. cit., p. 15: «(...) non vi è Solo che
esista. E ciò è stato finora l’ostacolo di tutto il pensiero occidentale. Ed è
ciò che ci giudica e attraverso cui giudichiamo noi stessi e ci citiamo a comparire».
[116]J.
[117]J.
[118]Cfr.
J. NANCY, o.l.u.c.: «Tutta la
fondazione occidentale (...) mette in gioco una condivisione del ‘senso’ e la costituzione stessa o l’avvenimento
del ‘senso’ in una condivisione».
[119]Così
prosegue il passo, nella sua interezza: «Come, dal momento che tale ‘senso’ non
è un senso particolare (come sarebbe quello della ‘collettività’ distinto da
quello degli ‘individui’), ma l’elemento di significanza dell’esistenza in
quanto essa compare, e non c’è senso d’uno Solo (il che non significa che
‘tutto il senso’ sia ‘collettivo’, al contrario). E come, dal momento che la
comunità si scopre e si denuda come ciò che non è sostanza di un soggetto, dal
momento, cioè, che essa non è autoappropriazione di senso» (p. 37).
[120]«Non
ci siamo appropriati del senso di quel senso-là - e sappiamo che è proprio del
suo ‘senso’ il non essere appropriabile secondo le modalità che ci sono
proprie, ma piuttosto secondo le modalità dell’ in-comune che ci precede
ancora» (NANCY, o.u.c., pp. 37-38).
[121]J.
NANCY, o.u.c., p. 49, nota.
[122]J.
NANCY, o.u.c., pp. 54-55.
[123] Questa profonda assimilazione è manifesta
nella distinzione tra Hegel per il quale è il ‘pensiero’ del reale ad essere
soggetto del pensiero, e Marx, dove il reale stesso è soggetto (e non oggetto)
del pensiero. Vi è un rovesciamento della filosofia «dal punto di vista della
prassi», e tale rovesciamento, il superamento della filosofia come sua
sopravvivenza, costituisce l’altro, l’esterno comune ad essa. Il passaggio avviene
grazie all’esistenza di un momento nel quale «l’alterità costituisce il sé»
(pp. 35-36).
[124]J.
NANCY, La comunità inoperosa, op.
cit., p. 172.
[125]J.
[126]Un
suo recente lavoro, Corpus, dedicato
alla téchne dei corpi, svolge un
percorso differente che tuttavia sembra restare entro i limiti già evidenziati
dell’ invenzione stilistica (J. NANCY,
Corpus, Cronopio, Napoli 1995).
[127]J.
BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la
morte, Milano 1979, Feltrinelli, p. 46.
[128]J. BAUDRILLARD,o.l.u.c.
[129]J. BAUDRILLARD,o.u.c.,
p. 53. Non è forse inopportuno precisare alcune delle
dinamiche relative al ‘dono’ e ‘contro-dono’ in Baudrillard: «dono del lavoro
al quale si può rispondere soltanto con la distruzione o il sacrificio, se non
nel consumo, che non è che una spirale di più del sistema di gratificazione
senza sbocco, quindi una spirale di più della dominazione; dono dei media e dei
messaggi, ai quali, dato il monopolio del codice, nulla permette di replicare;
dono, ovunque e ad ogni istante, del sociale,
dell’istanza di protezione, di sicurezza, di gratificazione e di sollecitazione
del sociale, al quale nulla permette più di sfuggire» (o.l.u.c.). Il dono, in B., si spoglia di quel carattere
extranegoziale che altri autori gli assegnano. Qui, «nulla è mai senza
contropartita, non nel senso contrattuale, ma nel senso che il processo di
scambio è inesorabilmente reversibile». Tale reversibilità va intesa nel senso
che anche nelle società primitive il dono non avrebbe carattere di vera
gratuità, ma nasconderebbe la possibilità unilaterale di donare, e quindi
quella di «immagazzinare il valore e trasferirlo in un unico senso»: altre
maschere del potere. Cfr. G. DE SIMONE, “Il bello della cosa” in Konsequenz n.
2/1996, Napoli 1996, Edizioni Scientifiche Italiane.
[130] si definisce ‘bots’ un tipo di software che
simula all’altro capo del modem la presenza di un umano
[131] Cfr. G. DE SIMONE, “Il bello della cosa”, in
“Konsequenz” n. 2/1996, Napoli 1996, Edizioni Scientifiche Italiane.
[132]P.
VIRILIO, “Allarme nel ciberspazio”, in “Le Monde Diplomatique”, edizione
italiana, Settembre 1995, p. 30.
[133]A.
MATTELART, “I nuovi scenari della comunicazione mondiale”, in “Le Monde
Diplomatique”, edizione italiana, Settembre 1995, p. 31.
[134]R.
PETRELLA, “I Nuovi Comandamenti”, in “Le Monde Diplomatique”, edizione
italiana, Ottobre 1995, p. 2.
[135]F.
PISANI, “Le frontiere ignote del ciberspazio”, in “Le Monde Diplomatique”,
edizione italiana, Novembre 1995, p. 2. L’articolo risponde alle tesi divulgate
da Nichols Negroponte, direttore del Media Lab del Mit e autore di Essere digitali, Milano 1995, Sperling
& Kupfer.
[136]F.
PISANI, “Le frontiere ignote del ciberspazio”, cit., p. 2.
[137]Quasi
paradossalmente, questa chance è
offerta proprio dal ritardo dei cosiddetti paesi più deboli e poveri. Quale
miglior messaggio per le aberranti e inconsapevoli politiche di sfruttamento?