L'ALTRA AVANGUARDIA
PICCOLA STORIA
DELLA MUSICA CONTEMPORANEA A NAPOLI
Napoli 1996,
Edizioni Scientifiche Italiane
(fuori
commercio, consultabile in cartaceo alla Biblioteca del Conservatorio S. Pietro
a Macella di Napoli)
Prologo
Questo non è
un lavoro sui "giovani" compositori napoletani. Nella storia recente
della città l'etichetta più fastidiosa è stata proprio quella della cosiddetta
giovane età dei musicisti da promuovere. E non è mancata l'esterofilia, visto
che per molti è stato necessario emigrare per trionfare, e solo più tardi poter
tornare. Qualcun altro, poi, ha scelto soluzioni definitive e prive d'esito. La
morte è l'emigrazione più radicale.
Ancora
etichette sono state affibbiate a musicisti, attori o registi che avrebbero
dovuto svolgere il ruolo di 'promoter' della città. Una lucida volontà
politica, formatasi attorno a un tavolo ad una precisa ora, deliberò che il
tale o il talaltro potesse 'funzionare' bene in un determinato ruolo. La
politica ha sempre discriminato, ed è stato divertente, negli anni, registrare
e riconoscere sui giornali o nei tiggì regionali i volti e i nomi sponsorizzati
dalle varie amministrazioni. Qui molti sanno, e non dimenticano, aldilà del
generale clima assolutorio del dopotangentopoli.
I
"giovani compositori", nel frattempo, invecchiavano a cavallo di
quelle amministrazioni, senza sbocciare
o permutarsi in artisti affermati
economicamente e culturalmente all'interno del circuito nazionale. Il
fallimento della Grande Promessa Partenopea ha provocato deflagrazioni,
assorbimenti, tacitazioni, ri/velazioni: e gli artisti hanno cominciato a
defluire lentamente in crepe, intercapedini, interstizi, ad attecchire come
muffe, a frantumare il selciato come radici d'alberi possenti, ad abitare
scantinati e colorare appartamenti d'affitto, a riempire con cori cappelle
sconsacrate, o a far musica nelle stamberghe dei vicoli di Santa Teresella, su
pavimenti traballanti sopravvissuti a terremoti e a disastrosi progetti
urbanistici (chi ricorda l'aberrante Neonapoli?).
Una Napoli
sotterranea c'è stata davvero, una città d'artisti importantissimi anche se
ignoti, o noti ovunque tranne che all'interno delle mura. Concerti per pochi
intimi, idee meravigliose naufragate per l'indifferenza dei politici (e vabbé,
la cosa non stupisce più nessuno, ormai) ma soprattutto per la tendenziosità e
la presunzione, ormai insopportabile, degli organi di stampa, di chi avrebbe
dovuto informare e, in tal modo, formare
tutta la collettività.
Dentro e fuori di qui
Per tutte
queste ragioni mi pare necessario scrivere la storia vera della città sonora:
una città ineffabile e invisibile (come in fin dei conti resta ogni suono). La
storia sarà parziale, perché andare per rizomi non è facile, la terra è molta,
e grotte di tufo s'aprono inaspettate sotto i piedi e dentro ai cortili.
Inoltre, questa è una storia tracciata da un musicista che di tanto in tanto si
occupò di critica; ma proprio per questo è ancora più sentita e vera. Del resto
non conosco critici imparziali.
La visibilità
che intendo rappresentare è quella che ho registrato conoscendo di persona
molti compositori, non tutti amici o compagni di percorso. Ed è un quadro di
quello che sulla scena della musica non di repertorio è passato per la città:
dunque non soltanto opere di napoletani, qui o fuori di qui, ma anche eventi
che la storia napoletana hanno contribuito a creare, a movimentare. E,
soprattutto, uno spaccato sulla deformazione delle notizie da parte della
stampa che certo incide sulla qualità della proposta musicale.
Pertanto, se
riuscirò nell'intento, il testo esploderà e imploderà di continuo, in una
pluralità di riferimenti intrecciati. Vettori di senso non privi di
documentazione: si troverà alla fine una ampia mappatura densa di avvenimenti e
notizie: una ricostruzione del mio personale archivio, che diventa da questo
momento pubblico.
L'incipit
La storia, per
quanto mi riguarda, comincia il 20 aprile del 1979, ad opera di un originale
pianista-compositore. I motivi per i quali scelgo proprio questa data e questa
figura appariranno chiari più avanti, ma anticipo che sono sia di natura
storica che estetica. Eugenio Fels nasce
a Torino, ma si trasferisce ben presto a Napoli, dove studia con una
straordinaria didatta, Antonietta Webb-James, allieva di Beniamino Cesi. [1] Amici comuni
presentano il giovane concertista a Luciano Cilio, una delle personalità
emergenti dello stagnante mondo musicale cittadino. Luciano ha già pubblicato
un disco che non esiterei oggi a definire mitico, perché del mito conserva
impalpabilità (oggi è un oggetto irreperibile) ed efficacia (continua ad essere
evocato da critici e musicisti di aree differenti); ma di questo dirò più
avanti.
Eugenio
'commissiona' a Luciano un pezzo per pianoforte, quello che poi diventerà
Il pezzo che non c'è
Fels è ad otto
giorni dal suo concerto, organizzato ad Ascoli Piceno da Luigi Petrucci;
comprende, come è sua prassi abituale, pezzi di repertorio e brani più rari o
contemporanei. Suonerà nella prima parte opere di Chopin, Schumann e Liszt e
nella seconda tre brani di Debussy, sette preludi dall'op. 11 di Skryabin
(1,2,6,8,10, 13, 14), e, di Cilio, Due
pezzi per pianoforte in prima esecuzione assoluta.
Il programma
era stato stilato in febbraio, poco dopo
aver conosciuto il compositore, e col consueto anticipo che caratterizza le
stantie programmazioni classiche. Ma nonostante tutte le sollecitazioni, la
consegna delle parti avviene soltanto il 20 aprile; Eugenio sarà costretto ad
una variazione, ed interpreterà una funambolica versione pianistica del suo
concerto per pianoforte, la Fantasia da
concerto (talvolta indicata anche
come Adagio e Allegro da concerto). Ma
ora i due pezzi di Luciano sono in buone mani: si tratta del Terzo Quadro tratto dal disco[2], che tanto
aveva entusiasmato il pianista al primo ascolto, e della IV Sonata. Nel '79 Fels
eseguirà Cilio per sei volte, dando inizio ad una collaborazione interrotta
soltanto dalla morte del compositore, nell' '83. I brani verranno suonati, tra
l'altro, al Teatro in Trastevere a Roma, all'Arena Civica e alla Sala Verdi di
Milano, e, cosa importantissima, alla
E' andata, si
sta finalmente scrivendo una nuova pagina per la storia della musica
contemporanea a Napoli.
Ma quanto grande?
Quanto è
'grande', in senso sostanziale, la vicenda che comincia proprio nel '79? E'
importante precisarlo subito, perché qui nessuno ha intenti nostalgici: degli
eventi narrati si mantengono impressioni di tutti i tipi, ma non certo di
bonaria e conciliata memoria. Anche a
Napoli, ma soprattutto a Napoli, c'era qualcuno che aveva intuito
gli stilemi della musica del futuro, e fin dai lontani anni settanta. In
un articolo molto tormentato (ancora
oggi il coinvolgimento affettivo è
grande), capovolgevo il titolo dell'unico disco di Luciano, stigmatizzando
tutto il suo percorso musicale. I Dialoghi
dal futuro non uscirono mai dal suo verticalino, o dalla chitarra: non ne
ebbe il tempo. Ma la sua esigua produzione parla ancora oggi, e può certamente
consegnare lezioni al futuro.
Cilio iniziò
il suo percorso studiando architettura, e chiunque abbia frequentato quella
facoltà impara presto a fare i conti con molti dei nonsense di questa
città. Da subito è centro d'interesse
per molti musicisti di derivazione "leggera" (le virgolette, quando si parla di generi, non
sono casuali, perché non credo a partizioni di valore o di opportunità), si occupa
di scenografia e di teatro. Una sua foto, opera di Fabio Donato, lo ritrae in
un momento scenico di grande effetto ed impatto. Partecipa al Prometeo legato da Eschilo, scrivendo le musiche di scena,
rappresentato a Firenze nel '72, e poi sempre citato nei suoi curriculum.
Incrocia così la sua attività a quella del teatroesse di Napoli. In quel
periodo incontra Alan Sorrenti, che sta per pubblicare Aria, un disco straordinario il cui ascolto apre spiragli anche
sulla musica del musicista architetto.
La nuova aria d'Alan Sorrenti
Avendo nelle
orecchie l'ultima produzione di Sorrenti si sarebbe inizialmente tentati di
chiedersi cosa mai c'entra la sua vicenda con quella di Luciano. E tuttavia il
collegamento, messo in luce da un critico jazz, esiste, anche se dissento dal far pendere la bilancia dalla
parte dell'autore di Aria. Questo
disco, ora riversato su CD sempre per la EMI (codice 724347947124), si compone
di soli quattro pezzi, cantati e strumentali, ma con una sproporzione notevole
di durata tra la titletrack e le altre tracce. Vorrei incontrarti, La mia mente, Un fiume tranquillo, mi paiono ugualmente significative, ma quasi
emanazioni di Aria. Quindi, dal punto
di vista della modernità, funzionano senz'altro meglio, perché più immediate e
concentrate. Da quello dello sperimentalismo, invece, e cioè delle tecniche
messe in mostra, Aria resta insuperata. Il personale del disco
consiste nelle percussioni di
La chiave di
volta di questo brano mi pare essere la fascinosa discesa di semitono lungo,
che dà un senso di spiazzamento e di fascinoso mistero. Glissati finali, una
chiusa da gran maestro, sono realizzati per ritrovarsi in ambito atonale, ed il
bello è che ci si arriva attraverso il jazz: non è il free, quanto piuttosto
l'intellettualismo bianco che sconfina nell'eleganza. Suoni d'ambiente, un
organo da cattedrale, ed effetti di ance orientali riempiono l'ultimo minuto di
tutto il disco. Un minuto che da solo basterebbe ad iscrivere Sorrenti tra
"quelli che guardavano lontano" già nel '72, e che anche dal retrivo
punto di vista degli storici del mero avanguardismo rende il musicista
inattaccabile[4].
Shawn Phillips, l'uomo chitarra
In quegli
anni, Cilio dovette conoscere anche Shawn Phillips, lo straordinario
chitarrista texano trasferitosi nel '
Nel 1971
Luciano, ben prima dell'uscita del suo unico disco, registra nello studio di
Shawn quattro brani per sitar ed altri strumenti tradizionali, conservandoli su
bobina. Nell' '83, quando Cilio scompare, questa risultava smarrita e solo di
recente, su mia congettura, la si ritrova in possesso della figlia di Cesarini.
Ma, al momento dell'ascolto, grandissima delusione: una mano incauta ha
sovrainciso canzonette popolari napoletane. Una disdetta, perché avremmo potuto
conoscere i brani di un periodo estremamente creativo, e farci un'idea della vera formazione del
compositore.
Dialoghi del presente
Nel '77, dopo
una serie di incredibili peripezie, Cilio riesce a pubblicare il suo disco con
la Emi[5].
L'incipit del
primo quadro, "Della conoscenza", è affidato alla chitarra, che si
muove intorno ad accordi tematizzati, con melanconia, una certa incertezza,
dolcissima, nel procedere; respiri molto vasti. Un piccolo glissato conduce ad
una prima variazione, con ingresso del pianoforte e del violoncello: ecco i tre
strumenti privilegiati dal compositore partenopeo. Dopo pochi minuti, ecco che
con la chitarra che fa da sfondo, gli archi tessono sovrapposizioni magiche,
anche infratoniche. Dopo una esposizione, le voci femminili si sostituiscono agli
archi. Qui c'è una prima osservazione da fare: il senso timbrico
vocale-strumentale nell'ingresso del violoncello e in quello della voce si
smarrisce! Luciano gioca sull'ambiguità timbrica di entrambi per generare un
moto estraniante, che si definisce soltanto alla fine dell'episodio, con il
repentino smorzamento vocale, alla fine di un crescendo. L'effetto è
straordinario, perché il dialogo tende a generare una continuità/discontinuità
tra maschile e femminile, giocando sull'inversione dei riferimenti. La
tenerezza è del violoncello, l'implacabilità, dovuta al fatto stesso della
ripetizione, è della voce femminile. L'intreccio è comunque doloroso.
Ma si tratta
di un episodio, ecco che riprende la narrazione con la chitarra, e conduce ad
un altro scorcio, solo pianistico[6]. E' uno sfogo
liberatorio, parzialmente improvvisato (non che debba esserlo necessariamente,
ma ne ha la freschezza e l'ariosità). E' bella l'esecuzione, con quel basso che
anticipa spesso il tema della destra (come segnarlo?), ma un po' brusca e
semplicistica la conclusione.
Entriamo nel bosco
Appena,
ascoltando oggi il disco, si sta pensando di aver inquadrato il genere (ma
certo, è new age!), ci si ritrova nel miscuglio etnico, indiano, percussivo,
misterico, del secondo quadro. E' l'oscurità che avanza, con le percussioni che
vengono condotte liberamente da Luciano, e che sembrano cadere in modo quasi
casuale, eppure magicamente al posto giusto. Su queste i fiati, che procedono
lentamente, per suoni tenuti, respirati sovente fino in fondo, per fasce
sovrapposte e talora su altezze ripetute. Ed ecco, dopo molti ascolti, si
riesce a individuare il bandolo della matassa: piccoli incisi melodici
tradizionali (della nostra tradizione
melodica) sono stati allargati ('aumentati' è il termine tecnico), affidati a
diverse linee per creare una
polifonia reale, che però è in grado di rimandare, alludere ad un ricordo
pregresso, ancestrale, arcaico.
E' Luciano
stesso che suona il terzo quadro: che differenza dalle sue improvvisazioni, in
cui il pedale andava a farsi benedire! si tratta di un breve pezzo per
pianoforte, quello di cui s'è già parlato. Sarebbe ora troppo facile trovare
assonanze con autori che hanno grande successo: i pianisti della Windham Hill,
i preziosismi pianistici di Arvo Part, le peregrinazioni di Kostia e via di
seguito. Sta di fatto che l' atmosfera
di questo quadretto aforistico non è dovuta soltanto alle note. Non è un atto
semplicemente compositivo. O meglio, l'atto compositivo risiede in
"quella" esecuzione. Questa caratteristica, che accomuna molti grandi
strumentisti compositori, ha fatto a torto parlare di limitata capacità di
scrittura. E invece manifesta la grandezza dell'interprete, che allude cose
grandi anche con poche note distribuite sul pentagramma. Ma questo è un altro
discorso.
Dell'universo assente
E' il titolo
del quarto ed ultimo quadro, cui segue un Interludio.
E' quello più ardito, perché la melodia va disintegrandosi ancor più, e in
sottofondo procede un ritmo ripetuto ossessivamente. Poi l'ingresso di un arco,
e la sovrapposizione tra tutti, in attesa di uno spiraglio. Ogni tanto c'è
l'emissione di un suono che sembra dover condurre in qualche luogo, e invece
niente, si torna alla reiterazione. Peppino Romito dà un doppio colpo, una
sorta di segnale che lascia sole le percussioni, sempre più rarefatte e infine
svanenti, davvero assenti.
L'Interludio
riprende le atmosfere più rilassate dell'incipit, con tanto oriente e molta
napoletanità (mandola). Ma chi pensasse di trovare la pace si sbaglia, perché
lo sviluppo è affidato ancora ai fiati, con l'ostinato della chitarra che
richiama le atmosfere del quarto quadro, e gli archi pronti a creare
sovrapposizioni cromatiche dissonanti ma "risolvibili", per così dire
(il richiamo è al primo quadro). Anche l'Interludio ripropone nel suo piccolo
la struttura triadica, e si conclude così com'era iniziato.
Un'opera di
grande espressività, di grande "atmosfera".
La magia del missaggio
L'atmosfera
viene sempre tirata in ballo quando si descrive la musica di Luciano. Ma,
tenendo conto che lui non scriveva nulla, se non appunti "visivi", e
che preferiva lavorare con l'interprete tirandogli fuori quello che voleva,
descrivendogli minutamente il tipo di "suono" desiderato,
l'emissione, il timbro, le agogiche, le durate, eccetera... bisognerà pure
riconoscere che l'atmosfera da lui magicamente creata sia nel disco che nelle
performance e nelle esecuzioni dal vivo doveva corrispondere ad una
straordinaria ed onirica lucidità mentale. Si tratta di una dicotomia capace di
generare opere. A forme indefinite corrisponde un'intuizione certa, ed alla
fine non si sa se sia il marmo che va via da solo o esista una tecnica di
supporto che produce
Mediterraneo? No grazie.
Un luogo
comune da sfatare, e francamente un po' ripetitivo, è quello della
mediterraneità di questa musica (l'immagine
del mare, delle culture differenziate, della culla della civiltà
mescolata). Inizialmente carino come tutte le invenzioni estetiche, ci è infine
venuto a noia. Il motivo è quello stesso che dovrebbe spingere l'intera civiltà
musicale napoletana a guardare oltre le mura, o, come diceva Luciano, a farsi
europea in senso sostanziale, senza verbosità eccessive: quel che in parte e
solo oggi la giunta di sinistra sta realizzando, con l'immagine, ma ancora
poco companatico. L'amicizia di Luciano con Gianni Cesarini[7], il critico
militante del Mattino, gli aprì la
possibilità di esprimere direttamente idee su questioni fondamentali, come
appunto lo scontro, allora sentito molto fortemente, tra la musica colta
d'avanguardia (quella che oggi si può definire, semplificando,
"sperimentale") e quella popolare, nelle fattispecie leggera e folk.
Si può intuire chiaramente come i due punti di riferimento non fossero altri
che Pino Daniele e
Fatto sta che
adottando lo stereotipo del mediterraneo, s'è troppo spesso interpretata
l'opera dei napoletani come oscillante tra due opposti: da un lato la solarità
(pizza, taralli e mandolini) come spinta propulsiva; dall'altro l'oscurità: la
protesta ed il lamento come deterrente allo sviluppo (traffico, camorra, arte
d'arrangiarsi, perché basta che ci sta 'o
mare). La napoletanità è stata troppo spesso riferita ad un andamento binario , ad una lettura orizzontale. E' una fortuna che la musica penetri negli
interstizi e produca vertigini.
Un'onda, molte onde
Partendo dalla
musica si potrebbe restituire alla città una visibilità prospettica. O andare oltre la semplice acquisizione
(foucaultiana/delueziana/guattariana...) della prospettiva, perché la storia si
svolge seguendo percorsi infinitesimali, d'impervio racconto. Basta far propria
la tecnica, certo più profonda, più empirica, meno sperimentabile, dei moti
ondosi. Come descrivere un'onda? Eppure le tracce della metropoli col
susseguirsi di movimenti successivi, le curve di particelle che ne aggregano
vitalità e riposo, sembrano impresse dall'impeto frattale dell'acqua, o dalle
sue blande peregrinazioni. Se devo spiegarmi la musica di Luciano (qualsiasi
musica) pensando ad una opposizione luce/ombra allora non vedo cosa ci sia di
difficile nell'interpretarla, nel cercarne una ragione. E invece la ricchezza di un'opera (qualunque opera),
risiede nella capacità di intrecciare discorsi, alcuni visibili, altri
sommersi, di travolgere gli argini e le
strutture che limitano, di sorprenderci con spruzzi e sberleffi inaspettati ed
inspiegabili, che evidentemente rimandano
ad altro [8]. Lyotard ha
parlato del gioco del discorso, Levinas delle strategie del rinvio, ma aldilà
degli strati, degli andamenti carsici, che possono costituire il metodo, un
senso personale va pure rivalutato.
La
comprensione di un autore non può limitarsi all'analisi, all'ascolto guidato,
alla ricostruzione documentale. C'è qualcosa di più che deve parlare, non
necessariamente accendersi alla disponibilità di ognuno, non necessariamente
riscoprirsi a portata di mano, dietro l'angolo. Come se il silenzio potesse
talora conquistarsi un'eloquenza in grado di muovere e sfidare le intelligenze.
I suoni sconsacrati
A parte le
esecuzioni pianistiche sempre più numerose di Eugenio Fels, la prima importante
rassegna napoletana affidata alla direzione artistica di Cilio, col patrocinio
del Comune e degli assessorati allo Spettacolo e ai Problemi della gioventù, fu
"Aspetti della musica a Napoli", tenuta nella Chiesa sconsacrata di
Donnaregina Vecchia, il 24 maggio del 1980. Il bravissimo Emery Cardas, al violoncello,
ed Eugenio al pianoforte presentano la Suiff,
incorniciata (tra l'altro) dalla Suite
dai tempi d'Holberg e dalla Sonata op.
Sempre nell' '
La ricerca
Ed eccoci
arrivati ad uno dei nodi fondamentali. Cosa rappresentava la ricerca in quegli
anni? E' certo cosa difficile da raccontare, visto che la battaglia per il
nuovo, di cui parla anche Bortolotto in un suo libro, col tempo era diventata
estenuante per tutti, critici, pubblico, esecutori e compositori compresi
(ciascuno reggeva soltanto i propri pezzi). La verità è che i luoghi comuni
della sperimentazione, come oggi è noto a tutti meno che ai depositari eburnei
di quel vangelo, avevano azzerato la necessità di senso, dove la parola ha
proprio il connotato di 'direzione'. Si era smarrito il percorso, un percorso
qualunque. Vigeva soltanto la noia, l'elite, le rigide e frigide categorie
adorniane. L'accademia, che forse ha la vera colpa della morte di Luciano,
esercitò, come in altri campi in Italia, un effetto devastante. Il luogo della
cultura, semplicemente, si mosse dalla sua sede naturale, istituzionale, e lo
spostamento finì col propiziare percorsi individuali, gruppi ideologici non
allineati, alternativi, talvolta 'anarchici'. Chi restò inchiodato alla sedia
dovette invece consolidare metodi e strategie 'scientifiche', certo in grado di
soffocare i già deboli afflati culturali. Gli effetti di quel processo, allora
appena in vitro, sono oggi sotto gli occhi di tutti, con la tangentopoli
universitaria appena scoppiata, con le dimissioni eclatanti di chi la cultura
vuole farla davvero, e per riuscirci è costretto ad andarsene. Tutto ciò era
ben noto a Luciano, che in un'intervista rilasciata a Lucio Seneca, per Paese Sera (22 ottobre 1979), lanciava
una accusa precisa e dettagliata: "Il rischio, da parte dei musicisti, è
quello di impegnarsi a capofitto nella ricerca senza una coscienza
storica". E affondava la lama: "a questo punto, la ricerca diventa
gratuita, pretestuosa (...). E' un'avanguardia accademica, di maniera, che non
svolge alcun ruolo storico ed è origine di confusioni e di ambiguità"[10].
Una rassegna storica
Se nel '79
questi erano i pensieri di Luciano, ecco svolgersi nell' '81 il più importante
avvenimento legato alle esperienze contemporanee partenopee di quel decennio:
la rassegna "Avanguardia e ricerca a Napoli negli anni '70". Il
progetto, forse, è in una frase di Cilio stralciata dal programma: "la
musica, al di là della costruzione di un 'oggetto sonoro', è in fondo proprio
la volontà di materializzazione di un universo alternativo, un habitat 'altro
da sé', dove la coscienza del tempo reale possa essere addirittura nullificata,
di essa possa essere operata un'idea di trasmutazione, alterata dalle sue
stesse compressioni/dilatazioni". Sarà necessario sottolineare l'aspetto
orientale, quello filosofico dell'uscita da sé rivolta però ancora alla dimensione
temporale, quello alchemico della trasmutazione, quello tecnico/musicale che
individua l'espressione agogica nel respiro?
Fatto sta che
i quattro compositori promotori (oltre a Luciano, Carmelo Columbro,
Il dibattito sulla musica elettronica
Si era appena
conclusa la rassegna, ed ecco scatenarsi uno dei dibattiti 'estivi' che
accompagnano l'ozio degli intellettuali napoletani (intendo di quelli stesi al
sole in panciolle), ospitato sulle pagine del quotidiano locale, col titolo,
già tutto un programma, "Se la fantasia alza bandiera bianca". La
musica elettronica li aveva toccati, eccome! A tutta pagina, in cultura, il 10 agosto interviene Giovanni Amedeo (A tutta macchina). Lo scrittore si
concede lunghe riflessioni sulla natura dell'astrattismo, considera come Cilio
avesse ragione valutandone la portata, e tuttavia si chiede se l'aver posto un
rilievo simile fosse sufficiente ad orientare la ricerca: "il punto chiave
è qui: in quale rapporto col contingente o, se si vuole, con l'evoluzione (o
l'involuzione) storica si pone l'arte. Cilio dimostra di non avere alcun dubbio
in proposito e semplifica anche troppo la questione sostenendo che Bosch e
Paolo Uccello sono grandi artisti con propensioni all'astratto".
Si dilunga poi
sulla distinzione di Vico tra forma e congettura, per approdare ad una
definizione della fantasia che parte dalla memoria dilatata (è sempre Vico).
Nel caso della 'forma', viene scomodato anche il materialismo dialettico di
Marx, per concludere che sono le forme ad essere richiamate a nuove variazioni
o a nuovi significati ogniqualvolta si sia compiutamente e felicemente artisti.
Per Amedeo "la cultura moderna, intrisa di scientismo, è nata e si è
sviluppata in diretta antitesi con l'arte"; questa considerazione prelude
all'attacco allo sperimentalismo, alle "specifiche propensioni di De
Santis" nelle quali non scorge nulla di nuovo (!!), fatto salvo
l'interesse per il calcolatore (!!!). La conclusione vorrebbe essere una
stroncatura: "sia Cilio sia De Santis si sentono rivoluzionari. Peccato
che la loro rivoluzione non è quella di cui si sente più bisogno: una
rivoluzione che bandisca il chimerico e restauri la vera razionalità".
Il 14 agosto è
la volta di Luigi Compagnone, che ancora si chiede cosa sia la fantasia, e
racconta della bruciante risposta ricevuta un giorno da Bruno Maderna e Luciano
Berio, all'inizio degli anni '
A settembre,
il due e il ventuno, le repliche di Compagnone e Amedeo. Il primo si scopre di
più; le sue osservazioni intendevano solo cogliere la 'qualità' delle stanche e
ripetitive contraffazioni e di "quelle sperimentazioni del linguaggio
effettuate a base di calcolatori, cervelli elettronici, computers, li si chiami
come meglio si vuole". Gli strumenti usati sono ancora francofortesi, la
critica è quella all'industria culturale, la conclusione tira in ballo il
creativo spirito d'immaginazione di Coleridge... Anche Amedeo usa un
procedimento analogo, cita Horkheimer, ed afferma testualmente che "non c'è operazione del computer che non
si possa eseguire con carta e penna. Il solo vantaggio offerto dalla macchina
consiste nel poter eseguire le operazioni con grandissima rapidità". Il
che, naturalmente, dimostra solo che lo scrittore non considerasse la
possibilità di generare col computer suoni mai ascoltati prima.
Opera-Idra
Al di là delle
argomentazioni, col senno di poi facilmente attaccabili, non si può che
prendere atto della grande mobilitazione di intellettuali di grosso calibro, e
del notevole spazio giornalistico conquistato da una 'semplice' rassegna
concertistica. Ciò avveniva con uno spostamento d'asse rispetto alle intenzioni
dei promotori, perché l'aspetto elettronico non riguardava che una piccola
parte dei brani ascoltati, e la ricerca restava prevalentemente ancora di tipo
strumentale e vocale.
Ma la
elettronica avrebbe meritato una trattazione più lungimirante, visto che oggi
l'home computer è nelle case di ogni compositore. La presenza di
quell'elettrodomestico, comunque la si consideri, ha già cambiato le abitudini
dei musicisti: per un verso diminuisce lo scarto tra immaginazione e
realizzazione (sia che si pensi a suoni e assemblaggi tradizionali che a
cambiare temperamenti e proporzioni intervallari), per l'altro si propone (ed è
il caso della elettronica vera e propria) come sconfinata estensione creativa
di suoni, ritmi, sovrapposizioni. In entrambi i casi, l'acquisizione dei fonemi
della macchina (e la costituzione di silicei linguaggi autonomi, alla Blade
Runner) mi pare il minimo di quel che potrebbe accadere; l'uomo interagisce col
computer estendendosi a sua volta, confrontandosi con pensieri sempre meno
mediati. E' nello scambio di alterità il massimo interesse del virtuale.
Dal punto di
vista estetico, inoltre, la possibilità
di veicolare suoni senza barriere attraverso medium diversificati ci pone di
fronte ad una acquisizione fondamentale, densa di sviluppi futuri: la scomparsa
della figura dell'autore/compositore. I midi-file circoleranno via cavo con la
possibilità di essere modificati da ciascuno; a quel punto conterà più chi ha
dato il primo input o l'opera tentacolare e multiforme, un'opera-idra, che si potrà ascoltare con un clic?
La musica infiltrata
Sempre per
Estate a Napoli, si era tenuta a San Martino, tra il 24 e il 25 luglio, l'azione musicale Suite per un Castello di Pasquale
Come mai la
presenza della elettronica non aveva scandalizzato più di tanto in quella
occasione? Certamente si trattava di una cosa differente, perché in quel caso
l'intero luogo aveva cominciato a
risuonare, e s'era intuito che ciascuna
musica può avere una direzione di senso divaricata dalle abitudini
convenzionali d'ascolto. Se c'entra la 'musica d'arredamento', c'entra pure
quella infiltrata, capace di scivolare nelle connessioni tra roccia e roccia,
di alloggiare anche provvisoriamente negli stucchi appena discostati. Una
musica che come un parassita attecchisca sulle mura, per svaporare appena
diluita nello spazio, perché fondamentalmente nomade. Il suo valore risiede
propriamente nell' uso diversificato,
nella sua adattabilità. Se una critica andava posta alla elettronica (che
all'epoca era comunque ancora terribilmente sperimentale) avrebbe dovuto esser
formulata in termini di inadeguatezza d'esecuzione. Una musica così non può
morire in una sala da concerto tradizionale, va arricchita di vettori, deve
conservare il suo respiro, la sua vacanza semantica. Può così essere
ricollocata in ambiti diversi, sortire i suoi effetti, veramente infiltrarsi.
Suite per il Castello di San Martino
Dal programma,
Giuliano Scabia: "Colloquio di musiche. Armonizzazione di sfere sonore
diverse. Esplorazione di uno spazio, dei suoi ricettacoli fonici. Una città è
una cassa sonora: il corpo di uno strumento un tempo suonato da voci, passi,
cavalli, carri, oggi da motori, voci, passi, clacson, rombi". L'evento
nasce dall'esperienza mutuata dai laboratori dell'estate precedente. L'azione
prende il via fuori dal Museo, con la Banda di Salemme su trascrizioni di
Liebesleid
Torniamo a
Luciano, la cui esplorazione riguardava prevalentemente gli strumenti
tradizionali. Gà nella tanto discussa "Avanguardia e ricerca" aveva
provato in pubblico, senza illustrarli nelle note, i Due studi [15] eseguiti da Donella Del Monaco ed Eugenio
Fels. Nella nuova, ed ultima, rassegna, curata insieme a Columbro per Estate a
Napoli '82, i Due studi, parzialmente
rimaneggiati, diventano Liebesleid,
un titolo preso in prestito da Kreisler. Fels, dopo aver confrontato le parti,
afferma in un'intervista che quella pianistica resta immutata, ci sono dei
segni in più in quella per voce, vengono eliminate delle ripetizioni. Solo chi
ha suonato sia Suiff che Liebesleid può vedere, inoltre, che
all'elemento della circolarità del primo si va a sostituire una sezione
improvvisativa nel secondo. Lo spartito/canovaccio segna soltanto le altezze
d'arrivo per la voce, e alcune semibrevi con un simbolo di tremolo, la cui
esecuzione, nel ricordo di Fels, corrispondeva a "grappoli di note
vicinissime, che creassero un'onda, un rombo, doveva muoversi una massa di
suoni dalla parte bassa dello strumento fino a quella alta, e viceversa: un
gioco di timbri". In Liebesleid vi
è un uso ardito degli intervalli della
parte vocale, che mette a dura prova qualsiasi soprano, e l'uso, per la seconda
volta nella sua produzione nota, dell'improvvisazione[16].
Questo brano è
l'ultimo composto ufficialmente da Luciano: porta una bellezza sconvolgente,
restando tuttavia agghiacciante nella rarefazione, nelle sottrazioni a cui
forse fu sottoposto. Ascoltandolo, noi compositori avremmo dovuto capire che
parole ulteriori non sarebbero venute dalla sensibilità di quell'artista. S'era
verificata una congestione tra la emergenza vulcanica e sentimentale delle
prime sonorità (iDialoghi ) e le
successive soppressioni, irriducibilità, essenzialità. L' afonia di Liebesleid è paradossale; è davvero un
canto di morte.
Un gran calderone
A distanza di
anni, e benché gli "Incontri nazionali della Nuova Musica", tenuti
l'anno dopo (è l' '82)[17], avessero
consentito a me di esordire come pianista in una manifestazione napoletana
importante, e avuto il merito di ospitare l'Improvvisazione
per violoncello e pianoforte di Fels, non posso fare a meno di considerare
l'aspetto calante della nuova rassegna rispetto a quella dell'anno precedente,
e del resto la cosa non mi pare sorprendente, sapendo quel che stava accadendo.
Innanzitutto,
troppe concessioni all'accademia, con nomi di compositori legati ad ambienti e
scuole ben precise ed individuabili. Gli incontri volevano tentare di portare
Napoli nel logorroico e ristretto circuito della musica contemporanea
sperimentale; per chi aveva tanto criticato l'esterofilia della città non era
una concessione da poco. Il punto è che Cilio era ormai entrato in contatto con
forze istituzionali e accademiche che non si sposavano bene con la sua natura,
costipandone la personalità e schiacciandone
Gli errori della critica
Di quelle
serate mantengo un ricordo già descritto e pubblicato[18], legato
soprattutto all'incomprensione del pubblico, che perlopiù disertò i concerti.
Anche i critici, forse perché non coinvolti direttamente, si mossero con
disattenzione o disinteresse. Ancora mi chiedo, con rabbia profonda, per quali
ragioni un certo giornalismo dovesse incorrere in errori molteplici e reiterati,
come ad esempio nell'esclusione di certi nomi dal novero dei compositori
partecipanti alla rassegna, in sbagli sulle età dei musicisti coinvolti[19], nel
pressappochismo giustizialista di alcuni[20],
nell'incomprensione (dimostrata fino all'altroieri) di altri[21]. Per
Le uniche
commemorazioni od esecuzioni di brani sono state tenute e volute quasi
esclusivamente da me o da Eugenio Fels[23]; ne chiediamo
e pretendiamo il merito, perché il silenzio e l'inerzia di tutti gli altri
operatori o musicisti, ancorché sollecitati ed invitati più volte a muoversi, è
stato e resta scandaloso e gravissimo.
Se muore un amico
E' difficile
evitare
Con il mero
sperimentalismo un intenso e ricco patrimonio di talenti veniva dissipato. Chi
non ebbe la forza di cambiare si piegò in solitudine, e cadde. Una generazione
di soccombenti.
La giusta collera
L'impeto da
'giusta collera' che era appartenuto al Cilio degli inizi viene ereditato in
parte da Fels[24], il quale,
benché docente di conservatorio, mantiene una autonomia creativa che gli
impedisce di confluire in scuole già consolidate. L'abitudine di vivere in una
full immersion musicale lo preserva da frequentazioni politiche dannose. Il
motto romantico "libero ma solitario" viene opportunamente scremato:
molti compagni di percorso, tanti allievi, ma capacità di allontanarsi dalle
pastoie burocratiche.
Come
interprete Eugenio non ha esitato, fin dagli esordi, a mescolare come si faceva
prima che la nozione di 'repertorio' si attestasse, brani originali con altri
già acquisiti. Se si pone l'accento su questa abitudine, vi si troverà il seme
del cross-over, il principio della commistione; e non è un caso che lui mostri
grande attitudine alla trascrizione, presto divenuta reinvenzione, e infine
composizione su suggestioni.
Si è già detto
che all'ultima rassegna voluta da Luciano nell' '82 avevo eseguito in prima
assoluta l' Improvvisazione per
pianoforte e violoncello, una delle prime composizioni non 'ripudiate'. Ma
altri brani notevolissimi la precedono, sia dal punto di vista
tecnico-strumentale, sia per il fatto che già mostrano una felicissima vena
tematica (parliamo dunque di pezzi tonali, dallo sviluppo formale classico)
sono il Preludio-fantasia, per
pianoforte, del 1969[25]; l'Adagio e Allegro, per pianoforte, del
1970; il romantico Concerto per
pianoforte e orchestra (1971); il
Concerto per violoncello e orchestra del 1972; la Toccata per organo del 1974.
Già altrove mi
ci sono riferito, rilevandone le costanti: uso della modalità, ripetizione di
Leitmotiv, capacità di escogitare melodie che echeggiassero per atmosfera
lontananze medievali e barocche (specie per il gusto polifonico, sempre esibito
in modo appropriato), ma per conduzione fasti e scoppiettii romantici. Già quei
lavori presentano elementi ritmici originali, talvolta vicini al jazz; e da
subito, quindi, l'opera di Fels appare contraddistinta da una sorta di
sospensione temporale, che mi ha sempre fatto pensare alla "lontananza nel
tempo", intesa in senso goethiano.
Le composizioni rigettate
Non mi pare
inopportuno soffermarmi ad analizzare anche dettagliatamente quei lavori,
perché è il solo modo che conosco per dar loro visibilità: se fossi un
produttore non starei qui a cianciare. Ed è forse il caso di precisare subito
che quasi tutte le musiche che abitano queste pagine sono inedite, non
pubblicate, spesso poco eseguite. Le racconto per evitare che svaporino come
quelle di Luciano[26].
Il Concerto in Si minore per violoncello e
orchestra (Vacciago,12 settembre 1971, concluso a Napoli il 3 settembre del
'73; credo oggi di essere il solo a possedere una copia del manoscritto
inedito), essendo scritto ai limiti delle possibilità classiche dello
strumento, arriva sì alla tonalità, ma lo fa attraverso un vorticoso
susseguirsi di dissonanze. Il primo movimento comincia con un Allegro
prevalentemente cadenzato; dopo una breve preparazione dell'orchestra, il violoncello
attacca con una serie di arpeggi con trilli, avviandosi ad una lunga cadenza,
con l'orchestra che accompagna o s'interpone per progressioni (il movimento
dell'oboe è estremamente romantico). Notevolissimo l'inserimento e l'uso del
basso elettrico. Cambi di tempo repentini e numerosi: il Presto segue
velocissimo con il violoncello che arpeggia, si scatena in scale e figure
irregolari. Viene fuori la caratteristica forte, cioè l'incrocio tra ritmi
differenti, quasi rock, che spiega l'inclusione del basso elettrico. Anche
l'organo fa la sua parte. Il Secondo movimento, Adagio, comincia con
l'esposizione del tema da parte del violoncello, subito ripreso dall'orchestra.
E' malinconico e tardoromantico, struggente e bellissimo. Durante lo sviluppo
non mancano elementi connettivi col primo tempo. Il Terzo movimento, un po' più
scolastico, voglio menzionarlo soprattutto per la presenza di una sezione in
stile improvvisativo.
Il Concerto in do minore per
pianoforte e orchestra, iniziato nel gennaio del '70 e concluso a Napoli
l'undici aprile del 1974 (la Fantasia da
concerto eseguita sovente dal vivo e talvolta indicata come Adagio e Allegro è la versione
pianistica del secondo e terzo tempo) è inedito e mai eseguito con l'orchestra.
L'incipit è misterico, ispirato, capace di catturare immediatamente
l'attenzione; la scrittura pianistica è estremamente virtuosistica, e mescola
differenti luoghi della tradizione strumentale. Il Lento con molta espressione
espone il tema tra flauto e oboe, ma lo affida presto al solista: il
movimento è malinconico, la scrittura tradizionale. Il terzo tempo, Vivace (alla russa) non viene separato dal secondo: è
un'infuocato sfogo pianistico, e chi ne
abbia sentito in concerto la versione solo strumentale ne resta profondamente
coinvolto.
Tra i brani
solo strumentali di questo periodo merita menzione anche la Toccata per organo, cominciata nel
giugno del '73 e conclusa nell'aprile dell'anno dopo. Essenzialmente
tripartita, con una ripresa variata, comincia con una suggestiva introduzione
in do diesis minore, affidata alla pedaliera. Il tema è subito inseparabile
dalla sua distensione accordale, viene sviluppato fino alla sovrapposizione con
l'introduzione, capace di creare più di un brivido armonico per la
sovrapposizione tra un fa doppio diesis (sol naturale) e l'accordo la-do
diesis-mi-sol diesis.
Un "notturno" importante
Il vero
spartiacque è nel Notturno, un brano molto particolare del 1975, scritto per la
concertista anglo-tedesca Antonietta Webb-James, maestra del nostro. La
Webb-James, ormai piuttosto anziana, aveva subito una paralisi alla mano
destra, che era riuscita tuttavia a rieducare, rinunciando solo in parte
all'estensione. Ecco che Eugenio immagina questo pezzo dolcissimo, che esige
dalla sinistra doti particolari di velocità, adattabilità alle posizioni,
distribuzione del peso, e chiede invece alla destra 'soltanto' poche note, che
possono essere legate, oppure accarezzate (ovvero slegate) ma fuse insieme con
l'uso di un particolare tipo di pedale; insomma, è un vero esercizio di tocco.
Il Notturno possiede un'atmosfera
malinconica che sarebbe errato definire tardoromantica, perché essa resta
invece collegata in modo omogeneo, attraverso lo studio e la soluzione di
problemi tecnici pianistici, grazie quindi all'estrema congruenza tra l'atto
compositivo e quello esecutivo, alla produzione di grandi pianisti/compositori
appartenenti al passato di quello strumento; e naturalmente mi riferisco ai più
originali.
Improvvisando a cavallo del tempo
L'Improvvisazione è stata scritta per pianoforte e violoncello
(ma vi si può sostituire il contrabbasso: in questa versione non è mai stata
eseguita, ma la immagino sicuramente
molto originale , con il cb che arranca per stare dietro al pianoforte) e non
il contrario. A qualsiasi esecutore capiti per le mani lo spartito, apparirà
lampante la predilezione per il piano: basta confrontare la lunghezza e
l'incidenza delle due cadenze, e l'espansione estrema della scrittura
pianistica nel finale, che giunge dopo una serie di protagonistici accordi
dissonanti; una battuta di sette/mezzi fa allargare le braccia al pianista, dal
centro verso l'esterno, ed il gesto esplode con acciaccature al basso (Fels è
generoso nel concedere licenze: spesso eseguo il brano con ottave) e la ripresa
finale del tema. Le cose notevoli dell'Improvvisazione
mi sembrano, oltre alla richiesta di una interpretazione consapevole e capace
di tensioni/distensioni (anche se i pianisti in possesso di tale capacità non
mi sembrano poi tanti), il tentativo di codificare l'improvvisazione, un po'
come fa Stravinskij, anche se qui il jazz c'entra poco. Il nesso tra le due
particolarità risiede nell'uso del tempo rubato, che è il vero ponte tra
scrittura, assenza di ritmo ed improvvisazione. Va detto, per completezza, che
la versione oggi 'autorizzata' da Eugenio è diversa da quella definita il 16
giugno '79, perché la parte per violoncello è molto più piena. Le linee di
sviluppo, tuttavia, restano le stesse.
Antica Monodia, scritta nel 1982, riesce a condensare
e riassumere la scrittura in due semplici linee melodiche; è un brano che
appartiene a un filone fortunato, alla "musica per cinque dita" con
la quale prima o poi i pianisti compositori si cimentano. E' come se fosse una
purificazione (mentale e spirituale) dal virtuosismo esecutivo, che consente di
calarsi poi in quello compositivo: voglio dire che non è affatto facile
scrivere cose interessanti utilizzando pochissime note, in pagine accessibili
anche ad un bambino.
Quando nell'
'85 ho eseguito in prima assoluta sia il Notturno
che Antica Monodia c'è stata una
notevole risposta del pubblico. Da allora, abbino spesso il piccolo brano ad
altri di maggiore difficoltà, perché situa l'ascoltatore in un non-tempo in
grado di propiziare e decollocare qualsiasi ascolto successivo.
Il Gruppo Ricerca e Sperimentazione
Risale al
1982, e quindi all'anno che precedette la morte di Cilio, la nascita (o la
concretizzazione, se si vuole) del "Gruppo Ricerca e
Sperimentazione", che unì le esperienze di diversi esecutori e
compositori. Ricordo con precisione il momento in cui decidemmo di fare
qualcosa che assomigliasse alle rassegne napoletane, naturalmente
differenziandole e personalizzandole. Eravamo ad una stazione della "Vesuviana":
c'è un trenino che collega tutti gli aggregati periferici. Quel trenino aveva
una sorte simile alla nostra: passeggia su un tratto ferroviario famoso per
essere stato il primo realizzato in Italia. E tuttavia sferraglia in zone di
confine, o se si preferisce resta al confino.
Con Montagano si pensa di coprire quei paesi attraverso una attività-corridoio
condensata nel gruppo. Col nostro progetto avremmo scovato forze e talenti di
quelle parti, valorizzato le attività nascoste, anche quelle legate al patrimonio
di memorie tradizionali. Il tutto senza disdegnare il potenziale sperimentale che avrebbe potuto
vivificare anche le afasie della metropoli. Quella consapevolezza non era da
sottovalutare: oggi si sa che sono proprio le realtà laterali, le voci delle
culture del disagio, i ghetti dentro e fuori dalle metropoli, che rispondono in
modo energico e sinergico alla sterilità, soprattutto di talenti, della città.
Recentemente, per sintetizzare tutto questo in un titolo, ho scelto
un'allusione ad Asimov, e ho scritto della "Provincia dell'Impero"[27]. E non è un
mistero che le origini del rap, o l'emergenza straordinaria della musica nera
(d'Africa, intendo), stiano portando linfa vitale ad un linguaggio altrimenti
incapace di rinnovarsi. Anche la cultura della guerra, purtroppo assieme alle
devastazioni, o quella della persecuzione (si pensi al rai algerino), producono
canti di rivolta e di dolore che dicono
nuovamente qualcosa. L'estetica non può nascondersi una nuova forte evenienza
di senso.
Il gruppo
esordisce nel Giugno Popolare Vesuviano organizzato dall'Arci-Villaggio Vesuvio
nella ricca e provinciale S. Giuseppe Vesuviano, nella apparente tranquillità
di Ottaviano, e nella piccola Terzigno. Il 10 Giugno si terrà un concerto che presenta, tra l'altro, musiche
mie, di Gabriele Montagano, di Giusto Pappacena.
La seconda
rassegna si terrà nel marzo dell' '
Il gruppo
andrà man mano disgregandosi nell' '84, ma produrrà ancora, rispetto ai
contenuti, gli importanti "Incontri di Musica Contemporanea" nel
Chiostro di San Francesco per l'Estate Sorrentina, a cura di Gabriele
Montagano. Lì ci sarà l'unica esecuzione congiunta dei tre brani, in qualche
modo correlati, per violoncello e pianoforte: a Suiff e Improvvisazione
si aggiungerà il mio IV Quadro tratto
dall'operina in cinque scene Libido. Gli
interpreti: il bravissimo Petric Drummond al violoncello e Domenico
Schiattarella al pianoforte. Si eseguirà, inoltre, l'intero trittico di Metafore di Gabriele e le sue Itineranze, appena composte (al piano
però suona Natale Garufi), Il terribile
cappuccetto rosso di Giusto Pappacena. C'è anche la presenza di un
accademico napoletano, Bruno Mazzotta, con il Dittico infantile. Tra i non napoletani, nomi di prima grandezza
della scuola sperimentale: Manzoni, Gentilucci, Bussotti, Porena, Clementi,
Rendine. Due voci originali, quella di Castaldi e quella del trombonista
La porta del sole
Quello che in
genere indico come l'ultimo atto del "Gruppo Ricerca e
Sperimentazione", che non compariva più ufficialmente sui programmi, fu la
divertente rassegna "Musica, Performance ed altre storie", voluta
dall'Arci per l'undicesimo giugno popolare, e organizzata soprattutto da Giusto
Pappacena. Una trasformazione era avvenuta nel marzo dell' '84, con la costituzione
di una associazione, "La Porta del Sole", il cui nome fu suggerito da
Eugenio Fels. La nuova associazione partiva con bei presupposti, perché
riuscivo a pubblicarne il manifesto sul quotidiano (poi diventato settimanale) Napolinotte, del quale ero collaboratore.
Ogni sabato facevamo uscire un 'paginone' centrale monografico su temi di
rilevante interesse per la città, e quello del tre marzo 1984 lo dedicammo a "La porta del sole: spunti per
un'estetica dell'improbabile". L'occhiello recitava, in corpo sedici e senza
possibilità di confusione: "La musica contemporanea a Napoli è da sempre
considerata un prodotto sottoculturale, se non addirittura antiartistico.
L'alternativa a questa idea è offerta da un gruppo di compositori, già riunito
nel Gruppo di Ricerca e Sperimentazione, ora presenti sul territorio partenopeo
come associazione. Si tratta de 'La Porta del Sole' che raccoglie molti degli
artisti napoletani che avevano trovato finora i maggiori spazi all'estero e al
Nord Italia". Il paginone assemblava L'alchimia
del suono e L'antiestetica, a mia
firma, e Il soggetto, la memoria e il
disincanto, un lungo e erudito articolo di Montagano. Partendo da
un'epigrafe di Rilke ("Canta all'angelo il mondo, non l'indicibile")
e di Nietzsche ("Ma l'indicibile afferrò un lembo della sua veste e
ricominciò a gorgogliare e a cercar parole"), Montagano compie una
ricognizione della possibilità di parole ulteriori, partendo dal Tractatus di Wittgenstein, e passando
naturalmente attraverso l'opera di Franco Rella e citazioni da Benjamin. La
conclusione ruota attorno alla nozione di disincanto: "La visione
messianica è il riscatto di una memoria
disincantata - che non ha nostalgia perché non ha nulla da recuperare: vive
nelle ali dell'angelo che riprende a volare senza l'inquietudine del corpo. La
redenzione ci è donata dal passato che reca con sé il segreto di una debole
forza messianica. Sarà questa forza disincantata a portare a compimento il
passato e a redimerlo. La redenzione e il disincanto sono i nuovi paradigmi del
sapere".
Più eversivo,
apparentemente antiavanguardistico, ma sostanzialmente agguerrito contro gli
esiti castranti del periodo sperimentale, il mio intervento: "è tempo di
andar oltre
I nomi e i
brani della rassegna "Musica, performances ed altre storie" sono
pressappoco quelli già presenti a Sorrento. Ma Rosario Musino eseguirà, assieme
alla soprano Margherita Pucillo, una serie di brani vocali:
Diversioni
I quattro
compositori che animano "La Porta del Sole" e che prima avevano
formato il "Gruppo Ricerca e Sperimentazione" prendono strade
differenti. Fels è sconvolto dalla morte di Luciano, ma lavora attorno alla sua
Vent qui chante, Vent qui danse - Sonata,
provandone in concerto varie versioni. Io mi dedico al giornalismo, conducendo
una serie di interviste sulla musica contemporanea a Napoli, e al concertismo,
portando direttamente al pubblico le mie composizioni. Gabriele Montagano si
rivolge alla ricerca (prevalentemente sperimentale) delle possibilità vocali,
tenendo un laboratorio che lo condurrà, nel 1986, alla registrazione dell'opera
Evento, un rondeau in un atto per
quattro voci, sax tenore, violoncello e trombone. Giusto Pappacena si dedica
soprattutto alla carriera accademica, ma anche alla computer music (non alla
musica elettronica: volgerà le sue opere in accurate e fedeli versioni per
computer, facendo però uso di stilemi piuttosto accademici e riproducendo le
sonorità di strumenti tradizionali).
E' la fine
dell'esperienza associativa, anche se si manterranno sporadiche collaborazioni.
Soltanto io e Fels continueremo ad operare insieme, fondando nel
Spinte centrifughe e centripete
Una
fondamentale divergenza era intercorsa tra me e Gabriele, forse visibile anche
leggendo trasversalmente i programmi delle rassegne rispettivamente curate. Il
mio tentativo era sempre stato quello di valorizzare i percorsi dei compositori
locali, attraverso formule associative che consentissero esecuzioni pubbliche,
ma che presto avrebbero dovuto sfociare in dischi e pubblicazioni. Si trattava
di una spinta centrifuga, che sognava di mostrare all'esterno le acquisizioni, le idee precorritrici, tutto quanto
di buono avessimo potuto forgiare nei nostri laboratori meridionali. Il mio
intervento era anche distruttivo, e polemico, sulla scorta dell'esperienza di
Luciano, il cui percorso mi pareva
debole soltanto per l' 'apertura' al circolo dei compositori accademici.
Viceversa, Montagano viveva in modo pieno la stagione sperimentale, certo con
una coerenza ferrea, tale da spingerlo ad abbandonare il corso di composizione
di Bruno Mazzotta. La sua intransigenza sperimentale aveva la forza di
trasformarlo in un autodidatta antiaccademico, allineato però alle sorti
dell'avanguardia storica, quella stessa che Cilio aveva tanto aspramente
criticato, pur ospitandone nell'ultima rassegna illustri nomi. Così, Gabriele,
anche volendo sostanzialmente dare visibilità al suo percorso, come in fondo
ciascuno desidera, intraprese una marcia solitaria, fortemente
individualistica, che lo spinse a raggiungere i migliori risultati, rispetto a
tutti noi, nel campo della musica sperimentale (non è un caso, infatti, che consideri il Trio di fiati come il miglior pezzo di Luciano Cilio). Di quella
musica contattò i principali esponenti nazionali, alcuni ospitandoli nelle
rassegne che curò. Conobbe Giacinto
Scelsi, il quale gli attribuì il merito di scrivere musica che gli ricordava la
sua gioventù, Boris Porena, e molti altri. Dopo aver scritto Evento, che lui chiama
"operina", tra l' '86 e l' '87 lavora a Trieb, e a musiche di scena. Il 1987 sarà un anno di grande produttività,
con E-Lang-A+ 4'30" per
orchestra; Music for Match[30], per voci e
strumenti; Rotte di migrazione,
musiche per teatro; Arset, per percussioni; Dune, per flauto
amplificato; Dissolvenze, per
pianoforte o per archi.
Pian piano,
però, spinto da scelte personali molto sofferte, e dall'esigenza di essere
creativo anche in altri settori, dalla
filosofia alla comunicazione, dall'organizzazione di eventi allo studio degli
scenari del terzo millennio, produce alcune installazioni sonore, tra cui Camera d'ascolto, ed Ecoulements (1991, Museo Bolzano). Si
dedica alla produzione saggistica, lavorando fianco a fianco con Alberto
Abruzzese, uno dei maggiori esperti di televisione e comunicazioni. Pubblica
come curatore o coautore diversi saggi, di cui menziono solo Estetiche del walkman,
Metafore all'avanguardia
L'abilità
principale di Gabriele mi è sempre sembrata quella di assemblare, spostare
oggetti sonori, collocare oppure tagliare, adeguare, il materiale a percorsi
mentali spesso di forte valenza aporetica, ai limiti dell'utopia musicale. Le
opere pensate per strumenti tradizionali sono geniali, al punto da condurre a
buon esito, forse con maggiore spregiudicatezza, quella singolare capacità
mostrata da Cilio di con/fondere strumenti e voci, in modo tale da simularne la
totale contiguità in frasi cominciate dagli uni e terminate dagli altri.
Situare e desituare, per questo autore, non ha un significato soltanto
spaziale, perché il tempo gioca un ruolo importantissimo. L'abilità cageana di
collocare nel tempo di uno spettacolo
di Cunningham rumori estratti da microfoni grattati, sfregati, incartati[31], appartiene
anche a Montagano. I suoni ci sono, al punto giusto, in un tempo che una volta
scandito mostra il segnale della irreparabilità del reale, dell'accaduto imprevedibile
e ingestibile. La capacità del porre insieme, propriamente del com/porre, la si
trova latente nelle molteplici improvvisazioni pianistiche, esistenti in
residue registrazioni in possesso dell'autore. Anche lì, nella capacità
improvvisativa, specie in quella esaltata dall'incontro con altri pianisti, c'è
un gusto dell'incontro musicale a sorpresa, reattivo, che dimostra curiosità e
capacità di gioco. Ma si parla di tempi lontanissimi, in cui le frequentazioni
della tastiera erano appena frenate dai problemi a un polso. Le prime opere
compiute, Metafore ed Itineranze
(e tuttavia Montagano non cita un Preludio, abbastanza romantico, ma con pedali numerosi
riconducibile ad una influenza debussiana, da me presentato in prima assoluta)
svolgono aspetti legati al virtuosismo esecutivo e strumentale dello
sperimentalismo pianistico, con rapide volatine atonali, spesso svolte su aspri
accordi dissonanti. Metafore non è il
meglio che abbia prodotto, sia per l'indugio in tecniche non riconoscibili, non
riportabili cioè ad una specificità linguistica[32], sia per il
desiderio, abbastanza evidente, di sentirsiall'avanguardia..
Di Metafore , scritte nel giugno
dell'83, ho tenuto a battesimo soltanto il primo tempo, Agonia, nonostante il trittico fosse dedicato a me. Un'epigrafe
posta in calce allo spartito dice: "La musica è l'oggetto puro della
mente. E' l'idea praticabile della coscienza. E' il luogo della memoria che si
diffonde nel tempo riconciliato del vissuto". Agonia è un brano che alterna violente sferzate (sestine di
semicrome) a mistici accordi, a irreali, lentissime, crome ripetute, segno di
una implacabilità cerebrale notevole, e tuttavia momento di riposo dagli sbotti
accordali/improvvisativi e dalle volatine reiterate. Nella mia interpretazione
(l'assemblaggio di alcune sezioni era personale, come i coloriti prescelti, ed
i segni di legato) enucleavo momenti di lucidità a parossismi agogici, sempre
ai limiti delle possibilità esecutive. Un aspetto notevole mi pare ancora oggi
la capacità del compositore di gestire il riposo
di quelle volatine, trattenute con legature in accordi bitonali capaci di
risuonare a lungo, ed infine svanenti nel silenzio di una pausa. La
particolarità del secondo tempo mi pare consistere soprattutto nell'ultima
sezione, quando suoni appena accarezzati vengono trattenuti a lungo nel tempo, lasciati risuonare, e
trovano infine riposo in clusters. Il terzo movimento, una toccata, assegna
alla mano sinistra la reiterazione di accordi dissonanti, una sorta di
tormentone per crome, e concede al finale l'uso di rapide passeggiate sulla
tastiera, con i pugni chiusi che disegnano volute.
Itineranze è del 14 marzo del 1984; si tratta di
una pagina costruita sul nome e cognome di Fels (undici suoni più una variabile
che segue certe regole), e al pianista dedicata. E' talmente centrata (e
preoccupata) di sperimentare le possibilità dello strumento da avere bisogno di
un'intera altra pagina per spiegare il simbolismo grafico usato. Tuttavia,
Eugenio l'ha suonata interpretandola a modo suo (grazie alla previsione di
un'improvvisazione), e devo dire che il fine, soprattutto timbrico, appare
raggiunto.
L'operina
Il lavoro più
importante di Montagano è di certo l'operina, quell'Evento, rondeau in un atto per quattro voci e tre strumenti, a cui s'è
già accennato. Il testo è in parte del compositore e in parte estrapolato da
opere di Peter Handke. Evento è stato
eseguito in prima assoluta per una settimana al Teatro Spazio Libero, ricevendo
un'ottima accoglienza, nel febbraio del 1986[33]. E' stato poi
replicato per il Forum degli scambi artistici tra Francia e Italia Meridionale
all'Istituto francese di Napoli[34]. Dell'opera
esiste inoltre una registrazione accurata, una inedita e bellissima incisione
con le voci di un laboratorio vocale, Milena Di Vicino, Daniela Boffa,
Mariarosaria Visco e Titti Mautone. I tre strumentisti (ma sembrano
moltiplicarsi come per incanto grazie alla scrittura di Gabriele) sono Drummond
Petrie al violoncello, Enzo De Carolis al sax e Alessandro Vecchiotti al
trombone. Il risultato è un lavoro di densità sconcertante, in cui è palpabile
l'ansia e l'impellenza creativa del compositore, ma anche la partecipazione
espressiva degli interpreti. Il tempo reale dell'esecuzione è di quarantotto
minuti, suddivisi in due tempi di trentuno e diciassette, ma quello emozionale
è infinitamente più breve, denso come un amplesso sonoro. E un amplesso
sicuramente è simulato da alcuni stratagemmi vocali, laddove i suoni vengono
retrocessi a grida, invocazioni, pure emissioni. L'incipit sembra la
continuazione del Trio di fiati di
Cilio, del quale ultimo, come ho già detto, Montagano eredita l'aspetto più
legato alla ricerca. Ma presto, dal tessuto in pianissimo imbastito dai fiati,
emergono primi sommessi vagiti, brevissimi, puri, accaduti nella narrazione
quasi per caso, come se un respiro si condensasse in parole. Quando la durata
di questi vocalizzi si espande a cavallo dell'altra onda, quella descritta dai
fiati e dal violoncello, il timbro vocale si smarrisce per incanto, e va a
confondersi con quello strumentale. Altre voci, in sottofondo impalpabile, si
mescolano come quelle di anime smarrite nel buio, e pian piano si avvicinano,
descrivendo e modulando l'unico suono fino a quel momento ripetuto dalla prima
solista. Questa atmosfera è contigua a sé, non vi sono interruzioni o fragori
tipici della musica sperimentale deteriore; ma è richiesto un ascolto attento,
disponibile al turbamento, in grado di tollerare le parole e i suoni del
profondo. Il testo parte; ma è decostruito, si percepiscono solo sillabe, a
lungo tenute, una sorta di lamentazione, di pianto di donne perduto nelle
radici stesse della storia. E nel frattempo tutto cresce, in modo
impercettibile, procedendo per onde. Poi le voci. Raggiunto un suono,
rapidamente seguono un pitch discendente, si desituano oltre un tipo, rimandano
a dinamiche insolite, perché usate più frequentemente dagli archi. E' qui che
la confusione di timbri si fa caratteristica pregiata, grazie ancora, ne sono
certo, alla magia del mixer. Alcuni sovracuti spengono la sezione.
Comincia una
sillabazione dei testi piuttosto irritante, perché stavolta più vicina ai
moduli della ricerca fine a sé stessa. L'ossessività della ripetizione
sillabica si scontra con il principio della sua stessa variabilità. Vale a dire
che si percepisce la consequenzialità (sic, con la 'q') di un testo che rompe
con
In definitiva,
l'operina riesce ad essere il racconto delle emozioni allo stato puro.
Sentimenti primordiali come la paura, il gioco, l'amore, la morte, si fanno
suono, e solo l'articolazione della parola mi disturba. "La verità
diventerà verità", e tutte le altre frasi tautologiche, pur affascinando
per il rinvio di senso, costringono l'ascoltatore a definire una soglia
(minima) del linguaggio. Per questo preferisco la prima sezione, che mi pare un
capolavoro nel capolavoro: tutto accade e nulla accade. Ma se quanto descritto
nel finale era stato già realizzato all'inizio, forse l'opera va letta proprio
attraverso l'inversione del suo procedere. Almeno questo suggerirebbe l'ultimo
respiro, che gioca a rimpiattino con il primo.
Trieb
Sempre giocato
sul singhiozzo, sul respiro (per i fiati), o sulla gestualità concitata (per
gli archi), è Trieb, cominciato nel
giugno dell' '86 e concluso nel gennaio dell' '87. Il brano è suddiviso in due sezioni, o
paginoni; nella prima si mantiene una scrittura più convenzionale, nel senso
che le altezze sono definite entro una sequenza di otto note, permutata dopo
due esposizioni e mezzo. Quasta pagina può essere eseguita anche dai singoli
strumentisti, e infatti lo è stata, soprattutto dal flautista Luciano
Carotenuto. Anche in Trieb le note esplicative sono indispensabili per
capire cosa esattamente abbia voluto il compositore: "il suono che si deve
ottenere è un impulso incontrollato generato da movimenti addominali. E' il
corpo che deve suonare nella maniera più rigorosa". Il tempo, gli
andamenti e le dinamiche non sono indicati, perché bisogna procedere dal
lento/piano al veloce/forte, secondo le possibilità di ogni fascia di
strumenti. Se resta fissa l'altezza dei suoni, non lo è l'ottava, perché si
presume che ogni strumento debba usare la più alta. Un certo grado di
aleatorietà viene così fissato (ogni alea, secondo Evangelisti, ha il proprio
limite nelle previsioni del compositore; per Cage ne ha un altro più serio
nelle capacità dell'esecutore) in relazione al 'respiro' di ogni interprete, nel
duplice senso di respiro 'agogico' e respiro 'fisico'. Un trait d'union è
affidato all'ottavino, che ripete la parte quando gli altri strumenti passano
al secondo paginone, il cui incipit vede un gran glissato di tutta l'orchestra
che parte dal sol periodico della sequenza e conduce al suono più alto
possibile di ciascuno strumento (il glissato sarà evidentemente breve, visto
che ognuno è già alla sua ottava più acuta), e in tutta evidenza quel che si
vuole raggiungere è un effetto 'urlato', cioè dinamico, visto che la 'scena'
successiva (lo spartito è organizzato come una delle partiture visive di
Bussotti o di Lombardi) prevede un diminuendo progressivo che conduce allo
svanimento (ritengo soffio per i fiati e fruscio d'archetto per gli archi). L'ultimo quadro, rappresentato graficamente
come una sorta di 'aquilone', è interessante per la 'coda', visto che gli
strumenti giocano con glissati d'armonici (flauti e ottoni), armonici medi e
naturali, e infine un sax tenore che chiude tenendo la sua nota più bassa in
modo solo parzialmente intonato (oscillando leggermente sopra e sotto un
suono).
Non ho
Dissolvenze
Dissolvenze , scritto tra l' '87 e l' '88, chiude
il cerchio: si tratta di un pezzo aforistico, esistente in due versioni che differiscono
per dilatazioni successive. La prima, pianistica, consta di diciannove battute
con valori larghi, che si lasciano risuonare a lungo, anche oltre la durata dei
quattro movimenti, in pianissimo. Si tratta di accordi il cui legame è armonico
soltanto per il senso di vibrazione che si instaura tra le parti. I movimenti
di quest'ultime sono perlopiù 'proibiti' secondo i canoni limitativi
dell'accademia, tanto che 'risolvono' a modo loro, frantumando le abitudini
consolidate (in definitiva il titolo Dissolvenze
mi fa pensare proprio a "risolvenze" improprie). Ma la dilatazione
del tempo, il prolungamento dei suoni attraverso il pedale, l'evanescenza del
pianissimo, l'uso prevalente di registri medio-alti, fanno sì che non si
verifichi uno spiazzamento che risulta sgradevole al consumo. Nel suonare
questo brano ho potuto verificare, inoltre, che l'uso di una diteggiatura non
convenzionale (tale da consentire una posizione della mano che nell'attacco
indirizzi il peso verso certi suoni dell'accordo) apre all'ascolto linee
trasversali di significato. La versione pianistica, inoltre, presenta due
piccoli incisi melodici, cromatismi lati, che nella zona centrale della pagina
offrono un barlume di memoria formale; una specificazione ritmica, purché
l'esecutore ricordi di considerare l'ampiezza del tempo virtuale che sta alla
base del pezzo, segue immediatamente, richiamando il procedimento logico della
progressione.
Nella versione
per archi i suoni vengono ulteriormente spaziati, tanto che le battute diventano
ventidue; il valore degli incisi procede per 'aumentazione', sparisce anche
l'individuazione ritmica immediatamente seguente. Tutte le durate si
appiattiscono, linee di senso finiscono sommerse, lasciando al direttore la
possibilità di rintracciarne e recuperarne traccia. Ma se un singolo esecutore
può recuperare ed amplificare empaticamente suoni/chiave, tutta l'orchestra
andrebbe forse indirizzata prevedendo e segnando i piani sonori desiderati (con
'ossia', o molteplici varianti...).
Dissolvenze
rende ancor più essenziale il gesto compositivo di Gabriele; ne condensa
lo sforzo attraverso una realizzazione "minima" (come riferisce lo
stesso autore).
Al silenzio
alcuni compositori sono giunti attraverso l'uso di pause, la fugace apparizione
di suoni sottilissimi. Montagano è consapevole della necessità di tagliare,
rendere agile ed essenziale la comunicazione, ma sceglie la strada intensa del
suono lungo.
Come se
chiudendo una porta nessuno potesse mai dimenticare che nell'altra stanza c'è
un intero universo di suoni e colori.
Quel terribile cappuccetto rosso
Di Giusto
Pappacena, l'altro compositore vicino al Gruppo Ricerca e Sperimentazione, devo
segnalare in primo luogo la straordinaria capacità improvvisativa. Seduto davanti
alla tastiera del pianoforte, Giusto era capace di modulare per ore, cambiando
continuamente genere senza interrompere
Ad un certo
punto Giusto cominciò dapprima ad occuparsi in modo serrato della sua preparazione scolastica, e
poi della carriera accademica. Il dono d'attingere a istantanee sublimità venne
pian piano messo da parte, forse perché, letteralmente, troppo "a portata
di mani" (nel senso che poco doveva essere lo scarto tra pensiero e gesto
musicale). La sua maggiore attenzione, oggi che insegna in conservatorio, è
rivolta agli impegni didattici, ed agli strumenti originali e raffinati che
predispone per i suoi allievi.
Pappacena,
dottore in filosofia dal '78, è allievo, come Fels, di Aladino Di Martino, con
il quale fa in tempo a conseguire il compimento inferiore di composizione. Il
dato non è casuale, perché specialmente nei primi lavori è presente una vena
melodica abbastanza ironica, simile a quella del maestro. Con
In generale
devo considerare che se questo straordinario musicista/strumentista tornasse
alla sua antica vocazione potrebbe stracciare parecchi autori di musica da film
(che a parer mio, lo ripeto, ha medesima
se non maggior dignità di quella d'altro tipo), e fare cose non lontane da
quelle dello Jarrett performer solista. Il paragone mi viene anche meglio dopo
aver ascoltato la produzione, per così dire, 'colta' del famoso jazzista: anche
lì il senso della forma soffoca l'ispirazione melodica; eppure nelle
improvvisazioni restano notevoli le acquisizioni sperimentali, le sognanti
melodie, impossibili da riprodurre su carta o da suonarsi identiche, come
ammette lo stesso autore[36].
Le interviste: un quadro desolante
Tra l' '82 e
l' '84, oltre a dedicarmi all' attività solistica e compositiva[37], mi muovo come giornalista per sentire le
ragioni di operatori e compositori napoletani. Parto naturalmente dall'ondata
di interesse suscitata da "Avanguardia e ricerca musicale" e sento
tra i primi Carmelo Columbro, che mi conferma la difficoltà a lavorare nella
città (è il giugno dell' '82). "Per essere compositore a Napoli devi
pensare di non essere a Napoli: la città non ti stimola, le strutture mancano,
gli enti sono tardivi e, spesso, completamente immobili. Fare musica è quasi
impossibile: esistono soltanto delle élites, al di fuori delle quali il nulla,
l'affossamento totale di certi processi culturali". Per questa ragione
Carmelo afferma di lavorare senza pensare al pubblico, ma solo per la voglia di
farlo. "Parto da 'ombre' che vado man mano a definire attraverso momenti
quasi artigianali di costruzione ed elaborazione. Il 'fare espressivo' aumenta
col definirsi di queste ombre. Il momento creativo si esaurisce quando la
composizione è terminata".
Nello stesso
periodo, pubblico le interviste e le analisi di brani di Fels e Cilio. Nel
febbraio dell' '84 ascolto un didatta locale, Carmine Pagliuca, e gli chiedo
provocatoriamente quale sia la situazione del conservatorio di Napoli; questa
la risposta: "Napoli, pur avendo la scuola più celebre, a livello mondiale,
ha oggi numerose carenze: non abbiamo nemmeno il corso di musica elettronica.
Esiste una maggiore arretratezza, il conservatorio viene considerato
provinciale, perché inquadrato in una realtà cittadina purtroppo decadente e
avvilente (...). Comunque abbiamo tuttora delle forze vive, per porci
all'avanguardia del movimento musicale internazionale: in quanto a tecniche,
fantasia e modernità di linguaggio i nostri compositori sono sempre fra i
primi, anche se, purtroppo, la mancanza di strumenti idonei li costringe a non
aggiornarsi sufficientemente. Vi è la latitanza più completa dello
Stato".
Dopo pochi
giorni incontro
Tuttavia Di
Lorenzo, di tanto in tanto, riuscì ad essere eseguito dall'orchestra Rai e ad
utilizzare quelle esecuzioni per incisioni discografiche. Extra ecclesiam nulla salus.
La difficoltà di essere musicisti a Napoli
Per Renato
Piemontese (l'intervista è del marzo '84), "Napoli è una strana città: se
può sembrare l'eterna addormentata all'ombra degli eventi, opera poi
costantemente in una fitta rete di cultura che sovente esplode o primeggia
nelle occasioni offertele. Una gran quantità di talenti produce arte come il
pane quotidiano, ma è costretta a usufruire
di circuiti extralocali o, se vuole operare in loco, di quei rari spazi
consentitigli dalle strutture esistenti. Il guaio è che questi spazi sono
creati non certo per sete di conoscenza o per interesse diretto, ma perché 'la
serata contemporanea dà lustro' ". Con grande lucidità, Piemontese
aggiunge che "Napoli non offre alcuno spazio alla musica contemporanea, se
non sporadiche occasioni pressoché riservate a quei nomi che fanno parte dei
circuiti nazionali di arte contemporanea. Tutti dovremmo raggiungere la
consapevolezza che l'avanguardia non è più dei vari Sciarrino, ma di coloro che
giorno per giorno continuano la ricerca e la sperimentano nell'atto della creazione".
Il problema è
che sono passati oltre dieci anni da quella intervista, e l'unico omaggio
a un vivente che si pensa di organizzare
nei dintorni della città è proprio dedicato a Sciarrino, un compositore che,
con tutto il rispetto, appare lontano anni luce da tutto quanto sta accadendo
nel panorama delle musiche vive[38].
Piemontese
descrive con precisione e minuziosità il suo procedimento creativo:
"Partendo dalla ricerca di definizione immaginale, attraverso processi di
articolazione, ti trovi a modificare e spesso a moltiplicare le immagini
stesse, ti trovi in mondi diversi da quelli iniziali, ad analizzare sfere
emotive scaturite dalle tue elaborazioni, dalle tue immagini. Rispetto ai mezzi
espressivi, non disdegno di usare, se necessario, forme di linguaggio anche
tradizionali. Un compositore di oggi ha a sua disposizione una enorme quantità
di materiale timbrico, armonico e gestuale, anche perché coadiuvato da mezzi
tecnici impensabili fino a pochi anni fa. Con questo intendo dire che non
soltanto perché si è usato il rumore di un vetro rotto si debba negare l'utilizzazione
dei semplici accordi perfetti maggiori e minori".
Il suono e la parola
Nel marzo
dell' '84, stimolato dalle inchieste condotte, e per muovere qualcosa in acque
altrimenti stagnanti, promuovo e curo nelle sale della libreria dehoniana di
Via Depretis un convegno dal titolo "Il Suono e la parola", in tre
pomeriggi di "annotazioni e ascolto sulla/della Nuova Musica". Il 23
marzo leggo gli "Spunti per una estetica improbabile", già pubblicati
dal quotidiano Napolinotte, e faccio ascoltare su nastro le musiche di Cilio,
Fels, Montagano e mie. E' previsto un intervento di Enrico Renna, di cui Ciro
Scarponi aveva eseguito Tief durante
gli "Incontri nazionali della Nuova Musica". Sia io che Fels abbiamo
appena detto la nostra, soprattutto mostrando l'apertura a musiche di
provenienza differente da quella 'colta'. Renna reagisce duramente, prendendo
in giro alcuni gruppi rock e cercando lo scontro frontale anche sul problema
della formazione (servono le scuole di composizione? in che rapporto sono
genialità e autodidattica?). Eugenio non sopporta la provocazione, s'alza e va
via.
Al secondo
incontro, proprio sul tema della creatività,
benché fosse prevista la presenza di Columbro, Piemontese, e
naturalmente la nostra, ci si ritrova in pochi: evidentemente non a tutti le
sorti della musica contemporanea sono care come era parso nelle interviste.
Conclude il ciclo l'unica commemorazione a Salvatore di Giacomo, il 5 aprile,
con un "Omaggio" di Franco De Lorenzo che ne ha musicato e pubblicato
su ellepì una lirica[39].
Posso dire
retrospettivamente che il convegno ha avuto una duplice funzione. I contenuti,
innanzitutto: materiali sommersi son venuti alla luce, riacquistati all'ascolto
benché soltanto da nastri. Ma anche tesi a confronto: l'irriducibilità tra l'avanguardia 'colta', 'sperimentale', e
quella vera, che avrebbe preso il sopravvento: quella che incontra di nuovo il
pubblico perché utilizza la contaminazione, un linguaggio accessibile ed
espressivo (non necessariamente semplice), che rompe con l'estetica oppressiva
e snob della seconda scuola di Vienna. Simbolicamente, le due posizioni s'erano
scontrate, e quasi schiaffeggiate, per usare una metafora 'postuma' suggerita
da Fels.
Nemmeno mi
pare casuale l'assenza di alcuni, e l'egotismo di altri (i tg segnalarono
soltanto la terza conferenza...): mentre in altre città, per esempio Roma o
Firenze, i compositori riuscivano a federarsi e a trovare nuove opportunità
d'esecuzione, a Napoli, scomparso Cilio (avrebbe potuto essere l'Amelio della
musica), non si reperiva una figura capace di aggregare e amplificare le
diverse solitudini.
Se non c'era
l'emergenza di un contropotere (né io né Montagano riuscimmo a costruirne uno
sufficientemente forte), mancò pure un interlocutore istituzionale che potesse
per autorità o competenza costituirsi come referente.
Andiamo a verificare...
In effetti, se
si tenta una ricognizione delle possibilità concrete offerte dalla istituzioni
cittadine in quegli anni, guardando anche ai loro direttori, si vedrà che
queste si potevano quasi contare sulla punta delle dita e che quelli
s'infischiavano della valorizzazione delle nostre risorse. Ed è quasi superfluo
precisare che non si sta parlando genericamente della musica che altri
portavano qui, ma delle occasioni che gli artisti partenopei avevano per dare
visibilità al loro lavoro.
Tutto questo
va dimostrato, per evitare che si parli della solita lamentazione o del
consueto piagnisteo meridionale. Qui deve essere visibile che la compressione
di certi percorsi fu questione di scelte relative a precise politiche
culturali. Le nostre terre di frontiera furono prese per terre oleografiche, e
rese disponibili alla conquista. Capire questo, e dirlo a tutte lettere,
potrebbe servire ad evitare errori futuri, e il messaggio mi pare sufficientemente
chiaro. Devo anche legittimare l'indignazione con documenti, date, citazioni,
che sono qui solo esemplari (né potrebbe essere diversamente: il panlogismo è
una pretesa eccessiva). E pazienza per l'appesantimento del testo.
I nomi che già
sporadicamente passano al San Carlo sono quelli di Satie, Hindemith, Berg,
Webern. Il nostro teatro viene appena sfiorato da opere di Henze, Tosatti,
Barber, Mannino. Nell' '86 si commemora il quindicesimo anniversario della
morte di Antonio Cece (Passacaglia).
Nel '93 ci sono Cece e Morricone. Poche e sporadiche le altre presenze. La
musica contemporanea ha invece una via d'accesso facilitata per quanto riguarda
i balletti. A parte una fantasmatica commissione che già Cilio dovette
ricevere, il Caledoscopio di
Cece, Lucia! di Sergio Rendine, e poche altre cose, ho notizia di un
ottimo successo riportato da Nino Panariello con Immago.
Alla Rai,
quando ancora la sede era attiva con una programmazione indipendente e con
l'orchestra, l'apparente gran movimento sotto la direzione artistica di Mario
Bortolotto, soprattutto grazie al Festival d'autunno consacrato alla musica
contemporanea, si riduceva alla passarella dei soliti nomi dell'avanguardia
nazionale che ci gratificavano con le loro opere sperimentali. Nell' '84, ad esempio, veniva eseguito l'Arioso mobile di Francesco Pennisi (e
nello stesso concerto opere stagionate di Ghedini e Bossi). Bortolotto riteneva
molto importante dare spazio ad un concerto monografico dedicato alla
"Scuola di Donatoni" col milanese Ruggero Laganà (Concerto per arpa e orchestra), Alessandro Solbiati, classe 1956, di Busto
Arsizio (...Più sopra le stelle...,
per soprano e orchestra), Pippo Molino,
sempre milanese (Il canto ritrovato,
per orchestra da camera), col romano Matteo D'Amico (Ariel, per orchestra) e naturalmente Franco Donatoni (Orts per 14 strumenti). Una certa compensazione la troverei nella
scelta di Enrico Renna come direttore, se non sapessi che quel concerto dette
origine ad una serie di problemi e recriminazioni. Nel 1985, Bortolotto
programmava Bettinelli (Omaggio a
Strawinsky e Concerto per violino e
orchestra), Pennisi (Due canzoni
natalizie etnee), Short (Slow Drag
and Gallop; Scott Joplin and Friends,
per quintetto d'ottoni e orchestra), riteneva importante commemorare i dieci
anni dalla morte di Dallapiccola (e passi), ma anche il sessantesimo compleanno
di Aldo Clementi (O du Heilige) con
musiche di Gentile (Criptografia),
Togni (Lyrusches Intermezzo), ancora
Pennisi (L'arrivo dell'Unicorno, giusto
per una postilla "per Aldo"), Arcà (A Splendid Tear), Mann e Sciarrino (Due canzoni del XX Secolo). Ospitava il Terzo concerto per pianoforte e orchestra op.25 di Mosca (uno dei
pochi brani memorabili), ed il "veneziano" concerto per pianoforte,
clavicembalo e orchestra di Ambrosini. Sempre nell' '85 c'erano due prime
assolute di Claudio Cojaniz (Memories 1 e
3), con la direzione di Dennis Stanko e di Sandro Gorli[40]. Nel 1987
(ancora una festa di compleanno!), per il 60° anno di Hans Werner Henze si eseguono
la Sinfonia
n. 1, per orchestra da camera; la Fantasia
per archi e leFunf neapolitanische
Lieder (e cioè "Canzoni 'e copp' 'o tammurro") per mezzosoprano e
orchestra.
In realtà, il
vero pensiero di Bortolotto sulla musica napoletana era contenuto in una
epigrafe consegnata al già citato disco di Franco Di Lorenzo. Tra altre
amenità, riteneva che il lavoro di Di Lorenzo non si potesse "ricondurre
ad una matrice napoletana, vera o immaginaria che sia"; e adduceva le
seguenti motivazioni "storiche": "si sa come, dopo la grande età
dei Borboni, fino al direttorio e al regno di Murat, non si possa più parlare,
per la composizione, di una vera e propria scuola di Napoli: lo stesso
insegnamento di Zingarelli (mi permetto
di far notare che sta parlando di
Come ci si
poteva illudere che questa linea critica concedesse spazi alla nostra musica?
Tutto cambia, nulla cambia
Con l'avvento
di Fargnoli alla direzione artistica della Rai, c'è l'apparenza di qualche concessione
in più ai compositori locali. Nell'Autunno Musicale dell' '88 viene programmata
Le altre istituzioni,
la cattedra universitaria di Storia della Musica e il Conservatorio statale,
hanno avuto un ruolo trascurabile per la promozione di musica contemporanea. La
prima pare quasi specializzata in musica medievale (non è una battuta: Ziino è
un esperto di quel settore), e il secondo, oltre ad ospitare periodicamente un
concerto di qualche gruppuscolo, mi
pare, fino ad oggi (si è appena insediato
Le ragioni del silenzio
A questo punto
le ragioni che mi spingono a qualificare la nostra come un'avanguardia 'altra'
dovrebbero essere evidenti. Avevamo contemporaneamente qualcosa in più e
qualcosa in meno rispetto a città come Roma o Firenze.
I politici che
ci rappresentavano venivano eletti per ragioni di opportunità. Le
Piedigrotte erano sempre servite a
consolidare i tarallucci, di cui ci restava naturalmente soltanto il buco
(altro che brioches!). E' naturale che si facesse di tutto affinché le cose
rimanessero come erano. Non si poteva mica consentire a qualcuno di ripensare
la cultura, di anticipare i percorsi dell'arte, di riformulare quelli della
musica. L'omertà è calata anche attraverso i giornali; quando s'è soltanto
svilito e sminuito quello che qui si produceva bisognava ritenersi fortunati.
L'acquisizione estetica del silenzio è stata quantomeno 'indotta', per dir
così, attraverso quella mancanza di parole.
L'omertà
produceva altri effetti indesiderati: eravamo incapaci di federarci; il
sospetto, l'opportunismo, il menefreghismo e il tira a campà tutto partenopeo, appartenevano alla sfera delle
scelte, o erano anch'essi 'indotti'?
Così, ognuno
fece per sé; qualcuno riuscì, come
Questo
individualismo esasperato non ci impedì di anticipare talvolta i percorsi
estetici nazionali, e in qualche caso internazionali, un po' come era avvenuto
al trenino della "Vesuviana". Non ho bisogno di fornirne prove
ulteriori: il solo caso di Cilio è sintomatico, e taccio, per pudore, dei
viventi.
Ma occorre
tener presente che con la velocità ipermediale l'unicità del genio è andata
scomparendo; la sensibilità collettiva appartiene ad una coscienza globale
sempre più sviluppata. Insomma, ci si muove in tanti verso la medesima meta.
Una cosa accade quando la vediamo in
rete; non possiamo nulla contro
questa illusione, se non almeno mantenerci consapevoli degli effettivi mille
piani quando ricostruiamo o raccontiamo i fatti.
Magari
conservando quella personale conoscenza, la quale infine supera la prospettiva,
e si tramuta, col tempo, in silenziosa e
saggia capienza.
L'armonia e l'invenzione
Molte monadi,
dunque, si formano pian piano. Associazioni come "L'Armonia e
l'invenzione", "Liszt", "Aliseo", gruppi come "AC.EL.", "Virus",
"Colin Muset": tutti esempi che documentano la vita musicale
dell'ultimo decennio. Realtà non prive di valore, di intuizioni importanti.
Forse uniche occasioni per veicolarsi.
L'attività de
"L'Armonia e l'invenzione" sembrò inizialmente incoraggiata più da
"Paese Sera" che dal "Mattino". Ma anche il maggior
quotidiano locale dette spazio a quei concerti/analisi, come ad esempio alla
performance di Shivkumar Sharma. Naturalmente ciò avveniva entro i limiti e le
possibilità che già abbiamo attribuito ai critici di quel giornale. Il merito
generalmente riconosciuto all'associazione (che organizzò incontri di rilievo
con Berio, Nono, Schiaffini, etc.) è attribuito al tentativo di 'formare' il pubblico napoletano, che però
a me pare un tentativo che palesa una vecchia malattia degli operatori, forse
inoculata dalla formazione neoadorniana. Infatti mi pare chiaro che il vero
problema per i botteghini fosse più nella qualità dei compositori che
riuscivano ad arrivare ai teatri che nei limiti di fruibilità degli
ascoltatori: i curriculum e le cassette demo venivano accolte all'estero e
rifiutate a Napoli.
Un colloquio di informatica musicale
Il gruppo
AC.EL. (e cioè il gruppo di Elettroacustica del Dipartimento di Scienze Fisiche
dell'Università di Napoli), invece,
svolse prevalentemente attività di ricerca fin dalla fondazione nel '76 ad opera di Giuseppe Di
Giugno e Antonio De Santis. Coinvolse soprattutto scienziati interessati al
discorso musicale, più che musicisti veri e propri: ma questa è un po' la pecca
di tutta la musica elettronica (solo
in parte, e con evidente minor capienza di mezzi, l'insorgenza della computer
music consentirà anche a compositori non specialisti di ampliare certe facoltà
grazie all'uso delle macchine, sempre nell'ambito di possibilità previste da
software già predisposti). Una storia essenziale del gruppo è stata formulata
da Giancarlo Sica, sensibile e disponibile compositore, in un saggio ospitato
da KOnSEQUENZ
(n. 2/94). Tuttavia mi pare importante ripetere qui, almeno, i nomi di Sergio
Cavaliere, Aldo Piccialli e Imma Ortosecco (1980). Nell' '81/'82, Cavaliere e
Sossio Vergara realizzano un elaboratore in tempo reale per la sintesi del
suono (TROLL). Con Lorenzo Papadia, Cavaliere studia, inoltre, un sistema che
consenta l'interazione automatica tra musica e movimento, poi presentato al
Festival dei Due Mondi di Spoleto. Il sistema PSO-TROLL, che approderà a
Parigi, sarà invece opera di Piccialli, Cavaliere ed Evangelista.
Ma l'esito più
importante dell' AC.EL. per la città, visto il numero di prime esecuzioni che
vi si realizzarono, fu il "VI colloquio di Informatica Musicale",
tenuto a Villa Pignatelli nell'ottobre del 1985. Oltre all'esecuzione di tre
lavori di Giancarlo Sica (Cantata (ex
machina) per soprano e computer; Arcana;
Timesteps) non mancarono prime assolute di Sergio Cappucci (Traslazione e...), Enrico Cocco (Istinti verso...), Michelangelo Lupone (Mira);
brani di Fausto Razzi ed altri.
Il lavoro di Giancarlo Sica
Pur svolgendo
un'intensa attività di ricerca nell'ambito del gruppo AC.EL., Sica non rinuncia
per questo all'attività compositiva. Le sue opere strumentali Sonata per pianoforte e marimba, e Quartetto d'archi, adottano un sistema
compositivo che rimanda implicitamente alle permutazioni matematiche utilizzate
anche nella produzione elettronica. Lo stratagemma tecnico consiste
nell'individuazione di piccole sequenze ripetute attraverso un loop, un circolo
virtuoso/vizioso di reiterazioni, pur sempre modificabili, sulle quali si
inscena la variazione tematica o l'invenzione ritmica di una parte superiore.
Mi pare, in particolare, di poter connettere le due composizioni già citate
almeno alla Cantata (ex machina) e a Kane
no Koe. Un discorso a parte merita
invece Ancestralia, per pianoforte,
alla quale abbinerei Il cerchio del Tonal,
ambiziosa e bellissima suite per voci ed orchestra ispirata alle opere di Castaneda
ed eseguita in prima a Napoli nel 1991[45]. Si tratta di
opere legate a linguaggi più semplici, tonali o atonali, che restano pur sempre
espressive e raffinate. Anche la Fantasia
per flauto e orchestra da camera (ma ne esiste anche una versione per flauto
e quintetto d'archi) può riconnettersi a questa seconda anima di Giancarlo,
visto che alcune cellule rimandano alla medesima propensione india. Qui la
tensione resta legata più al percorso
iniziatico/musicale che a un "in sé" dedito alla ricerca di suoni e
formulazioni inedite. L'anima elettronica di Sica non si esime dall'uso di
seduttive voci femminili, le quali muovono melodie atonali e voluttuose, al di
sopra di un sostrato elettronico denso e inaccaduto, per indisponibilità delle
sue particelle ad un riconoscimento strutturale. Ad esempio, la Cantata utilizza un testo liberamente
estrapolato dalla lirica Laughing Gas
di Allen Ginsberg ("un'occhiata/dalla quale l'intero/processo svolge
questo/universo.../lo disfà nel suo esatto/contrario finché si ritorna da/fino
al Nulla/nel quale a caso/una nota venne in origine/sfiorata (...) e
l'intera/struttura si svolge/inevitabilmente e/torna a riavvolgersi/nel
Nulla..."), gestisce la voce umana come nona super partes (le altre otto
sono affidate al computer, che conduce il movimento di un cluster suddiviso in
due sezioni in modo da ottenere spettri leggermente disarmonici). Anche Kane no Koe ("Il suono della
campana") utilizza la voce femminile che recita un testo giapponese
("Gli orgogliosi sono effimeri, simili solo al sogno di una notte di
primavera; e i forti, anch'essi, saranno alla fine travolti, a nient'altro
simili che a polvere dinanzi al vento"). Invece, un lavoro decisamente
all'avanguardia, e quindi all'estremo 'elettronico' di Giancarlo Sica, mi pare Particles che utilizza il linguaggio per
macchine virtuali Csound, del quale Giancarlo ha fornito un'esemplare
trattazione nel n. 1/95 di KOnSEQUENZ.
L'autore così la definisce: "la composizione è nata dall'idea di 'fasci di
particelle' musicali (i grani della sintesi granulare asincrona) propagantisi
ovunque, che di volta in volta si aggregano a formare strutture sonore dotate
di confini ben definiti o nebulosi, e con distribuzioni spaziali dinamiche nel
tempo".
Pur
riconoscendo l'elevato specialismo elettronico di Particles , confesso di preferire la produzione intermedia, quella
che mescola l'umano e l'elettronico, anche perché lì il linguaggio mi pare più
riconoscibile.
A meno che
anche quello della riconoscibilità non diventi un luogo comune, e non si
verifichi davvero la scomparsa della figura dell' autore. Finora, all'alba del
terzo millennio, non è che un'ipotesi giocosa, a metà strada tra fantapolitica
ed estetica, ma la diffusione di tecniche sofisticatissime ne sta accelerando
la realizzazione.
Nasce
Nel febbraio
dell' '85, per iniziativa di Fels e mia, nasce l'"Associazione Musicale
Ferenc Liszt": la nostra monade. Il primo atto è esecutivo e strumentale,
ci qualifica immediatamente come pianisti-compositori: nelle sale adiacenti al
chiostro maiolicato di Santa Chiara, si tengono due long concert solistici.
Eugenio suona
nella prima parte uno dei suoi mitici Bach-Fels (ovvero una
trascrizione/reinvenzione da Bach), e tre pezzi forti di Mozart, Franck e Liszt. Nella seconda
parte tre composizioni di Dino Messina: Réverie
d'été (1983), Sortilèges d'une courte
èvasion (1985) e Improptus (1982),
Scoppia un Virus
Parallelamente
all'attività della Liszt si attesta anche quella di un gruppo di pittori in
grado di portare aria nuova anche alla musica, con performances e happenings
che coinvolgono strumentisti e compositori, cittadini e non. Il progetto di
Giancarlo Savino, Carla Viparelli e Dino Izzo è a tutto raggio, e può condensarsi
nella frase "l'arte è un modo". La matrice del virus-pensiero può
essere studiata leggendo il Progetto per
un nuovo almanacco (il riferimento è a Kandiski) rilasciato dai tre artisti
il 30 novembre 1987. Sia Adorno che Arnheim col suo l'Entropia e l'arte influenzano l'estetica del gruppo, e tuttavia il
Virus si muove e promuove verso/con sviluppi inediti e realizzazioni estetiche
originali. "Il superamento che l'artista può esprimere nel suo lavoro è il
superamento di se stesso: l'avanguardia è un'officina interiore": il
gruppo aprirà il suo atelier ad altri artisti, a visitatori e curiosi. Ampi
stanzoni con sorprese sempre nuove: lì qualcuno
dorme e mangia, eppure produce
(alla faccia di Adorno!). La sensazione del movimento estetico svolto
attorno e dentro quella casa/museo colpisce tutti, e sempre più gente affolla
le serate programmate dal gruppo. Ad ogni "Evento", una sorta di
memorandum: un ciclostilato con frasi, dichiarazioni, disegni. Un genio
trasversale, la cui vita è arte, accompagna il lavoro di Virus: si tratta di
Isacco, sempre presente nel museo, come un custode d'oggetti svaniti (da un
quadernino: "Confusa armonia delle forme, nubi son parole che un sogno
scrive"). In uno dei memorandum ci sono scritti di Oreste Bilotti,
fantasie vulcaniche di Carla Viparelli
(usa materiali raccolti pazientemente sul vulcano, e sul vicino Monte Somma,
poi mescolati, mescolati...), poesie di Marco Manchisi, affabulazioni di Izzo e
Savino. Su di loro andrebbe scritto un libro apposito, ma qui si può segnalare
almeno
Le ribollenti Temperature Flegree
Vittorio
Palumbo[49] fonda l'Associazione Aliseo e dall' '85 som/muove
i territori flegrei attivando un fantastico contenitore di musica, pittura,
danza, editoria. L'inizio, nell' '85, alle terme di Baia, non sarà privo di
deflagrazioni, visto che l'idea straordinaria di accostare arti visive (decine
di mostre dislocate lungo un percorso), musica 'classica' (ma con il
trasgressivo concerto di Fels, che programma opere di Corea, Wakeman, Brubeck,
etc.) e musica rock viene rovinata da slittamenti che dividono i desiderata dei
rispettivi pubblici (ecco il punto debole: il pubblico è unico). Ma, aldilà
della mia defezione (avrei dovuto intervenire in due concerti), la rassegna
decollerà benissimo soprattuto per la presenza dei Panoramics, dei Walhalla,
dei Little Italy e dei Bisca. Sempre alle Terme, si terrà l'edizione dell' '87,
dedicata alla danza. Parteciperanno Movimento Danza, Every Day Company (al
pianoforte c'è Antonello Salis), Koros, e Teatrodanza Contemporanea. La
rassegna dell' '
Il Colin Muset
Una sintonia
molto particolare con quello che accade nel resto del mondo conosciuto, cosa
piuttosto infrequente nella città in cui viviamo, è stata dimostrata dal
"Colin Muset", una formazione capace di gareggiare, per inventiva,
con quelle che oggi riescono a sbancare nei festival e nei negozi di dischi.
Altrove, infatti, anche gli imprenditori ed i produttori hanno capito che si
stava affievolendo l'auctoritas legata alla tradizionale immagine del
"compositore di musica", e che anche i brani di repertorio, ancorché
il giro d'affari crescesse, risultavano
alquanto difficili da piazzare sul mercato discografico per l'enorme costo
delle produzioni. Così, va da sé che
diventava economicamente molto conveniente promuovere gli esperimenti creativi,
inizialmente soprattutto trascrizioni, poi subito reinvenzioni e creazioni
originali, di piccoli ensemble da camera dall'organico raro o ricercato.
Qualche esempio? il "Marimolin" con Sharan Leventhal al violino e
Nancy Zeltsman alla marimba; gli "Icebreaker" (spaccaghiaccio), fondati
da James Poke e John Godfrey nell' '89, una decina di strumentisti che usano
anche tastiere, basso e chitarra elettrica, percussioni; il brass quintet
"Meridian Arts Ensemble"; Brett Dean e Simon Hunt
("FrameCutFrame"); il "New Century Saxophone Quartet" con
Stephenson, Boatman, Pollock, Hubbard; e l'italiano "New Art
Ensemble", che però al posto di Canino avrebbe bisogno di un pianista alla
Moritz Eggert. Non ho volutamente citato ensemble più famosi, come quelli
legati ai compositori Bryars, Glass, Adams, Nyman, o i quartetti rivoluzionari
Kronos e Balanescu, e gli straordinari Madredeus. Il "Colin Muset" è
in grado di gareggiare e vincere con più di uno di questi gruppi, eppure,
benché anch'io non mi esima dal citarne le gesta ad esempio su una rivista
specialistica della portata di CDclassica, è entrato in crisi dopo aver
registrato un disco rimasto sullo scaffale dei crediti che la musica napoletana
vanta verso la politica culturale cittadina[50]. I cinque
strumentisti eccezionali sono (all'origine, ma le collaborazioni si moltiplicherranno
nel tempo) Antonello Paliotti (chitarra, mandola e mandolino), Maurizio
Chiantone (contrabasso) Nicolò Casu (tromba, flicorno sopr.), Luciano Russo
(clarinetto, sax ten.) e Roberto Natullo (flauto e ottavino). Si tratta di
musicisti di estrazione classica, ma con differenti percorsi
artistico-culturali. Il loro progetto è sintetizzato nella ricerca di un suono
particolare, 'nuovo' grazie all'originalità dell'organico, e nella scelta di un
repertorio che è come minimo trascritto e adattato alle esigenze della
compagine. Loro si sentono un po' vicini alle esperienze del Novecento ( opere
jazz o da music-hall, autori dell'altro Novecento: Weill, Stravinskij,
Piazzolla, Gismonti, etc.) e un po' orchestrina da Café Chantant o Cabaret
berlinese anni '20. Si occupano anche dei contemporanei, soprattutto quando si
tratta di utilizzare brani scritti per organico indeterminato. Ma quello che mi
piace di più dei loro 'intenti programmatici' è la seguente frase: "Infine
la musica contemporanea: impossibile la trascrizione di opere scritte nel
dopoguerra, non solo perché esse risultano legate alla tecnica degli strumenti
per cui sono state pensate, ma anche perché contengono già in nuce tutto il
significato strumentale; ciò che rende non trascrivibile
Bob Ashley, Peter Gordon...
Gabriele
Montagano non si dà per vinto, e tra il 1986 e il 1988, si sbatte parecchio per
inventarsi un ruolo d'artista manager che gli consenta di programmare e
realizzare eventi d'elevato valore estetico. Invece di tentare la via delle
associazioni, che abbiamo visto in fondo restare monadi (magari effervescenti,
ma monadi), intraprende quella dell'impresa. La sua abilità manageriale la
spunta in diverse occasioni, ma più spesso capitola di fronte all'incapacità di
realizzare idee che si spingono troppo avanti. L'accensione di piazze e strade,
la possibilità di far cantare, per davvero, tutta la città; la proliferazione
non convenzionale di materiali anche effimeri (altro che resistenti), di
istallazioni evanescenti, si scontra con la coriacea diffidenza partenopea, con
quel modo di pensarsi e sentirsi fieramente isolati. La vera ragione di
quell'identità falsata era ancora politica, e di certo legata alla capienza di
un serbatoio di voti che una gestione differente, progressista, della cultura
avrebbe potuto drasticamente ridurre.
Muovendosi tra
mille difficoltà, Gabriele organizza la mostra "Immagini di città" a
Villa Campolieto; il duplice concerto, a Santa Chiara e all'Istituto francese,
del coro Bela Bartòk diretto da Kertész; diverse mostre (tra cui l'incontro con
la fotografia di Antonio Gaeta al Museo del Sannio); è tra i promotori della
rivista "Match". Nel 1988 assume la direzione artistica dell'importantissima
"Jazzology", rassegna antologica del jazz italiano[51], e quella del
"Settembre a Napoli", riuscendo a portare in città Bob Ashley, con la
prima europea di El Aficionado, e il
newyorkese Peter Gordon. E tuttavia, conoscendo l'estrema ricchezza del progetto
originario di Montagano si ha la misura dello scarto esistente tra le sue idee
avanzate e le concrete possibilità offerte dalle istituzioni cittadine.
Vento che canta, vento che danza
Eugenio Fels,
intanto, si ritrova in una nuova felice stagione creativa. Il suo autocontrollo
è forte, e la capacità di entusiasmarsi per la musica in sé gli conservano una intensa vitalità. Scrive Aztlán (tromba, trombone e pianoforte), Ixtlán (clarinetto e pianoforte) e l' Intermezzo per chitarra, tutti nell' '88. Harzenlied (viola e pianoforte) e Atitlán (pianoforte) nell' '89; il Preludio Dorico e l' Arabesques, sempre per pianoforte, nel
'90; completa l'ultima versione, ormai definitiva, della Vent qui Chante, Vent qui Danse - Sonata nel 1992; compone il Canto Notturno (pianoforte) e le musiche
di scena, per organo e strumenti, Lustratio
ad iter Averni nel '93; la Threnodia,
per voce e strumenti, nel '94, assieme ad un monumentale lavoro di trascrizione
(ed incisione) della colonna sonora del film Fade Out. Recentissimo è l'Hommage
à Bartòk, che consta di due pezzi facili per due pianoforti, un Ostinato e una Marcia,
rispettivamente del gennaio e maggio '95.
Cominciamo
dalla Sonata, che accompagna il
percorso del pianista-compositore per lungo tempo. Il primo movimento consiste
nell'esposizione del tema, mutuato da una canzoncina francese e affidato al
registro medioalto del pianoforte. Nella (mai) celata tonalità di do minore, il
Tema esplora l'universo di poche note presente già nell'Antica Monodia tuttavia aprendosi subito a più voci, e consegnando
la melodia ad una parte interna, in modo da esigere dall'esecutore notevole
magistero di tocco. Suddiviso in due sezioni, Andante e Più veloce
(legatissimo), prende in quest'ultimo un carattere 'improvvisativo' di ricercando,
grazie al do basso in ottava sul quale si muove, non esente da cromatismi e
variazioni, la frase che contrappunta il tema. L'Adagio comincia con un mi naturale basso, e con misteriose volatine
modali che approdano ad appoggiature sostenute dall'ultimo suono legato
dell'arpeggio. La sensazione di spaesamento è garantita. Gli intervalli (per
quel che può servire dare gli intervalli in musica di atmosfera come questa)
sono di quarta eccedente/quinta; seconda eccedente/terza (forma la terza minore
di do...); quinta eccedente/sesta. Tutto questo già porta alla 'lontananza nel
tempo' di cui s'è parlato. Un
"cadenzando" prelude alla prima esplosione fortissima, e poi ad un
"lasciare vibrare": col pedale tutti i suoni eseguiti. La libertà
agogica dell'Adagio è ancora
segnalata dallo "stentato precipitando" e dal vorticoso Presto
("martellato") che sfrutta la zona più bassa della tastiera
(frammenti del tema e del controsoggetto mescolati) per ottenere un rombo
appena sfumato dal pedale: questo 'effetto', molto usato da Fels e da me,
raggiunge una sorta di clamore metallico non casuale né caotico, ma in grado di
evocare tonalità o temi lunghi attraverso tecniche particolari di
esecuzione. Gli accordi che riportano al
tempo primo rappresentano il punto cruciale, l'apertura del movimento. Non c'è
interruzione, ma un lungo pedale che introduce l'Interludio, "Lento, molto libero", con la sordina e
l'alternanza di mf e pp che crea un effetto eco. Una sorpresa: la cellula
misteriosa che viene prima esposta solitaria, poi arricchita con accordi
(decime, naturalmente) della sinistra, in tutto otto battute, diventa elemento
minimale, ma di un minimalismo che guarda alla sacra triade Glass/Reich/Riley
solo da lontano, e proprio dal vecchio continente. In questo brano (che è
quello che più avvicina le nostre produzioni) Fels va verso un minimalismo
europeo che non è cerebrale come quello di Adams, o estroverso come quello di
Nyman, sembrando piuttosto vicino alla delicatezza del Bryars di Vita Nova, come ho già avuto modo di
osservare in un articolo. In più, la vena melodica (e non si dimentichi che la Sonata produce in fondo continue
variazioni del tema), che si inserisce perfettamente nell'insieme dei
movimenti, è così pronunciata fin dall'essenza della cellula iniziale, da farci
immaginare quali potrebbero essere gli esiti di un minimalismo italiano; ma
questo accenno è quasi unico nell'intera produzione di Fels. La Fuga palesa la dimestichezza dell'autore
col trattamento della polifonia: è forse il brano più complesso ed esauriente
che ha scritto, o più semplicemente quello che io amo di più per equa
disposizione degli elementi cerebrali ed esplosioni ritmiche e dissonanti: ma
andrebbe ascoltato... Segnalo che alla fine della Fuga è prevista una cadenza improvvisata, di cui Eugenio fornisce
un possibile canovaccio. O sarebbe meglio dire che segna la sua improvvisazione: si vadano a ripescare i frammenti di
soggetti e controsoggetti presentati con
grande abilità fuori dal loro contesto ritmico, ovvero spostando gli accenti.
La sua esecuzione della pagina (mi pare importante segnalarlo) è tipicamente
jazz: usa un tocco non legato, ma accentato, senza pedale. Il Corale finale (concluso a Pozzuli
nell'ottobre del '92) ripresenta con variazioni armoniche il tema, nella tonalità
di si minore (ancora uno spaesamento, una delocalizzazione...), e propone una
figurazione di semicrome puntate, piccoli clusters e bicordi dissonanti, una
intuizione importante nel percorso compositivo perché, pur nella profonda
dissonanza, è uno stratagemma che permette di muovere le armonie
millimetricamente, generando una sorta di alone
armonico.
Resta, nella Sonata, la più importante qualità che
noi assegniamo, in tempi di accaduta postmodernità, all'opera d'arte: la
capacità del rinvio ad altro. Fels la raggiunge attraverso lo spostamento di tecniche, armoniche e
ritmiche, di tutti i tipi.
L'antica trilogia: Aztlán Ixtlán
Atitlán
Aztlán e Ixtlán , finiti di comporre rispettivamente nel giugno e nel
dicembre dell' '88, sono stati eseguiti in prima assoluta nell'edizione '92 di
Galassia Gutenberg.
In Aztlán
tromba e trombone tessono un dialogo che procede per larghi
intervalli, non certo di facile esecuzione. Entrambi gli strumenti tengono
lunghe note sull'entrata del pianoforte, che non manca di ricamare qualche
arpeggio minimale alla maniera dell'Adagio
della Sonata. Del brano mi spiace
soltanto il dialogo un po' percussivo tra il pianoforte e i due strumenti (come
segnalai a Eugenio alla prima assoluta), ma trovo interessante la presenza di
cadenze della tromba prima e del trombone poi, perché reminiscenze di
improvvisazioni. In una successiva versione, l'autore ha eliminato il dialogo
tra i due fiati, inserendo una cadenza pianistica sulla quale viene innestato,
in parti interne e ravvicinate, l'intervento di tromba e trombone.
Ixtlán comincia con
un nostalgico e misterioso tema affidato al clarinetto, non privo di asperità tecniche per la presenza di due
glissati: l'esecutore deve essere in grado di improvvisare e cadenzare con un
respiro appropriato. Il tema viene subito ripreso dal pianista, con accordi
quasi alla Rachmaninoff, fino all'esposizione ("Larghetto") di un
malinconico tema. Gli episodi si susseguono come in una improvvisazione a due,
in cui ogni tanto spunta una melodia o un'invenzione ritmica (lo staccato
improvviso del pianoforte "un po' più allegro", poi sviluppato e
ripreso anche oltre). La pagina raggiunge la maggiore rarefazione in un punto
affidato al solo pianoforte, nel Largo
: un luogo in cui la scrittura di Fels è uguale a sé stessa, riconoscibile,
struggente. Di Ixtlán devo segnalare un continuo cambio di temi
e atmosfere, che mi pare indebolire il brano, a meno di reinventarlo
esecutivamente volta per volta con
grande flessibilità agogica, del resto prevista dal compositore.
L'Intermezzo per chitarra, finito
anch'esso nel dicembre dell' '88, ancora inedito e ineseguito, conosce almeno due
rielaborazioni, e credo sia una delle migliori pagine pensate per uno strumento
differente dal pianoforte. Se in Aztlán e
Ixtlán
si sente una certa difficoltà di quadratura formale, l'Intermezzo trova una migliore disposizione tra intuizione
melodica e sviluppo.
Atitlán è un brano pianistico che ha avuto un
certo successo di esecuzioni, sia perché nel '90 è stato pubblicato in una
collana che dirigevo per un editore napoletano[52], sia per
l'oggettiva bellezza, tutta strumentale, di certi passaggi. L'epigrafe recita:
"Insieme ad Aztlán e ad Ixtlán , Atitlán forma un'ideale trilogia evocativa di remoti misteri: Aztlán era l'Olimpo degli Incas, Ixtlán un luogo di potere
degli sciamani messicani, ed Atitlán un lago vulcanico a tremila metri di
altitudine, scenario di antichi riti pagani, considerato oggi dai guatemaltechi
una delle meraviglie naturali del mondo".
La prima
sezione mostra una mano sinistra che arpeggia da posizioni impervie, sfruttando
i cromatismi in modo da far 'esplodere' l'accompagnamento; la seconda echeggia
frammenti minimali, questa volta assegnati alla destra; un terzo episodio, su
una figurazione di quartine di semicrome ripetuta, gioca con un ritmo di
tre/tre/due non mancando di utilizzare cluster sulla tastiera e sulle corde. Atitlán resta di notevole difficoltà, e tuttavia è uno
di quei brani che dà soddisfazione al pianista, perché fa bene alle dita.
Harzenlied, finito di comporre a Roma nell'aprile
dell' '89, sia per lunghezza che nella modalità del dialogo tra pianoforte e
viola è più bilanciato di Aztlán e Ixtlán
. Vi si fa un uso armonicamente ambiguo, e perciò gustoso, di bicordi di
quarte[53].
Lustratio ad iter Averni
Sbaglierò, ma
il Preludio Dorico del maggio 1990 fa
da spartiacque fra il Corale di cui
s'è già detto (1992), ed il Canto
Notturno, terminato nel '93. Dico subito che l'apice dei tre momenti è
naturalmente rappresentato dal brano più maturo: è lì che l'intuizione di
con/fondere e mescolare clusters 'armonici', per così dire, alla vena melodica
di cui Fels già aveva fatto bella mostra fino al '79, viene portata a buon
esito. Il Preludio Dorico, invece,
può essere accostato senza difficoltà allo studio del trattamento di melodie
'arcaiche' che culminerà soprattutto nella Lustratio
ad iter Averni. Nel brano pianistico
si esplorano tipi e caratteri della modalità, e questo naturalmente finisce con
attenuare la tensione cromatica, restaurando tuttavia il clima presente nella
lontana Improvvisazione (me la
ricordano anche alcune formule cadenzali).
Quella di Lustratio è una musica commissionata
dall'associazione "Progetto Flegreo"[54], per lo
spettacolo omonimo svoltosi all'interno della Grotta della Sibilla, in
occasione del "Viaggio nel Mito"[55]. Il nome
indica la purificazione lungo la strada dell'Averno, un rito realmente
esistente e recuperato dal lavoro dell'autore e regista Ugo Fanina. Piccoli
gruppi di persone, guidati dalla flebile luce di fiaccole, si inoltrano
nella galleria della Sibilla. Lungo il
percorso appaiono ninfe velate, figure magiche, che recitano solo con sguardi e
gestualità, indicando anfratti e cunicoli dispersi nel sottosuolo. La musica
accompagna il pubblico itinerante, che replica inconsapevolmente
Fade Out
Nel settembre
del '93 il regista Mario Chiari chiede ad Eugenio di occuparsi della colonna
sonora del suo film Fade Out (che
tecnicamente indica la dissolvenza). Eugenio pensa a musica trascritta da
classici, e a qualcosa di nuovo composto per l'occasione. L'idea è quella di
confrontarsi con le variazioni da Paganini. Inizia un monumentale lavoro di
trascrizione e rielaborazione[57] della Variazione n. 1, del Tema, della
seconda, dodicesima e diciottesima variazione della Rapsodia su un tema di Paganini op. 43 di Rachmaninov. A queste
verranno aggiunte alcune della Brahms-Paganini (la seconda, quarta, decima e
dodicesima) ed alcune delle Variazioni di Liszt. Per una scena cruciale, Fels
immagina una melodia affidata ad un contraltista (si tratta di Maurizio Rippa),
appena sostenuta da un bordone, poi sviluppata con variazioni strumentali.
Nasce la Threnodia, un brano di
bellezza sconvolgente, fortemente espressivo e di grande densità metatemporale.
In quel periodo, Fels sta assistendo la madre gravemente ammalata, che non
riuscirà a vedere la realizzazione di Fade
Out . Di tutti i pezzi, eseguiti nel film dal pianista compositore, esiste
una registrazione in studio, realizzata in tre differenti sedute, a Roma e a
Napoli[58]. Sarà forse
superfluo aggiungere che, ascoltando il nastro inedito, o vedendo il film, si
nota un pianista ancora eccezionale, per nulla opacizzato dall'attività
compositiva. "Dissolvenze" verrà scelto e proiettato in prima
assoluta alla Mostra del Cinema di Venezia (1994), con ottimo successo di
critica.
Alkèmia
Seguendo un
percorso che lo allontana dai concerti tradizionali, Fels continua ad usare il
pianoforte, ma in lavori che lo coinvolgono in modo nuovo e originale, Fels
riprende "Satie Opera", e poi si dedica alla scrittura di uno
spettacolo particolare, tutto fondato sull'improvvisazione. Si tratta di"Alkèmia"[59], una
performance che nasce da quella che Enrico Grieco[60], suo ideatore
assieme ad Eugenio, chiama "una idea fissa": una mescolanza tra
immagini, musica e danza nella quale nessuna disciplina prevale sull'altra, dal
momento che appaiono così capillarmente "confuse", nel senso
postmoderno del termine, da essere effettivamente, e costantemente, l'una il
prodotto dell'altra. Quando, in occasione di un mio articolo, ho chiesto ad
Enrico di parlarmene, lui ha alluso con
estrema lucidità al "potere di tre arti poste sullo stesso livello, sullo
stesso piano: non somma, non semplice raccolta, ma moltiplicazione, incremento
quasi esponenziale di tutte". Ognuno dei tre operatori (c'è anche una
danzatrice), e questo è il dato fondamentale, improvvisa interagendo con l'altro,
così come è tipico della pratica esecutiva jazz. Eugenio parla di "una
rappresentazione che tende al raggiungimento di un risultato unitario; non si
tratta di una scenografia per immagini, o di musica pensata per una
scenografia: ci si muove per appunti minimi, seguendo un percorso comune e
prestabilito. Enrico: "per godere del nuovo messaggio multimediale di
Alkèmia, ciascun gesto della ballerina, ciascun suono prodotto da Eugenio, e
ognuna delle mie diapitture proiettate su di loro, a loro adattate, vien fuso e
confuso insieme. A tal punto che il prodotto finale sembra vivere di vita
propria, proprio come una cosa che sia lì da sempre, e che è toccato a noi
riscoprire".
Ho ascoltato
la musica, specie quella del primo quadro, parzialmente annotata su canovaccio:
si tratta in assoluto della miglior cosa scritta da Eugenio. Sfrutta i suoni
della cordiera, percossa con varie tecniche, ma in modo espressivo. Il che vuol
dire conserva la capacità di parlare al pubblico riuscendo contemporaneamente
ad utilizzare le tecniche maturate durante la fase dell'avanguardia (è
l'acquisizione estetica di chi non ha mai smesso di cercare la comunicazione).
Gli esiti successivi del lavoro di Fels dovranno passare necessariamente
attraverso una testimonianza discografica.
Il "Centro di Cultura Musicale"
Non sono poi
molte le vicende che scorrono
nell'ultimo lustro. Posso cronologicamente individuarle nell'attività di
Pezzullo, nel corso napoletano di Donatoni (che mi dà modo di conoscere alcuni
suoi allievi locali), nelle rassegne "Musical Networks" e
"Dissonanzen", nelle sporadiche proposte dell'Istituto Francese o
della mostra tecnologica di "Futuro Remoto".
Cominciamo dal
"Centro di Cultura Musicale" di Franco Pezzullo[61] e Maria Regina de
Vasconcellos, la cui attività si condensò attorno ad un Festival annuale di
musica contemporanea, intitolato "'900 Musicale Europeo", che
affiancava alle esecuzioni (spesso prime
assolute) le conferenze/analisi esplicative dei maggiori critici nazionali ed
europei. Passarono per il Festival le prime di Daniele Bertotto (...Con libere ali per violino, violoncello
e pianoforte), Alfredo Cece (Sonata per
clarinetto e pianoforte), Chiti (Arion
per chitarra), Silvana Di Lotti (Aura
per pianoforte a quattro mani; Trio
per violino, violoncello e pianoforte), Giorgio Ferrari (IV Quartetto per archi; Gesta
per quintetto di fiati), Flavio Testi (Tempo,
per quartetto d'archi), Italo Vescovo (Sonatina
per Aldo per pianoforte), Daniele Zanettovich (Aube per voce femminile e flauto). Il poderoso programma della VII
edizione ospita opere di Scelsi (Kho-Lo e più tardi i Quattro pezzi per corno in fa), Berio (Sequenza per voce sola), Sciarrino, Bortolotti e soprattuto dei
nostri Mario Cesa (My Musical per
clarinetto e pianoforte) e Patrizio Marrone (Due fantasie per clarinetto e pianoforte). Il Festival accoglie,
fra l'altro, nel
I critici,
considerando a parte i giornalisti locali dei quali Pezzullo diceva apertamente
un gran male, furono Enrico Fubini, Paolo Gallarati, Enzo Restagno, Imre
Foldes, Dominique Jameux, Jean Roy, Hansjorg Pauli, Estevan Lines, Volker
Scherliess, Mario Vieira de Carvallo, e molti altri. Sul tipo di formula
adottato da questa e da altre rassegne ho già espresso i miei dubbi: più che
essere formato, il pubblico sembra volersi godere musica gradevole, e se la
qualità lo convince non esita a sbancare il più vicino emporio musicale.
Ciononostante, il "'900 Musicale Europeo" è stato una presenza
importante per la città, almeno fino a quando nella città è rimasto, ospite
dell'Istituto francese di Via Crispi. Negli ultimi anni, stufo di combattere
contro i mulini a vento e di mercanteggiare spazi coi giornalisti, Pezzullo lo
esportò a Ischia. Il destino migratorio degli operatori e dei musicisti si
compiva ancora una volta.
In una recente
intervista mi confidava di volersi 'aprire' ancor più ai napoletani, e so del
suo interesse per il lavoro di Gaetano Panariello e di Giacomo Vitale, che
definì "musicisti con belle qualità, ma che possono certamente trovare
ulteriori possibilità per giungere ad un 'loro' linguaggio". Dei giovani
in generale rilevava la difficoltà ad "allontanarsi dall'accademismo contemporaneo"
e a "districarsi all'interno della matassa dei linguaggi".
In un mio
articolo per un quotidiano, pur rilevando il valore degli strumentisti
impegnati (primo tra tutti il cornista Guido Corti), e l'attenzione rivolta a
Giacinto Scelsi, un autore che ha dovuto patire una non piccola e non breve
persecuzione critica (solo di recente c'è stata una sorta di 'riabilitazione')[62], bacchettavo
pesantemente (ma bonariamente) Pezzullo. Ciò avveniva nonostante fossi stato
ospitato come unico relatore napoletano di quella edizione[63]. Più
precisamente, esprimevo il desiderio di ascoltare anche i brani di altri
napoletani, e facevo i nomi di Paliotti, Musino, Mormile, Fels.
Ma Franco era
abituato a rapporti tempestosi con la critica, e non me ne volle: qualche tempo
dopo mi regalò un suo importante disco con la Kammermusik di Napoli (pubblicato
dalla francese MGA, con opere di Dvorak, Strauss e del contemporaneo Jacques
Bondon).
La profonda
umanità di questo didatta (operatore e trascrittore, esperto di fiati) mi colpì
subito, al di là dei suoi meriti e demeriti. L'ultima volta che l'ho sentito,
prima dell' inaspettata scomparsa, era felice come un bambino perché il San
Carlo gli aveva affidato un concerto. Purtroppo il male gli impedì di tenerlo.
Oltre Donatoni
Sempre nel '90
il corso partenopeo[64] di Donatoni mi dà modo di conoscere Gaetano
Panariello, Carlo Mormile ed Enrico Massa. Questi musicisti devono al veronese
l'amore per l'avanguardia e, in fondo, anche il suo superamento. Lo stesso
cerebralismo strutturalistico del primo Donatoni, capace di attirare in epoca
di aureo culto della contemporanea 'colta' frotte di nuovi aspiranti adepti,
una volta sfociato nella sottile ironia degli ultimi anni, nel diatonalismo che
da più parti gli rimproverano, ha poi allontanato (o definitivamente 'formato')
molti degli allievi di una volta. Non so come potrebbe reagire un giovane al
vedersi valutare il proprio elaborato con il pendolino da rabdomante, come è
uso fare di recente Donatoni. O alla vista del suo maestro/vate che si presenta
al Maurizio Costanzo Show in tenuta da messicano con tanto di sombrero. Negli
interminabili pomeriggi dei suoi corsi, l'autore di Antecedente X, Questo, e
del Sigaro di Armando 'metteva su'
una cassetta con un brano di sua composizione; disponeva caramelle, sigari,
fiammiferi e quant'altro sul tavolo, e placidamente si addormentava,
boforchiando di tanto in tanto qualche risposta esoterica alle rade domande
degli allievi. Ma ad un genio (matematico, beninteso) si perdona questo ed
altro.
Sta di fatto
che alcuni dei partenopei storicamente allievi di Donatoni, pur restando in
qualche modo legati affettivamente al maestro, se ne sono distaccati progressivamente dal punto di
vista degli esiti compositivi.
Finalmente Topolino
Panariello s'è
diplomato con Aladino Di Martino, per poi perfezionarsi all'Accademia di Santa
Cecilia con Donatoni. Conta parecchie esecuzioni, anche radiofoniche, ed è
edito da Pucci e Simeoli. Nel '90 la sua produzione comincia a discostarsi da
quella di Donatoni; quella è anche l'epoca in cui cominciano le commissioni di
Gorli, Pezzullo etc. Collabora intensamente con il San Carlo, ma soprattuto
attraverso balletti. Oltre al già menzionato Immago (rappresentato nel giugno del '92, per flauto, clarinetto,
violino, viola, violoncello, vibrafono e percussioni), c'è La scena del ragno per il balletto Agostino (realizzato però al Teatro di Corte nel marzo dell' '85),
e
Dalla nota di
presentazione di Immago, un'epigrafe
cara al compositore: "le sue composizioni nascono da una costruzione
artigianale intesa come espressione di felicità e di vitalismo positivo: sviluppi
imprevedibili vanno oltre lo sguardo acquoso del postmoderno per tuffarsi nella
concretezza del fare, senza nutrire più il minimo dubbio sulla possibilità
della comunicazione" (Gallarati). Non posso, naturalmente, condividere la
lontananza dal postmoderno, ché altrimenti troverei noiosa l'opera di Nino. Un
effetto del postmoderno (di cui mi pare possa prendersi a vangelo l'opera di
Lyotard, La condizione postmoderna, che
è del '79), è la naturale combinazione e confusione che caratterizza il tempo presente,
e dal quale non mi pare affatto essenziale distaccarsi. Anzi, la possibilità
che fonda una estetica del futuro, a cui non posso dedicare qui più che un
rapido accenno, è proprio nell'uscita dal sistema rappresentata dalla
contaminazione, la quale può condurre alla qualità (possibile) dell'opera e
alla sua comunicabilità. Ciò equivarrebbe alla riscoperta di un senso dopo
l'epoca di conclamata crisi della parola e della creatività.
Per tornare
all'opera di Nino, troverei singolare che fosse distaccata dal postomoderno e
poi indulgesse in una scrittura che dimostra d'essere molto varia, e quindi
certamente attuale. Oltre ai balletti, Panariello è autore di una maestosa e
concentrata Sacra Rappresentazione su
testo di Ferrara (non Franco Ferrara, il voluttuoso e funambolico poeta), nella
quale è possibile percepire il gran gusto per la pura e non cerebrale
invenzione (forse questo intende Gallarati per 'vitalismo'), eseguita alla
Curia di Salerno nell'aprile '91; ha scritto Ajone, gradevole, melodica, descrittiva opera incisa per Leep
Records nell'ottobre '91 (devo soltanto sanzionarne la declamazione della voce,
troppo accentuata), e il recentissimo, ancora tonale, La scuola di Musica di Brema, per voce recitante e orchestra. Ha in
catalogo molte musica di scena, composizioni vocali e miste, brani per
strumento solo ed ensemble. Mi pare notevole il suo Quartetto, del '90, forse ancor troppo legato alla stringente
logica donatoniana; Grock, del '91, è già più lontano, perché pur
mantenendo una serrata trama sotterranea, e incorrendo in qualche giochetto di
troppo (cioè riconoscibile e riconducibile ad un ambito sperimentale), mostra
qualche indulgenza per la melodia in un intermezzo armonico, principiato da
accordi ben individuabili. Immago, del '92, è un nuovo passo avanti, e di strutture
severe conserva poche tracce solo nel finale (preferisco sviluppi per note
lunghe e tenute). Il suo lavoro più notevole resta per me Concerto per quattro corni, commissionato, come s'è detto, da
Pezzullo, scritto velocissimamente da Nino, ed eseguito infine a Lacco Ameno
nel settembre '93. Col solo inizio strutturalistico segue un secondo movimento
dai toni intimi e delicati, solo a tratti interrotti dall'intervento del terzo
corno, che crea un ponte logico/connettivo tra i movimenti (per la ritmica che
propone). Il terzo tempo offre qualche seduzione mahleriana. Insomma, una
giusta misura tra la voglia di dire qualcosa d'espressivo e l'utilizzazione di
tecniche e segnature sofisticate.
Rag Birds
Dopo essersi
diplomato, Carlo Mormile s'è perfezionato
all'Accademia di Roma e alla Chigiana di Siena con Donatoni. Ma alla
Chigiana incontrava Prati, Barriere, Morriconi... e consolidava i suoi
interessi per la musica elettronica e per quella da film (con buona pace di
Umberto Eco). Del conservatorio non pensa un gran bene; in una intervista
inedita mi dice: "La sua situazione negli anni '80 creò problemi a molti,
ad esempio a Gabriele Montagano, ma anche a Mario Vitale, che ora fa
l'informatico. Io ho resistito, ma qui non ho mai partecipato a un saggio.
Cercavamo risposte che a Napoli mancavano. Gli insegnati erano Mazzotta,
Ravinale, D'avalos (il quale dice che la composizione è morta nel 1950). Tomei
è sulla stessa lunghezza d'onda. Poi qui c'è anche questa faccenda della scuola
napoletana, di cui siamo discendenti. Anche Calbi, con tutto il bene che gli ho
voluto, era in sostanza una persona essenzialmente retrò. E' stata una
generazione che non ha fatto nessuno sforzo per accostarsi alle problematiche
italiane ed europee".
Non è che
Mormile sia più tenero con Donatoni: " Era attento ed era anche despota.
Di qualsiasi frammento voleva sapere origine e collocazione, e se c'era
qualcosa che non funzionava secondo una certa concatenazone tecnica o logica ne
voleva spiegazione. Questo ha creato la famosa generazione dei 'donatonini',
dovuta proprio al fatto che lui era così presente. 'Donatonini' di spicco
furono, ad esempio, Gorli, Cardi, Gentilucci, ed altri: l'Italia ne è piena,
anche se oggi scrivono in modo molto diverso. Poi è finita l'avanguardia, e con
la sua morte certi atteggiamenti sono stati abbandonati. L'anno scorso gli ho
chiesto come si trovasse oggi, lui che ne era stato uno dei baluardi. Mi ha
risposto di aver già svoltato negli anni ottanta; oggi ha scritto anche
qualcosa di diatonico. Dice di essere stato contagiato da Solbiati, all'epoca
suo allievo".
Nonostante
tutto, dopo il diploma, Carlo ha avuto parecchie esecuzioni radiofoniche,
commissioni, pubblicazioni. Di lui m'interessa la disponibilità alla critica, la
versatilità e trasversalità del lavoro, la capacità di teorizzarne gli esiti.
Mormile, considerando la consacrazione della serialità integrale sia al
problema delle durate che a quello delle altezze, finisce col dedicarsi
soprattutto al ritmo ("se si riproduce su uno strumento a suoni
indeterminati il ritmo di un brano famoso, questo sarà riconosciuto nella
maggior parte dei casi sia da ascoltatori musicisti che semplici
amatori"). Isolate alcune cellule ritmiche elementari ma discontinue,
procede alla loro ripetizione e permutazione, escludendo con meticolosità tutte
quelle che potrebbero ascriversi all'intervento dell'esecutore. L'alea,
decisamente, non gli interessa, e gli esiti di rigida scansione ritmica non
possono che rimandare ad analoghe preoccupazioni del suo maestro (quando vide Silenzi,
la prima frase di Donatoni fu:
"anch'io all'inizio usavo molte pause, perché non sapevo scrivere").
La scelta
delle altezze viene invece consegnata al momento compositivo in sé, nel senso
che si tende ad utilizzare serie difettive sovrapposte alla scelta delle
durate, secondo l'unica discriminante dell'impatto d'ascolto. Tutto ciò, naturalmente, vale soprattutto per
la produzione 'accademica' o 'di scuola', nella quale includerei senz'altro Specchi (per pianoforte, maggio '89)[65], Cadenze (fl. cl. tr. md. cb., agosto
'91), Three Two Time (trio d'archi,
maggio '92), Sweet Blue Night
(pianoforte, sax contralto e tenore, aprile '93), Abba (fl. ob. cl. cr. mb., giugno '93), Figuranti (fl. ob. cl. cr.
mb.), ed altri brani per strumento solo, come Silenzi, unico definito dall'autore 'cageano' (ciò avviene per la
presenza di pause ed il tentativo di lavorare sul silenzio: cosa che per la
verità mi pare avvicinarlo più a Webern che a Cage) e Permutazioni per clarinetto solo. Fra questi, Sibilando, di cui posseggo una versione per macintosh, pur
utilizzando qualche rete strutturale donatoniana, mi pare ottimamente riuscito.
Negli altri brani, la componente sperimentale è notevolmente pronunciata, e
certo non posso dire di condividerne gli esiti. Molto interessante la lista
delle proibizioni estetiche che Carlo adotta come progetto del suo lavoro a
venire: innanzitutto l'adozione del furto come metodo di lavoro[66]; poi,
l'abolizione dell'estetica adorniana, e del riferimento alla seconda scuola
viennese, dell'avanguardia e della novità per la novità, di "pregiudiziali
fideistiche nei confronti dei movimenti artistici 'commerciali' ". Nel
programma di Carlo c'è, inoltre, oltre alla già menzionata attenzione verso lo
sviluppo delle durate, anche la ricerca verso stili e forme del dire musicale
non esenti da contaminazioni.
Infatti altre
opere, soprattutto per teatro, sono notevolmente più liriche e meno preoccupate
di proclami estetici restando, a mio
avviso, le migliori[67]. Anche
Il pozzo e il pendolo
Dopo gli studi
napoletani, Enrico Massa si è perfezionato con Donatoni e Clementi. La sua
ricerca, rigorosissima, s'è indirizzata verso lo studio di parametri costanti,
invarianti o 'eterni'. Ben presto ha preso le distanze dai suoi maestri,
lamentando soprattutto la loro indifferenza alla dimensione verticale; ha così
cercato inedite relazioni strutturali tra accordi, nuove 'armonie'[69] possibili, pur senza tornare alla tonalità. Ha
rilievo pure la rivalutazione della tensione melodica (come ad esempio in Ditirambo).
Massa
certamente caratterizza il suo lavoro attraverso una forte carica
intellettualistica, che si esprime, ad esempio, nell' interesse per la memoria,
indispensabile per l'individuazione della forma di un brano. Per lui, la
riconoscibilità di fatti accaduti nel tempo (ha funzione simile a quella dello
spazio nell'arte figurativa) assicura la continuità tra atti fondamentali e
loro impercettibile mutazione (variazione). "Ogni frammento di musica è
formato da singole unità sonore che stabiliscono con l'unità precedente e con
quella seguente rapporti di altezze, durata e omo/disomogeneità timbrica":
l'aggregarsi di queste particelle crea strutture più complesse. Ciò fa sì che
Enrico privilegi la forma chiusa, proprio a causa della presenza di una
finalità connessa con l'esercizio della memoria: anche Weininger lega quella
facoltà all'espansione volitiva.
Così,
giustizia è fatta della serialità integrale, che Massa dichiara morta e defunta
proprio come la tonalità; e del suo distaccarsi dall'opera aperta s'è detto.
Oggi, l'attenzione va soprattutto al tempo, e subisce la suggestione
proustiana: "un tempo in cui passato e presente si intreccino e si
confondano, in cui non sempre sia possibile distinguere con chiarezza il prima
dal dopo".
Questa ricerca
sul tempo e sulla memoria sortisce esiti differenti nella sua produzione. A
parte i Cinque pezzi per pianoforte (1986), eseguiti in Italia e Grecia da
Roberto Melini, la sua prima produzione è perlopiù inedita e non ancora
eseguita. Si tratta di Collage e Sonatina per vibrafono e pianoforte
(1986); Presentia per quartetto
d'archi (1988); Il segreto di Arianna
per violino e percussioni (1988). Invece Cheter
(1989), per due pianoforti, vede diverse esecuzioni, anche radiofoniche, grazie
ad Oreste De Tommaso e Carlo Mormile. Vi si esibisce un pianismo vigoroso,
esuberante, energico e poderoso, non esente da deteriori tensioni
virtuosistiche, e tuttavia d'effetto. Dei Quattro
Studi per flauto (1989-90) uno
soltanto è stato eseguito più volte da Daniela Cima e anche da Sandro Carbone,
ma lo trovo una sorta di esplorazione di tecniche sperimentali, e non di grande
interesse.
Complesso,
solidamente costruito, insomma nello stile di Massa, è The Pit and the Pendulum (1990)[70], per
chitarra, che più di altri pezzi si fa esemplare del progetto compositivo.
Brano rarefatto, suddiviso in 'aree', ambiti o segmenti riconoscibili, ancorato
probabilmente a stilemi sperimentali, è tuttavia non privo di esiti espressivi,
soprattutto quando rinuncia ad effetti di 'rottura' trasversale. Una sezione
echeggia consapevolezza di musiche diverse, addirittura anche jazz (in senso molto
lato). In altra sezione, quella che più adotta il metodo donatoniano, presenta
attimi (note), punti d'appoggio timbricamente riconoscibili. L'ultima parte
torna al lento risonare, stavolta di accordi, appena 'disturbati' da interventi
strumentali ad effetto.
Il successivo Studio per Arianna (1991) è tratto da Il segreto di Arianna quasi
integralmente. Non è il brano che preferisco, ma devo dire di averlo ascoltato
(sia dal vivo che su nastro) soltanto nell'esecuzione di Enzo Porta, forse
troppo 'specialistica'. Il Preludio
per chitarra, sempre del '91, è tutt'altra cosa, e condensa l'esperienza de Il Pozzo e il pendolo in una aforistica
e gradevole piece che presenta
qualche citazione (di atmosfere), qualche ostinato, qualche bell'effetto
tipicamente strumentale. Si chiude con il susseguirsi di note lunghe (forse si
ricollega al pozzo che ospita memorie), e con accordi arpeggiati non privi di
tensione armonica. Non conosco la Serenata
per quintetto d'archi, e mi delude un
po' il Preludio, duetto e rondò per
due sax e pianoforte, scritti entrambi nel '92. Invece trovo molto belli Saffo
('93) che gioca per sovrapposizioni variate tra la voce femminile ed un
contrabbasso in tessiture anomale, e Ditirambo
(1995) per sax alto. L'ho ascoltato nell'esecuzione di Nicola Cassese: è un
pezzo molto concentrato ed espressivo. Espone il moto solitario, quasi modale,
di un solista, cantore dell'universo. Ha preparazione del materiale, sviluppo,
apice agogico e coda con virtuosismi, tutti convincenti.
Assieme ai
brani per chitarra mi pare tra le cose migliori di Enrico.
Altra musica al "Grenoble"
Monade con
l'obbligo di produrre cultura con gli indigeni è stato l'Istituto francese di
Napoli. Quando non occupato a predisporre meravigliose locandine (salvo poi
abbandonare gli artisti a se stessi), propose anche concerti notevoli, sia con
Digne che con Schifano. Grazie al primo, diversi artisti partenopei trovavano
comunque uno spazio (ed uno sgangherato Steinway che è ancora lì): Eugenio vi
rappresentava con Ugo Fanina "Opera Satie", Montagano l'operina Evento, ed io uno spettacolo assieme al
gruppo"Virus". Grazie a Schifano, invece, un pezzo d'Africa, col
concerto di Francis Bebey, approdava a Napoli. Ma per la prima volta non si
trattava di una manifestazione di colore, di quelle che mandavano in bestia
Luciano Cilio, ma della performance, perfino un po' snob, di un interprete che
gira il mondo per far capire a tutti di quale musica l'Africa si sia
riappropriata, e quanto sia disposta a condividerla se sollecitata dal miraggio
del villaggio globale.
Il concerto (è
il 1993) inizia coi suoni di un piccolo flauto usato dai pigmei. E'
un'emissione prima solitaria, ma ben presto capace di articolarsi in varianti
profonde o lievi, come accade con la voce umana. C'è vera Africa, col suo
diritto a vivere senza guerre postcoloniali, senza egemonia di gruppi
commerciali stranieri, nel grido modulato che Bebey lancia al soffitto (e in
fondo al resto del mondo) come nelle cantilene
su cellule e moduli strumentali ripetuti. Ma c'è Africa e Francia, e
quindi contaminazione, nei pezzi più riusciti, come nel Poema. Qui si congiungono la canzonetta francese ed i timbri
ancestrali della "sanza" e dello "n'dehou"; anche la
chitarra viene percossa in ogni punto come un tamburo, ed il testo, francese,
ci parla di voli oltre il mare, di morte
come a noi è ignota (bambini per strada, mucchi di giovani e vecchi in fosse
comuni, massacri di intere tribù...), di colori intensi, di paesaggi al di là dello sguardo.
Questi stessi
elementi, la continuità dolciastra delle melodie, l'amalgama suadente tessuto
dalla voce, la poliritmicità sincopata delle percussioni, li ritrovavo qualche
tempo dopo nella performance dei figli di Bebey. E tuttavia restavo scontento
dell'inserimento un po' casuale di una chitarra elettrica, e di non convinte
modulazioni infratoniche della voce, tanto da scrivere di questo secondo
concerto come di una grottesca esibizione, capace solo di fare il verso a
quella di Bebey padre.
Musical Networks
Muovendosi in
controtendenza rispetto a tutte le scelte precedenti, forse presagendo
l'imminente crisi, la Rai nostrana, morente monade autoritaria, decide nel '92
di programmare una serie di concerti dedicati esclusivamente alla musica
contemporanea. Tra novembre e dicembre si terrà infatti una sfortunata
rassegna, dal titolo "Musical Networks", spinta dalla sinergia tra
RAI, AMN,
Si può
perdonare l'ignoranza, ma non lo strategismo vigliacco.
L'esterofilia della Scarlatti
Benché nella
formulazione dei programmi
In ogni caso
mi pare opportuno segnalare che, se non altro, dal punto di vista della
programmazione, s'è capito che bisogna puntare ad un nuovo pubblico, più
giovane e sveglio. E che per conquistarlo occorre mettere in cartellone musica viva.
Così, è
accaduto che pian piano stiano venendo a Napoli il Kronos Quartet, il
Balanescu, DD Bridgewater, le Voci Bulgare, le percussioni di Ondekoza. Quello
che invece non s'è compreso ancora è che va ricostruito il legame con la vita
musicale reale della città, e che per farlo bisogna chiamare a raccolta i
migliori compositori ed esecutori.
Futuro Remoto
Al di là delle
implicazioni politico/tecnologiche, va detto che la fortunata mostra a metà
strada tra scienza e fantascienza ha talvolta ospitato, nel settore musica,
opere ed interventi di compositori ed operatori cittadini. Nel '92, sul tema un
po' scontato del "mare", tre compositori, Rosario Musino, Carlo
Mormile ed Enzo Amato, si federavano anche creativamente nel produrre un'opera
a sei mani dal titolo Mare Nostrum
Citreum, un "viaggio sonoro attraverso gli strumenti etnici dei popoli
del Mediterraneo".
Il progetto si
svolge seguendo tre direttive: sintesi tra l'uso di una strumentazione
tecnologicamente agguerrita (ma si tratta sempre di computer music: al lettore
dovrebbe essere ormai chiara la differenza che c'è tra questa e la musica
elettronica, pur senza discriminazioni) e la presenza dell'elemento etnico; riferimento alla cultura della Magna Grecia
"intesa nel suo concetto di mediterraneità" (ancor sempre
Mediterraneo: uno spot per la musica nostrana); ed infine ricerca su timbri, campionati, sintetizzati o
realizzati dal vivo (gli strumenti impiegati dal vivo sono la tammorra di Alfio
Antico, le launeddas di Enzo Stera e la voce di Daniela Del Monaco; quelli
campionati: Naqqarat, Echeion, Zansa, Sistro, Ud, Fidula, Cromorno, Ciaramella,
Buccine, ed altri). I software utilizzati sono Macintosh (immagino un
"Finale"), ed i suoni sintetici quelli delle macchine Roland. Del
brano ricordo il vivo contrasto espresso dal
'calore' improvvisativo di quel fenomeno delle percussioni che è Alfio
Antico, dalle modulazioni a suono unico di Enzo Stera, e la freddezza tecnica,
un po' sperimentale della Del Monaco. Il computer, ancorché privo di agogica,
faceva la sua parte, ma in modo forse semplicistico. Notevole mi pare, ancora
oggi, riascoltando il brano, il presupposto etnico, che varrebbe la pena di
riprendere e approfondire. L'edizione del '93 presentava di importante uno dei
due concerti napoletani del Kronos Quartet (decentrato al Teatro Delle Palme,
nel corso della stagione Scarlatti), e la serata affidata a
L'ironia di Daniele Sepe
Si potrebbero
dire molte cose su Daniele Sepe, un musicista completo che trova una strada
originale e particolarissima tra il jazz, la musica etnica ed alcune
suggestioni di natura 'colta', come direbbe qualche illuminato critico della
vecchia scuola.
Ma è più
divertente dare uno sguardo al
curriculum semiserio (cioè decisamente ironico) che Daniele consegna ai suoi
più fedeli estimatori: "Dopo il diploma, stanco di preparare estenuanti
concerti da presentare alle vecchie nobildonne, immancabili al circolo degli
artisti, e non possedendo un frac, comincia a lavorare in studio e qualche
volta dal vivo, con un sacco di gente (Nino Bonocore, Mia Martini, Teresa De
Sio,
Dopo varie
peripezie, impossibili da riportare qui per intero, il nostro eroe conclude
sconsolato che "non riesce ancora a passare dalla monocamera al bivani con
balcone".
Tutto ciò per
raccontare come questo compositore/esecutore sia versatile, ed autoironico come
pochi (ad esempio il già citato Alessandro Vecchiotti esibiva un analogo
curriculum, nel quale affermava testualmente d'essersi diplomato col minimo dei
voti per gettare il suo pubblico nel massimo dello sconforto). Ma al di là
delle boutade, sarà più che opportuno segnalare la godibilità e qualità del
penultimo disco (solista) di Daniele, Vite
Perdite che ha avuto fior di recensioni anche sulla stampa specializzata in
jazz, checché ne dica lui, e intere pagine su quotidiani a tiratura nazionale.
Il fatto è che il suo linguaggio riesce ad essere espressione di un genere che,
altrove, abbiamo definito come world globale: una musica che pur affondando le
radici in alcune, diverse, tradizioni etniche, riesce poi a parlare al mondo
intero.[71]
Il suo ultimo
lavoro, Spiritus Mundi va colorandosi
sempre più di rosso, come i più recenti spettacoli, ed appare come un
pot-pourri delle collaborazioni molteplici e mutevoli del geniale strumentista.
La voce di Auli Kokko, che dal vivo m'era parsa straordinariamente evocativa e
potente[72], risulta in
studio un po' attutita, e questo certo
La raffinatezza di
Francesco è un
musicista che abbisognerebbe di un saggio intero, perché la sua musica,
prevalentemente jazzistica, è fatta di sfumature, colori tenui, evanescenze
delicatissime e rarefatte. Chi scrive ha collocato il suo compact Tartana, in una zona che comprende
Byablue di Keith Jarrett (un lp prima maniera, con Paul Motian, Charlie Haden,
Dewey Redman) ed il più delicato Chet Baker, vale a dire quello strafamoso di Let's Get Lost, e quello italiano di Chet on Poetry (recentemente ho
collocato sullo stesso scaffale anche lo Chet
Baker in Italy che raccoglie perle tratte dalle numerose ondivaghe
peregrinazioni italiane). Mi pare quasi inutile precisare che i riferimenti
stilistici vanno ad un antesignano comune a molti tra i pianisti jazz oggi in
gran voga, e cioè a Bill Evans (ma questo è minerale naturale come l'acqua).
I colori del piano
Ho già fatto
cenno in più luoghi all'abilità e sensibilità di Rosario Musino ("Futuro
Remoto" non è che una parentesi nella sua rutilante attività esecutiva e
compositiva). Il fatto che si tratti di un pianista, per giunta di scuola napolentana[74], non fa che
accrescere la mia considerazione, soprattutto per una morbidezza esecutiva ed
una raffinatezza tecnico/musicale davvero notevoli. Queste doti, assieme a
quelle di compositore e direttore, non sono sfuggite nel passato a
'ndacalàmacalì
Non posso
chiudere questo libro senza fare cenno all'attività di Mario Cesa, un
compositore irpino di cui ammiro l'opera e l'attività di promozione culturale
(è da anni il direttore artistico di un Festival delle Orchestre molto
conosciuto all'estero e snobbato dai giornali locali). Essenzialmente
autodidatta per la composizione, la sua attività non fu risucchiata che
occasionalmente dai miasmi napoletani. E' infatti stato eseguito a Cuba, in
Germania, Polonia, Francia, Ungheria ad opera di interpreti 'storici': Canino,
Ballista, Fumo, Mondelci, Fabbriciani, Scarponi. Ha pubblicato dischi con
Edipan, Leep Records, Musical Dorica. Tra le sue opere più rappresentative ci
sono i Cinque esercizi sulle feste
popolari irpine, eseguito in prima da Bruno Canino (a lui dedicato, e
pubblicato dalla Edipan nel 1983), il quale lo ha riproposto in un recente
concerto capace ancora di scandalizzare qualche critico. La parte presenta
cinque 'tracce' che utilizzano soltanto i righi (in violino e basso) necessari,
e poi sviluppa gli esercizi utilizzando un grafismo essenziale, non pittorico
come in altri lavori, con l'uso di clusters e semiclusters. Bella l'idea
percussiva che scaturisce dalla realizzazione della "spirale"
visivo/esecutiva nel quarto esercizio. Varianti ('ossia') sono possibili a
scelta dell'interprete.
Notevoli anche
le Feste Paesane dell' '83 per dodici
strumenti a fiato e timpani. La parte vi si dipana come un'intabulatura per
liuto, la ricerca del segno grafico si fa più sofisticata, meno essenziale, più
ardita. Lo spartito si trasforma in una descrizione scritta del brano (a sua
volta trasposizione di una oralità scomparsa). Qui lo sperimentalismo aleatorio
si fa strada pericolosamente, ma l'ambito di casualità è meno ampio di quel che
si potrebbe immaginare.
Non meno
importante mi pare il Modulo
pianistico pubblicato dal mensile "Piano Time"; è uno studio delle
possibilità armoniche liberate da una linea tematica di suoni a tasto vuoto (o
'morto', come indica Cesa) che reagisce alla percussione ripetuta di un accordo
in fortissimo. E' inutile sottolineare che la melodia è 'popolare', come spesso
in questo autore, attento studioso del
folclore dei luoghi. Mi sembrano rappresentative anche le Ritualità antiche (per pianoforte a quattro mani), Repercussio (clarinetti e ensemble), Città viva, Città morta, città... ( sax
e ensemble), Strade (flauto e
ensemble), Il Paese della festa (clarinetto
e ensemble). Notevole il concerto per violino e orchestra Sciaugscenesce, col suo
tentativo di smontare il predominio gerarchico del violino in una programmatica
inversione di ruolo tra il primo e il secondo movimento. Nel terzo, sulla base
della melodia popolare La canzone di Zeza,
che viene utilizzata solo per quel che riguarda la successione delle altezze,
si sperimentano suoni staccati, glissati del violino ma anche dei clarinetti,
tromboni, arpa e timpani.
I nove minuti
di Synph, per ventuno violini e
orchestra, sono un gioco di rincorsa speculare tra i solisti che entrano in
successione, e poi retrocedono fino al silenzio.
L'ultimo
lavoro discografico di Cesa comprende la Sinfonia
degli Inni e dei Canti, e il Concerto
per pianoforte e orchestra (Bella Musica). Il compositore mescola qui il
folclore locale alla ritualità metropolitana, cimentandosi con due delle forme legate alla più aurea
tradizione colta. Il nesso ritmico del Concerto è in una frasetta da hits di musica leggera :
"ndacalàmacalì", che certo funziona meglio di complessi calcoli
algoritmico/seriali. La sinfonia, dal canto suo, è eseguita con grande vigore e
convinzione dall'orchestra "Mihail
Jora" di Bacau, tra glissandi e sovrapposizioni di temi. E' un' opera di complessità
e densità sconcertanti.
Dissonanzen
Il capitolo
aperto da "Dissonanzen" alla Galleria Toledo è senz'altro
importantissimo per la storia della città. Marco Vitali e Aldo De Vero sono gli
ideatori della rassegna, che si avvia sotto i migliori auspici, pur restando
monade tra monadi. La formula è un po' quella usata e abusata dei concerti de
"L'armonia e l'invenzione", di cui s'è detto: si tenta di 'parlare'
di musica contemporanea, 'iniziare' il pubblico alla comprensione dell'arcano
segreto che si cela dietro alla tecniche più complesse, procedere ad ascolti
che prevedono il religioso silenzio (vengono banditi gli applausi tra un pezzo
e l'altro). Insomma si cerca, forse anacronisticamente, di fare del teatro una
chiesa, e della 'colta' per eccellenza una religione. Mancava una bibbia, ed
ecco quindi che i curatori pensano di produrre una newsletter mensile, che
viene inviata gratis a chi dà il proprio indirizzo o mostra interesse per
l'iniziativa. Nella lettera si racchiudono notizie sui brani, generalmente
tendenti a ricostruire la storia dell'avanguardia, e sugli esecutori che li
presenteranno a Napoli.
Inizialmente
anch'io vengo sedotto dal progetto, perché Vitali promette "poche parole
di introduzione" ai concerti, e mi pare che intuisca che il discorso sulla
musica contemporanea non può prescindere dalla "qualità inventiva".
Credevo che questo andasse nel senso di Chiari (che si preoccupa più dei
musicisti che della musica, a ragione), ma mi sbagliavo, perché già nella prima
newsletter le domande sulla qualità dell'opera vengono risolte nel "tempismo
con il quale un'idea si è presentata" e nella "novità" già insita in essa.
"Dissonanzen" parte scontando ancora la pesante eredità adorniana, e
Vitali non intende affatto sottrarsene (Vitali: "consapevoli del rischio
connesso con l'uso di categorie dialettiche come quelle di progresso e reazione di adorniana memoria, riteniamo nondimeno che,
usate criticamente -come punto di partenza e non di arrivo-, esse possano avere
ancora oggi una loro utilità")[75]; ma alcune di
quelle 'verità' vengono tramandate un po' frettolosamente agli adepti dell'erigenda chiesa, come
segnalavo in alcune recensioni[76]. E' così che
soprattutto brani di autori già storicizzati vengono programmati ed eseguiti
nella rassegna del '93 (la sacra triade viennese; Ives, Cage, Stockhausen,
Brown, Feldman, Kagel...). Le cose non cambiano molto nel '94: ci sono Maderna,
Gentilucci, Guarnieri, Manzoni, Donatoni, il solito Cage col solito Bussotti
che legge brani interminabili, e via di seguito. L'unico napoletano presente in
cartellone, benché avessi in un incontro (e sulle colonne di un quotidiano)
proposto a Marco di programmare un concerto dedicato a Cilio[77], è Enrico
Massa (con Arianna per violino solo,
eseguito da Enzo Porta). Dopo quella edizione, forse per lo scarso successo di pubblico, o più
probabilmente per una distonia tra gli organizzatori, anche
"Dissonanzen" è precipitata irrimediabilmente nel limbo delle
promesse mancate.
La Festa della Musica
Il 21 giugno
dell'era Nicolini, in sintonia con altre città europee, anche Napoli ha avuto
"La festa della Musica". Contemporaneamente, e non solo per quella
giornata, s'è suonato a San Martino, al Maschio Angioino, nelle piazze Bellini,
Santa Maria la Nova, S. Domenico Maggiore. Unico limite, una sorta di divisione
tra generi, che però è solo pretesto per orientare la scelta del pubblico (e il
suo percorso). La 'classica' viene ospitata nel cortile e nelle sale Maschio
Angioino, che del resto ne è luogo deputato fin dai tempi di Luciano Cilio. Il
coordinatore di quella manifestazione è il compositore Enzo Amato, che mi
telefona per invitarmi a far eseguire le mie Variazioni sul Vento.
In una delle
sale adiacenti c'è invece l' "Incontro con i compositori napoletani",
che chiude il ciclo "La parola alla musica" organizzato da una associazione[78]. I
compositori che appaiono sono, nell'ordine del programma (diverso da quello
d'esecuzione), Roberto Altieri (Cadenza
sul nome Bach); Massimo Coen (Mon
coer qui bat ; Improvvisazione ; c'è inoltre un fuoriprogramma: sono brani in
cui si esibisce una certa abilità strumentale che manifesta un percorso
originale, ma un po' neoclassico e citazionistico); Luigi Fortunato (Variazione; Luce : pezzi atonali, che cedono spesso a suggestioni meramente
sperimentali); Enzo Galdi (Erleben per
pianoforte e violino, dal linguaggio sperimentale, aforistico e conciso. Recitativo); Gabriele Montagano (Trieb , nella versione per flauto solo); Carlo Mormile (Cadenze); Rosario Musino (Giorni mal spesi e tempestose notti);
Federico Odling (è uno degli animatori di "Dissonanzen"; la sua
musica è severa e rigorosa, forse troppo concettuale)[79]; Sergio
Pagliarulo (vari brani); Vincenzo Palermo (Notturni,
Canzonette, Frammenti nel tempo: usa un linguaggio prevalentemente tonale, di
stampo neoromantico; ma Palermo mi ha contestato questa opinione, espressa in
una recensione: lui preferisce riferirsi ad armonie che procedono ad anello).
Il lungo
concerto è chiuso da opere di Renna, che è tra gli organizzatori dell'evento.
Il compositore (pluridiplomato in flauto, pianoforte, composizione e direzione
d'orchestra) s'è formato con Di Martino e Rotondi. Ha scritto parecchia musica
da camera, opere teatrali, alcuni brani per piccola orchestra. Numeri
importanti della sua produzione sono apparsi in un compact Edipan, con la Serenata del 1984 per due chitarre, Aiolos del 1987 per arpa, Albumblatter dell' '87 per flauto e arpa
e 27 Romanze senza parole del 1988
per pianoforte. Nonostante il peso del linguaggio, ancorato ai tipi del periodo
sperimentale, devo dire che sento poco di gratuito, e che la ricerca di Renna
appare improntata al più severo rigore e a una certa coerenza. Anche in brani
di cui non posso condividere né forma né linguaggio (ad esempio quelli per
pianoforte), c'è il senso dell'attesa, del riposo, del lento risuonare. Il suo Aiolos, che finalmente si concede di
indagare l'universo greco e l'arpa eolia, è la composizione che più mi
convince, nonostante l'evidente prolissità. Ed è forse l'unica in cui mi pare
ritrovare alcune suggestioni dei Dialoghi
del presente di Cilio.
Immagine e companatico
I malumori li
raccogliamo anche nelle altre 'categorie'. I chitarristi suonano praticamente
da soli in uno stanzone che ospita pure una mostra; alcuni gruppi rifiutano di esibirsi sul palco centrale,
perché l'acustica è pessima e non ci sono microfoni. Altri confessano di aver
partecipato solo perché "in queste cose è meglio esserci".
Ed il punto è
proprio questo: è meglio prestarsi soltanto per l'immagine, o piuttosto dare
forfait, guardare verso altri lidi?
Quale
musicista non ne ha parlato almeno una volta, di questo desiderio bruciante:
andar via di qui, come altri hanno fatto, e magari dirigere orchestre in
Canada. Ciascuno ci ha creduto, almeno all'inizio, alla faccenda dell'immagine.
Luciano Cilio conservava ogni trafiletto che lo riguardasse anche
indirettamente. E quanti di noi posseggono un archivio più o meno segreto, la
famosa 'rassegna' che dovrebbe motivare la sofferenza degli scontri,
incentivare la successiva scrittura, pagare goccia a goccia il sudore versato
per conquistarsi spazi e professionalità...
Può la levità
dell'immagine compensare tutto questo? può bastarci la consapevolezza di aver comunque prodotto cultura, generato
mode, cambiato i fonemi e le ragioni dell'avanguardia? Siamo ancora abbastanza
forti per combattere e vincere?
Cultura dei confini
Tra le musiche
'collaterali', 'sommerse', 'di confine', ci sono state anche quelle dei gruppi
vicini ai centri sociali, anche perché, almeno all'inizio, la loro risposta ai
silenzi delle istituzioni è stata forte e dirompente; tanto che la loro
attività, ancorché frattale, ha poi rotto i margini dell'omertà giornalistica.
Non pochi gruppi sono stati capaci di procurarsi un buon livello nazionale di
fruizione e (paradossalmente) di 'consumo'.
Una analisi
sociologica su questa evenienza sarebbe qui improponibile. E tuttavia non posso
fare a meno di notare come in luoghi apparentemente desituati e decollocati
rispetto agli abituali aggregati urbani sia stato possibile produrre opere di
larga fruibilità.
Inizialmente
scollegati dalla logica di mercato delle major, la proliferazione di gruppi e
concerti ha fatto sì che la pratica dell'autoproduzione diventasse una concreta
realtà capace di innestarsi nelle nicchie del mercato. Il primo passo è stato
senz'altro quello della diffusione di nastri amatoriali, spesso pirata, un po'
come avveniva per il rap americano, e come ancora oggi accade in alcuni paesi
africani. Arrivati al compact, lo si distribuisce ai concerti, e poi lo si
vende attraverso piccole messaggerie (luoghi dall'aspetto 'amatoriale'), che
tuttavia raggiungono i loro clienti in tutta la penisola attraverso il medium
della spedizione postale. Come può immaginarsi, la possibilità di attivare una
rete distributiva estremamente mirata la dice lunga sull'illusione di sottrarsi
al 'mercato'. Si riesce ad evitare, semmai, lo sfruttamento dei grossi colossi
dell'editoria e della distribuzione (ed è già gran risultato), ma non mi pare
che questa soluzione eviti la logica dello scambio. Evidentemente, la domanda
fondamentale resta la seguente: l'opera può essere venduta senza danno
estetico? La nostra risposta è affermativa, ed è ricca di implicazioni, che
però devono per il momento essere lasciate da parte.
Rispetto, poi,
alla cosiddetta collocazione 'di confine', ripeto che essa mi è sembrata
senz'altro effettiva all'inizio, soprattutto per i motivi urbanistici di cui
s'è detto. Ma se i Centri sono stati, via via, suburbani, desituati, legati
alla cultura del 'degrado' (un recente convegno romano verteva proprio su
questo aspetto), essi alla fine non si sono sottratti alla veicolarizzazione
dei media, anche di quelli più odiati e combattuti. Ad una marginalità
urbanistica s'è sostituita la centralità medialica, non esente da notevolissime
implicazioni politiche.
E' per la
visibilità dell'operato dei centri sociali, per le molteplici occasioni di far
circolare idee e produzioni attraverso giornali e tv, che questo libro ne sfiora appena le
attività. Non senza rilevare, però, che la musica emanata dai centri ha una
potenza legata soprattutto alla certezza dell'ideologia (e il termine conserva
tutte le sue implicazioni filosofiche), alla radicalizzazione dei singoli
percorsi, alla creazione di steccati protettivi attorno a strutture che ne
fanno luogo di spaventosa ubiquità/ambiguità, contemporaneamente ai margini e
al centro della metropoli. E' facile prevedere che i centri sociali, mancando
un'inversione di tendenza, finiranno con l'estinguere l'effettivo, deflagrante,
impatto sociale. E che i loro gruppi musicali saranno sempre più simili a
quelli dei 'professionisti'.
Già il loro
messaggio, missato a musiche del mondo, diventa meno esplosivo, meno eversivo.
E, nondimeno, esteticamente valido (perciò disposto/disponibile allo scambio),
perché frutto di impasti e contaminazioni[80].
Rispetto ai
casi particolari, va detto che la musica di gruppi come Almamegretta e 99 Posse
(ma tanti 'minori' suonano nelle sale dei centri) appare legata allo spazio più
che al tempo, vale a dire al territorio che si rappresenta con le sue
espansioni e contrazioni. Le stesse commistioni non impediscono la presenza di
un serrato dialetto, non sempre di facile comprensione anche per la frequenza
della distorsione. Tecnicamente si tratta di un misto di reggae, rap,
ragamuffin..., tuttavia già consolidato in uno stile riconoscibile (vesuwave?[81]), che viene
scelto e acquisito con inesorabilità logica.
La città sta
utilizzando il successo di questi gruppi per darsi un'immagine particolare, un
po' rude, ma che simbolizza bene il crogiolo di razze e stili che
Epilogo
Nel racconto
degli ultimi vent'anni sono sfilati nomi e date in gran quantità; di certo si è
data visibilità ai percorsi di molti compositori operanti a Napoli, senza
tuttavia volerne congelare
Credo si sia
anche dimostrato che molti musicisti, a dispetto di mille difficoltà, sono stati attivissimi, magari
autoproducendosi e autoesportandosi.
Nello
svolgersi del tempo, alcune intuizioni estetiche, legate ai nomi di pochi emergenti ma soprattutto ai
percorsi sommersi degli altri, si sono consolidate, e possono darsi per
acquisite. Alcune etichette, specie di musica leggera, si sono create un grosso
mercato. Alcuni amministratori sembrano (sembrano) meno ciechi dei precedenti.
C'è poi anche
qualcosa in meno: grazie all'effetto tangentopoli, molti dei 'vecchi'
potenti hanno dovuto cedere il passo ad
altri, o franare nel nulla (probabilmente ancora tramano nell'ombra, cercando
nuovi amici a Roma). Certe strutture,
perse per sempre, non hanno lasciato alcun vuoto nelle convinzioni di chi ama
la musica viva. Certe associazioni hanno azzerato la loro attività perché i
finanziamenti sono di colpo cessati (e forse è in gioco anche una grossa
battaglia per la suddivisione dei fondi residui). Certi giornali hanno chiuso o
hanno dovuto procurarsi collaboratori migliori.
Di sicuro il
destino della città, almeno per quanto riguarda la musica, appare tutt'altro che
definito. Cosa accadrà? Verrà fuori la solita associazione nata l'altroieri e
ansiosa di monopolizzare la scena? Appariranno nuovi faccendieri travestiti da
esperti del settore, nuovi critici musicali capaci di fare il bello e il
cattivo tempo? Tornerà qualcuna delle vecchie mummie?
L'esperienza
di questi anni ci ha abituati al peggio, eppure registriamo blandi segnali di
cambiamento. Forse tra vent'anni li racconteremo in un libro diverso, che parli
di aperture, avventure, tanta musica al plurale.
Un po' ci
speriamo davvero.
[1]In uno dei
quadernetti ricchi di note e appunti che la Webb-James aveva l'abitudine di
compilare, ho reperito alcuni programmi dei primi del secolo, svolti in duo con
[2] Le versioni scritte di questo brano, tratte
dal disco, forse furono stilate da
Carmelo Columbro.
[3]Ponty,
violinista di formazione classica, si avvicina ben presto al jazz e al rock. Conosce Frank Zappa, suona negli Experience, Mothers
of Invention, Mahavisnu Orchestra. Non è alieno da frequentazioni
elettroniche (soprattutto sequencer ed harmonizer) e da suggestioni etniche.
[4]In una
intervista di
[5] codice 064-18253. Di
seguito riporto tutte le notizie relative al disco.
LUCIANO CILIO,
Dialoghi del presente. Primo quadro
"della conoscenza". Secondo quadro. Terzo quadro. Quarto quadro
"dell'universo assente". Interludio. Tutte le composizioni sono
scritte, orchestrate e dirette dall'autore. SOLISTI: Luciano Cilio piano (terzo quadro), chitarra, flauto,
basso, mandola; Maurizio Pastore piano
(primo quadro); Toni Esposito
percussioni; Roberto Fix
sassofono soprano; Patrizia Lopez
coro; Peppino Romito oboe, corno
inglese; Elio Lupi violoncello;
Cilio
riproduce anche questa frase di Adorno: "Se l'individualità ha una
posizione critica nei confronti dell'opera musicale, questa è altrettanto
critica nei confronti dell'individualità. Se la casualità individuale protesta
contro la legge sociale rigettata, da cui essa stessa proviene, l'opera
costruisce schemi per far propria quella casualità. Essa rappresenta quanto c'è
di vero nella società contro l'individuo: questi riconosce quanto v'è di non vero,
ed è egli stesso questa non verità".
[6]E' quello
trascritto dal disco da
[7]Ho conosciuto
Gianni Cesarini, incontrandolo spesso ai recital che entrambi frequentavamo per
trarne critiche da giornale (un concerto è la pallida evanescenza di una
recensione). Benché ci avessero presentati da anni, pareva sempre vedermi per
la prima volta (io scrivevo per un giornale minore). Ad un concerto tenuto da
Sergio Fiorentino ad Ischia, in occasione di una storica incomprensione tra
l'eccellente solista e il direttore (vuoto di memoria, sbaglio di tempi, o
altro), Gianni decise di non fare alcun articolo. "Cosa potrei
scrivere?", mi disse. Non ricordo se poi mantenne il proposito. Cesarini
stimava Fiorentino come uno dei pochi pianisti napoletani degni di questo nome,
e aveva ragione, perché in realtà
polemizzava con gli iceberg della scuola egemone. Non si accorgeva, tuttavia, o
non voleva farlo, della presenza di tanti altri. Anche per la musica contemporanea
quel giornale spesso mantenne (e mantiene tuttora) un atteggiamento di grande
superficialità e snobismo. Un quotidiano locale, appunto. Un bel giorno
Cesarini scomparve nel nulla, e pochi posseggono il numero di telefono di
un'isola lontana dove qualcuno si offre di portargli un messaggio. Un'ultima
scelta coerente, l'abbandono del campo.
[8]Percorsi ben
lontani dal peso della 'novità' e della 'adeguatezza storica'.
[9]Non è un caso
che Luciano abbia definito questo pezzo uno "studio sul silenzio".
[10] In una intervista rilasciatami, Luciano si
sofferma anche sul contenuto della ricerca, riferendosi a "metodi atipici
di semiografia musicale come colori, inchiostri, diagrammi, figure geometriche
e addirittura collage, che ponessero l'esecutore in un rapporto di incidenza
aleatoria con la partitura". A questo lavoro giovanile esa seguito lo
studio di un "metodo di integrazione della grafia nuova con quella
classica ove questa sia limitante, cercando un po' da me nuove possibilità
semiografiche laddove la complessità di un pezzo da eseguire lo richieda".
[11]Il Trio è un brano fortemente sperimentale,
capace di conservare una fortissima carica espressiva, grazie alla simulazione
di lunghi e lenti respiri successivi. Luciano lo considerava uno studio
sull'emissione di fiato, basato sull'espediente di regolare "la pressione
della colonna d'aria in modo che le vibrazioni si frazionino in più parti con
l'incidenza di quest'ultima sulla generazione degli armonici".
[12]Il problema
della probabile retrodatazione di queste opere (per il Terzo Quadro è addirittura indicato il 1969) è stato affrontato da
me e Fels in una intervista pubblicata sul primo numero di KOnSEQUENZ.
[13]Per avere
un'idea della mole di musicisti e artisti coinvolti nel progetto, eccone un
elenco sommario: Stanislao Angeli (contrabbasso); Angela Cantiello (soprano);
Donella Del Monaco (soprano); Emery Cardas (violoncello); Ensemble Nuova Musica
con Luciano Nini (clarinetto), Beniamino Esposito (clarinetto) ed Enzo De
Carolis (sassofono contralto e tenore, performer); Tempo di Percussione,
diretto da Antonio Buonuomo, con Clara Perra, Walter Scotti, Vittorio Buonomo,
Cuono Correra, Romano Molinaro, Gianni Nicotra; Raffaele Evangelista
(clarinetto); Luigi Farina (tromba) Eugenio Fels (pianoforte); Pino Finizio
(fagotto); Mario Giannotti (flauto); Claudio Leonardi (fagotto); Robleto
Merolla (tenore); Gaetano Russo (clarinetto); Marianna Troise (coreografie);
Cynthia Fiumanò (danzatrice); Elena Papulino (danzatrice).
[14]Nella seconda
serata, Cardini eseguirà ancora pezzi di Satie, brani di Cage per pianoforte
preparato, il Piano Piece (1963) di
Morton Feldman, e la Novelletta di
Bussotti/Cardini. I laboratori sulla voce furono firmati da Aldo Sisillo e
Benito Nisticò, quelli per flauti dolci e clarinetti, da Pasquale
[15]Che non sia
azzardato ritenere la data di composizione molto più recente del '78
sembrerebbe provato dal fatto che i Due
studi dagli Inni alla notte di
Novalis vengono presentati nel comunicato stampa come "Due liriche":
Cilio cambiò il nome nel giro di pochi giorni, e questo mi fa pensare che il
brano non fosse poi così lontano nel tempo.
[16]Una 'prima
volta' c'era stata nella Sonata,
lasciata all'immaginazione del pianista; ma Cilio, tra le altre 'epurazioni',
tagliò via la sezione a causa di una sinistra arpeggiata eccessivamente tonale.
[17] Questi i compositori eseguiti la sera del 28
luglio, nell'ordine: N. Castiglioni, L. Berio, P. Renosto, F. Carluccio, S.
Sciarrino, E. Renna, E. Fels,
[18]In Manuale del mancato virtuoso, ESI, 1993.
[19] Ad esempio nella prima rassegna di
Donnaregina, in un articolo a firma Giovanna Ferrara.
[20] Ad esempio Aurelio Musi solo dopo anni ha
corretto il tiro.
[21]Mi riferisco
ad un giornalista, tale Paolo Animato, che in un dibattito pubblico a dieci
anni della morte di Cilio ancora mi chiedeva ironicamente quale fosse
l'importanza della sua opera.
[22]Alludo a un
articolo, a firma Pietro Mazzone,
comparso nel primo numero della nuova rivista "Dove sta Zazà",
diretta da Goffredo Fofi.
[23] Ho notizia anche di un pezzo di De Santis
dedicato a Luciano, e di un'esecuzione di Suiff
voluta da Montagano, il quale gli ha anche dedicato l'opera Evento.
[24]Riferisco
questa 'eredità' a Fels specie per riguarda
l'aspetto pratico ed esecutivo. Le invettive teoriche, e giornalistiche,
invece, sento di condividerle con lui non senza angoscia.
[25]Tutte le date
relative alla produzione di Fels fanno riferimento alla stesura definitiva del
manoscritto. In alcuni casi, il compositore ha eseguito in concerto le sue
musiche con manoscritti provvisori, canovacci, etc.
[26]Desidero anche
ripetere che spazi e attenzione differenti per i vari compositori sono dovuti
alle mie scelte, parzialissime, di musicista.
[27]Si tratta
dell'editoriale del n. 2/94 di KOnSEQUENZ.
[28]La mia
polemica è già rivolta all'autore di Fase
Seconda (Mario Bortolotto), che riporta, tra le altre, quella epigrafe.
[29]Molte di
quelle tematiche sarebbero state oggetto del volume Le parole sospese , ESI 1988.
[30]"Match"
era la rivista/oggetto d'arte 'fabbricata' nata nell' '87. Compare, tra le
altre immagini, qualche annotazione ("La gnosi come tiro a zero. come un
tiro a zero") e qualche simbolo musicale. Nel numero otto è riprodotta una
pagina della partitura visiva, piena di grafismi, con la data del 25 ottobre
[31]Conobbi Cage
dopo uno spettacolo partenopeo. Aveva fatto largo uso di suoni prodotti
all'impronta con microfoni ed oggetti vari. La sua espressione era quella di un
santone, davvero in possesso di qualche misteriosa verità. Era quasi
inevitabile che si scatenasse una certa empatia tra lui ed il suo pubblico.
[32]Non che la
riconoscibilità del linguaggio sia un carattere che attribuisco all'estetica
attuale: qui ci si limita alla descrizione del brano, alla lettura storica e
sociologica.
[33]Lo spettacolo
fu ben recensito da Livio Aragona per Paese Sera, specificando la dedica a
Luciano Cilio.
[34]Alcune parti
dell'operina sono poi state trasferite nello spettacolo "Rotte di
Migrazione", rappresentato al Tetaro Rossini di Pesaro e al festival di
teatro contemporaneo di Polverigi. Altre sezioni di Evento sono state eseguite staccate, come ad esempio alla terza
edizione della rassegna "Ricerca Musicale e Mezzogiorno", organizzata
ad Avellino da Mario Cesa per l'Arci.
[35]Montagano
completa così la mia osservazione: "prendersi - sorprendersi in
controtempo".
[36]Nella
trascrizione del famoso concerto di Koln.
[37]Lavoravo alle Variazioni sul Vento, in cui uso un tema
e un controsoggetto della Vent qui
Chante, Vent qui Danse - Sonata di Fels.
[38]L'
"Omaggio a Sciarrino" si è tenuto il 12 novembre 1994 nella Chiesa S.
Maria delle Grazie di San Leucio. Ho avuto modo, in quella occasione, di
intervistare il compositore, che mi è parso ferocemente inchiavardato sulle sue
convinzioni, mostrando tuttavia una sorta di superiore disponibilità al
colloquio, non esente dal fiero cipiglio degli aristocratici che consentono al
villano di recarsi in pellegrinaggio nella torre più alta del loro castello.
Naturalmente solo per onorarli e inchinarsi ai meriti acquisiti in battaglia...
[39]Il disco
(edizione ABICI srl, Napoli, fuori commercio) contiene un Concertante per cinque fiati e orchestra d'archi (solisti Masi,
Sisillo, Martini, Panebianco, Marini; direttore
[40]Gorli è uno
dei pochi allievi di Donatoni ad interessarmi, soprattutto per un breve e
rarefatto Requiem; nel 1991, dopo
averlo contattato, consigliai l'inserimento della sua terza Novelletta, suonata da Alexander
Lonquich in un compact collettaneo pubblicato da Pagano. Gorli, purtroppo, mandò come registrazione
definitiva tutte e tre le Novellette
nell'esecuzione di Maria Grazia Bellocchio.
[41]Si tratta
della generazione precedente: De Bellis, da noi già citato, nacque nel 1907 e
morì nell' '82; fu allievo di Daniele Napolitano a Napoli, e scrisse
soprattutto opere teatrali.
[42]Mario Pilati
(1903-1938) pur essendo nato a Napoli orbitò nell'area di Pizzetti per aver
insegnato a lungo a Milano, dove quest'ultimo era direttore. Cominciò a
scrivere intorno al 1921; la Suite eseguita
a Napoli è del 1923, anno in cui compose anche un Notturno per orchestra. E' invece del 1926 la Sonata per
flauto e piano (recentemente incisa per Nuova Era da Mario Carbotta e Roberto
Cognazzo), che vinse il concorso Coolidge bandito dall'Associazione Scarlatti.
Fu eseguita anche al Conservatorio nel 1931, da Marcel Moyse e Alfredo Casella.
La scrittura di Pilati resta un po' di maniera, ridondante nelle invenzioni
melodiche e simmetrica in eccesso.
[43]Nella stagione
1986-'87, per l'Accademia Musicale Napoletana, si era già eseguito il Pròteo di Lombardi per quattro
pianoforti, voce di Joice, altra voce recitante e video-tape. Oltre a
[44]Ad esempio nel
'
Devo segnalare
anche la Missa 'Deus Meus' di
Altre prime
esecuzioni di quegli anni (tra il 1985 e il 1987), sporadiche rispetto a quelle
di Torino, Roma, Milano..., non tutte
cittadine, e per varie associazioni minori, sono quelle che riporto di seguito:
Miniature di Elisabetta Brusa; Aria e Berceuse di Otello Calbi; Entrebois
e Solo di Gabriella Cecchi; Liebeslied di Raffaele Cecconi; Tre pagine da Amor Vacui di Ettore
Contini; Concerto per pianoforte solo
di Aurelio Giordano; 3X2+2 di
E' invece del
1988 il "I Festival Italiano di Ragtime", svoltosi all'Auditorium del
castel Sant' Elmo. Lo cito perché in programma figurano tre concerti, di Marco
Fumo (presenta anche una composizione di Mario Cesa, Moduli Rag), Cesare Poggi e Antonio Ballista. Il 16 novembre del
'90, allo Studio Morra,
[45]Chi ha
dimestichezza con i libri di Carlos Castaneda, metà antropologo, metà
narratore, riconoscerà nei titoli de Il
cerchio del Tonal, le suggestioni
mescaliniche di quell'autore.
[46]E' un brano
scritto nel 1964 che gioca molto con le dinamiche, con valori e tempi
irregolari. Gli stratagemmi tecnici e strumentali richiamano molto l'Hindemith
del Ludus Tonalis (Interludio IV),
con qualche allusione schoenberghiana. Il Preludio
resta tuttavia confinato in ambito 'sperimentale'.
[47]Non posso fare
a meno di menzionare, almeno, una serata dedicata a Bastianelli e Savinio, con
l'intervento artistico di Davide Carnevale (Davic).
[48]Questa
intuizione culminerà nella manifestazione epocale "Napoli - Studi
aperti", con la partecipazione di quasi cinquanta artisti che apriranno i
loro atelier di pittura (è il 30 novembre 1987).
[49] Vittorio aveva studiato pianoforte con Fels e
per un breve periodo anche con me.
[50]Antonello
Paliotti mi ha regalato copia della registrazione inedita: è un lavoro
bellissimo, che presenta rivisitazioni, sempre gradevolissime, di brani noti o
ignoti (Stravinskij, Gismonti, Satie, Paliotti, etc). Il titolo, forse non
indovinatissimo, è Ma tu, se venisse un signore
e ti desse diecimila lire, lo faresti il bagno? Si tratta di tredici
tracce, interpolate con frasi celebri o inedite di grandi uomini e donne della
cultura internazionale (Grazia Deledda: "Il filosofo ammonisce: se tuo
figlio scrive versi mandalo per la strada dei monti; se lo trovi nella poesia
per la seconda volta puniscilo ancora. Se va per la terza volta, lascialo in
pace, perché è un poeta"). E con le previsioni dei moti ondosi scandite
alla radio con lentezza inesorabile (altro che Cage!).
[51]Di quella
rassegna, ospitata dal Teatro Diana tra Maggio e Giugno 1988, resta un
meraviglioso catalogo (riproduce anche alcune partiture). Questi gli artisti
coinvolti: Roberto Gatto, Rita Marcotulli, Massimo Bottini, Battista Lena,
Franco D'Andrea, Tino Tracanna, Attilio Zanchi, Gianni Cazzola, Luis Agudo,
Riccardo Bianchi, Marco Micheli, Christian Meyer, Maria Pia De Vito, Enrico
Pieranunzi, Enzo Pietropaoli, Fabrizio Sferra, Franco De Crescenzo, Aldo
Farias, Umberto Guarino, Daniele Sepe,
[52]In quella
stessa collana ("Nugae", edita da Pagano) erano pubblicati brani di
Claudio José Boncompagni (Presenze per
clarinetto e pianoforte), Antonello Cannavale (Fragments per voce e pianoforte), Nicola Schiavo (Tema e Variazione per flauto solo),
Glauco Cataldo (Vestigia Flammae, per
pianoforte), Pietro Cece (Insomnia,
per percussioni), Alessandro Abbate (Preludio
per pianoforte), e naturalmente miei (Variazioni
sul Vento per pianoforte; V.I.T.R.I.O.L.U.M.,
per pianoforte). Ben presto, tuttavia, appena mi resi conto di non avere alcuna
reale possibilità di indirizzo, abbandonai la direzione di questa e di altre
collane e smisi di collaborare con quell'editore.
[53]Come è noto,
ciascun accordo di quarta di tre suoni può 'risolvere' almeno in tre modi
diversi. Altre caratteristiche interessanti, reperibili peraltro in qualsiasi
manuale, fanno sì che essi, pur essendo meno dissonanti, se usati in
successione mantengano meglio la sospensione
armonica. Quando invece vengono 'risolti' (visto che comunque è possibile
ricondurli entro un'area' armonica), vanno a finire su accordi che conservano
una certa apertura tra le voci. Anche Schoenberg, pur assegnando la stessa
funzione ad accordi che potremmo definire convenzionali (triadi aumentate,
settime diminuite in successione, etc.) riconosce alle quarte il carattere di
"armonia vagante".
[54]"Progetto
Flegreo" si è costituita nel marzo del '93 e da allora opera con grande
efficacia per la valorizzazione culturale, territoriale ed ecologica della zona
flegrea.
[55]La
manifestazione fu voluta dalle Sovrintendenze e dal "Mattino", che
però tacque o fu impreciso su molte delle manifestazioni.
[56]Le
'apparizioni' erano realizzate da Pina Testa, Carla Savastano, Marialuisa
Camaioni e Rossella Pollice. Fanina e Fels riproporranno con successo, il 16
aprile del '94, e sempre per "Progetto Flegreo", lo spettacolo
"Satie Opera" che aveva avuto la prima assoluta al Café Einstein di
Berlino.
[57]Fels è un
ottimo trascrittore, tanto da essere contattato più volte dal musicologo Artuh
Schanz. In catalogo ha, tra l'altro: da Bach, l'ultimo contrappunto dall' Arte della fuga, naturalmente completato
(1974); il Preludio-corale BWV 742
(1973); e inoltre: BourrèeBWV 1002
(1973); Fantasia cromatica e fuga BWV
903 (1974); Preludio e fuga BWV 549
(1984); Passacaglia BWV 582 (1990); Sarabanda e double BWV 1002 (1990); Toccata e fuga BWV
[58]Il 28-1-'94;
il 19 e 20 febbraio 1994.
[59]Il termine è
per metà inventato. Dalle note di presentazione: "Alkèmia vuole portarti
in un luogo particolare dove leggende e miti si mescolano ad una realtà ancora
più misteriosa e magica. In un luogo dove la natura ha ammaliato i Cimmeri, i
Greci, i Romani, le sibille, i poeti di tutti i tempi. Là dove nell'aria ci
sono ancora gli odori dello zolfo, e se si guarda attentamente il mare, pare
quasi scorgervi delle sirene. E' tra queste sensazioni che nasce la suite,
accompagnando lo spettatore attraverso le tenebre degli inferi (terra), i
misteri della magia dei miti e dei responsi della Sibilla (aria), attraverso il
fuoco, vulcanico e metaforico (fuoco), fino a giungere alla fine di un percorso
iniziatico, al mare ch'è il nostro mare, il Mediterraneo (acqua)".
[60] Enrico Grieco, come artista multimediale, si
interessa al rapporto tra immagine e suono, cercando di
"improvvisare" con le immagini
così come un jazzista farebbe coi suoni.
I primi esperimenti risalgono al 1970, ma la storia è proseguita con diverse
sperimentazioni: "Katia" (1984-86, solo immagini), "Vesuvio
Suite" (1989-91, con chitarra e batteria), "Jam Session" (1992,
con tamburo e sculture), "Senza titolo" (1992, con chitarra e
percussioni), "Ploff visivo" (con suoni di Luc Ferrari), "Incongruenze"
(1993, con pianoforte). Più recentemente ha utilizzato musica dei Pink Floyd e
di Keith Jarret. Con "A suddd di Paperone" è intervenuto con immagini
miscelate a dialogo, musica, movimento.
[61] Questo il curriculum
ufficiale: “Franco Pezzullo, dopo una brillante carriera come solista e come
membro di complessi da camera si dedica prevalentemente alla composizione e
alla direzione. Grazie a Franco Pezzullo si sta avendo in Italia una rinascita
degli strumenti a fiato che non hanno nel nostro paese una salda tradizione
musicale e che invece egli sta cercando di costruire con la sua attività di
compositore, direttore artistico e didatta. Fondata dal suo Direttore, Franco
Pezzullo, la Kammermusik di Napoli riunisce alcuni dei migliori solisti
d’Italia. Il suo repertorio, molto vasto, comprende sia opere di musicisti
contemporanei che quelle dei maestri classici. Le sue esecuzioni sono
caratterizzate dalla loro nitidezza, dalla loro vivacità e dalla freschezza
delle tinte, la stessa freschezza che un critico italiano riscontrava nel
compositore che è anche Franco Pezzullo.” Pezzullo avrebbe firmato una colonna
sonora, per El ultimo dìa de la guerra (1968), regia di J. A. Bardem; ha
effettuato registrazioni per la RAI, RAI RECORDINGS 1971/1973, per la quale ha
inciso come clarinettista insieme a Sergio Fiorentino, con opere di Brahms,
D'Indy, De Bellis (la Sonatine per clarinetto e piano), Glinka, Weber. Come
Direttore della Kammermusik (già “Insieme di Firenze” fino al 1986) ha inciso
per la MGA 2002 brani di Dvorak, Bondon, Strauss.
[62]Come indica
anche Harry Halbreich, Giacinto Scelsi aveva l'abitudine di improvvisare al
pianoforte le sue composizioni, chiedendo soltanto in un secondo momento ad un
copista-compositore di trascriverle per gli organici da lui prescelti, e poi
lavorandole a lungo con i singoli esecutori, come testimonia anche il contrabbassista Stefano
Scodanibbio ("Una volta lui desiderava da me un suono rotondo, io passai
mesi a scervellarmi per dare un'idea, per dare corpo a questo suono rotondo,
non lineare, ma sferico, che quindi ritorna su se stesso"; inoltre, dice
Halbreich, che per Scelsi "ogni nota è un suono, e cioè non semplicemente
un punto, ma una sfera dotata di dimensione, profondità, volume"). Questa
abitudine fece in modo che alla sua morte diversi copisti si facessero avanti
dichiarando la paternità di opere. Il suo lavoro, tuttavia, oltre ad essere
stato riabilitato in sede mondiale con un autorevole intervento di Zoltan Pesko
sulla rivista dell'IRCAM, risulta essere di una tale unitarietà poetica e
formale da escludere un'improvvisa convergenza,
ai limiti del paranormale, tra compositori diversi.
[63] Naturalmente partecipai senza percepire alcun
compenso, e soggiornando sull'isola a mie spese.
[64]Il corso
culminava in una deprecabile rassegna al Denza. Si trattava dei "Concerti
finali" dell'anno accademico 1990, per i corsi tenuti dall'Associazione
Musica Insieme (presidenza di Giovanna Peduto, direzione artistica di Carmelo
Columbro, coordinamento didattico di Enrico Massa). Svolti nel teatro
dell'Istituto Denza l'otto e il nove dicembre del '90, ospitavano i seguenti
compositori, in ordine di esecuzione: Pierfrancesco Forlenza (Thunderball per pf.); Luigi D'Arienzo (Schizzo per clarinetto e clarinetto
basso); Dario Candela (Endecaritmo,
per pf); Enzo Amato (Colors, per
chitarra);
[65]"Il primo
pezzo compiuto con Donatoni è Specchi. E'
stato nell' '89. Eravamo a Salerno con Nino Panariello ed altri, e disse: 'ah,
finalmente è venuta primavera'. Finalmente avevamo preso una strada nostra.
Così, quello è un mio pezzo chiave.".
[66] Si veda, per la portata estetica del plagio,
la sua validità e importanza per la musica contemporanea, il mio saggio Estetiche del plagio, pubblicato su KOnSEQUENZ n1/1995
[67]"Ho
vissuto una vita artistica piuttosto varia: ho suonato musica popolare, ho
fatto l'attore, eccetera. Il primo atto ufficiale da compositore è
l'arrangiamento di un intero spettacolo fatto per un gruppo popolare. Ci sono
cose scritte per i filodrammatici, con Franco Pennasilico, e altro ancora...".
[68]Anche Carlo
ritiene che questo brano sia particolarmente riuscito. In una intervista,
inedita, dice: "feci il ragtime in modo tradizionale. Scritto senza
nessuna pretesa, è diventato uno dei
miei pezzi più rappresentativi"
[69]Tutto sommato,
'armonia' vuol dire 'connessione'. Se una connessione è stata data,
storicamente, anche dalla sequenza (finalizzata) di accordi, o addirittura di
semplici suoni, è poi prevalso il principio della 'verticalità' o, per dire
meglio, della 'simultaneità' dei suoni. Ora, c'è da chiedersi se qualsiasi simultaneità (anche se una
effettiva simultaneità può essere solo simulata in esecuzioni umane) possa
definirsi 'armonia', o se il termine non si carichi di ulteriori significati.
Dal punto di vista filosofico, per armonia s'è intesa una combinazione di
elementi diversi; combinazione, però, 'organica' e 'felice', ovvero portata a
buon esito, ad un 'medesimo effetto d'insieme' (le espressioni sono mutuate dal
Lalande). Pertanto, può parlarsi di armonia laddove nell'accordo siano presenti
suoni simultanei che contengano una qualità, i quali ad uno stadio minimo deve
generare almeno un 'medesimo' effetto. I singoli suoni di un accordo non contengono questa direzionalità, a meno che
essi non vengano iscritti in un sistema di memorie consolidato, come la
modalità o la tonalità (e nel caso di musiche con differenti suddivisioni
dell'ottava assumano la direzionalità loro propria). Più accordi possono
acquisire certo una direzione, una relazione tra diversi suoni o
interconnessione reciproca creando relazioni strutturate o organizzate fra di
loro. Ma si può dire che quando i suoni simultanei assumono 'qualsiasi' direzione, seguendo 'qualunque' organizzazione, essi esprimano
un'armonia? Per un ben noto principio di logica, se qualsiasi organizzazione è armonia, nessuna lo è davvero. In tutta evidenza, quindi, per semplificare
il discorso e non depistare il lettore, per 'armonia' intenderò la scienza
codificata degli accordi, che nel nostro sistema è tonale. Naturalmente resta
possibile riferirsi ad 'armonie' codificate anche in assenza del riconoscimento
di una specifica tonalità, come ad esempio nel caso delle 'armonie' di quarte
sovrapposte. In conclusione, 'armonia' implicherà connessione non nel senso più
elementare di 'simultaneità' verticale, ma in quello stratigrafato di
'predisposizione di senso' di ciascun suono, dove 'senso' esprime sempre un
carattere di movimento, direzione.
[70]Da alcune
annotazioni di Massa: "Il pendolo è la misura del tempo, il pozzo è il
serbatoio della memoria. Il moto del pendolo definisce lo spazio di un vissuto
sonoro primo; il suo moto è accelerato verso il centro e lento agli estremi,
armonicamente e gestualmente speculare al centro temporale, e ciò è
graficamente evidente; il tempo-spazio iniziale definito dal pendolo viene
sezionato dalla memoria in cinque ricordi che, rivissuti, subiscono
l'inevitabile trasfigurazione".
[71]Una
trattazione più dettagliata sulle musiche del mondo può essere reperita in un
mio lungo articolo pubblicato su CDclassica, febbraio '95.
[72]Mi riferisco
ad un concerto per "Mediterraneomusica" tenuto l'anno scorso a
Ravello, e che ho avuto occasione di ascoltare e recensire. Si andava dalle
altezze arcaiche di un Epitaffio greco a Gesualdo Da Venosa (naturalmente
contaminato con un'Ave Maria Sarda del tredicesimo secolo e una lettera ai
feudatari del millesettecento), da Tacito al rap, dalle manfredine agli sfottò
berlusconiani. Grande efficacia scenica e spettacolare.
[73]Tuttavia,
[74]E' stato
allievo, per il pianoforte, di Luigi Averna, ed ha partecipato alle
"vacanze musicali" dell' '81 con Vincenzo Vitale: è nota la mia
idiosincrasia per le modalità esecutive di quella scuola.
[75]Contra, si legga l'utilissimo volume di Middleton Studiare
[76]Riferendomi ad
una conferenza tenuta per Dissonanzen da Arturo Martone, davo il seguente resoconto: " Martone si è ricondotto all'opposizione
adorniana tra ordine e caos, e al significato, all' 'invenzione di senso', che è possibile
conferire ad un'opera scritta in un momento storico di alienazione. Infatti, in Minima moralia, i riferimenti
all'entropia ed al caos sono continui, e nell'incompiuta Teoria
estetica la trattazione dell'
'ideale del nero' trova spazi considerevoli. Quindi in Adorno sembrano
convivere due esigenze diverse; da un lato, la consapevolezza che l'unico
contenuto ancora possibile per l'arte è nell'istante negativo (nel senso di una
dialettica negativa): essa rifiuta una definizione, è parzialmente svelata
dalla sua legge di movimento, ed il suo contenuto è identico alla sua legge
formale. Ma per Adorno è anche possibile un superamento della hegeliana morte
dell'arte nel fatto che nell'opera esiste
una 'qualità', che risiede nell'arte quando essa diventa spirito
attraverso le sue configurazioni. In
questo senso, allora, l'idea di
un'opera che sia tale soltanto per ciò
che di nuovo riesce a dire, non ci sembra riconducibile a Schoenberg. Infatti,
nel Manuale di armonia campeggia la frase: 'Al suo più alto livello
l'arte si occupa solo di riprodurre la natura interiore'. La 'novità'
resterebbe anche per l'inventore della dodecafonia un semplice corollario: e
ciò ci sembra importante per cercare altrove quel 'senso' in fondo auspicato da
Martone e dai curatori di 'Dissonanzen'".
Questo 'senso'
veniva poi riduttivamente riscoperto, come detto, in categorie superate.
[77]Vitali rifiutò
sdegnosamente: troppo lontana la musica viva dalla rigidità assiomatica dei
neoviennesi.
[78]Con
meraviglia, leggendo il programma, scopro che la rassegna è curata "(...)
con la partecipazione di
[79]Federico è
nato a Genova nel '61, anche se opera a Napoli da parecchio tempo. E' stato
fondamentale, per la sua formazione, l'incontro con Mengelberg. Ha fondato
"L'Ottetto", gruppo di improvvisazione, e "Contrarco",
ensemble specializzato in musica contemporanea. Ha scritto molto per il teatro.
[80]Mi pare
evidente ed acquisito che l'aspetto sociologico e politico non debba più essere
mescolato con il giudizio di valore estetico.
[81]Quello della
vesuwave è un problema complesso; vorrei però almeno segnalare che qualora se
ne scrivesse la storia non sarebbe possibile
ignorare la densissima attività (sociale ed estetica) dei gruppi operai.