GIROLAMO DE SIMONE

LASCIATE I PIANISTI NELLE GABBIE

 

Napoli 1993, Edizioni Scientifiche Italiane

 

 Nella prassi esecutiva s'ergono, a mo' di paladini del segno, quanti risultano incapaci di leggere oltre di esso, e di penetrare con la propria sensibilità una scrittura che è di per sé ermetica. Questi semplici esecutori ritengono di trasmettere una  metaverità musicale: l'idea originale del compositore, o quella che più vi s'avvicina. Ne risultano esecuzioni, e non interpretazioni; mere letture del testo, non mediazioni da interprete; strumentalismo della tecnica e del meccanismo, e non cultura musicale.    Tutti i colori, i crescendo,  vengono rigorosamente rispettati, anche quando palesemente privi di senso. Spesso ci si dà un'unica scansione ritmica, dimezzando o moltiplicando i valori rispetto alla velocità complessiva del brano. Qualcuno addirittura razionalizza le corone, considerandole ben eseguite soltanto quando abbiano un valore multiplo  di quello di partenza. Si eguaglia il suono delle due mani, facendo in modo che qualsiasi particolare insignificante sia posto in   evidenza  con  chiarezza, scandendo anche una sinistra che svolga una mera funzione di accompagnamento  (se si pensa al presupposto di partenza  sembrerà conseguenziale: la prevalenza del segno conduce ad esasperare la funzione della nota in quanto tale: essa è presa in sé stessa  prescindendo da un progetto musicale complessivo).

   Chi si arrischia a formulare esperimenti di sonorità, sia ripescando vecchie esecuzioni del passato, sia rivisitando incisioni su rullo, viene tacciato di mancata professionalità  e di dilettantismo, quasi che la volontaria omissione o inversione di coloriti  rappresenti una carenza tecnica o una mancanza di adeguata formazione musicale.

   Ma tracciamo un profilo più dettagliato di queste opposte figure, dell'esecutore e dell'interprete, non dimenticando però che si tratta di una generalizzazione teorica, e che questa categorie si presentano raramente immutate nella realtà musicale, in casi veramente patologici.

   ESECUTORE : esasperazione delle soluzioni di tipo ritmico. Virtuosismo. Versatilità intesa come eguaglianza nell'esecuzione di generi diversi. Generica preferenza di brani già compresi nel repertorio classico e conseguente esclusione dei brani contemporanei. Difficoltà nell'insegnamento (consiglia in genere molte ore di studio). Concede molti concerti poco memorabili. Con l'età o cambia carattere e diventa un musicista o perde l'agilità delle dita e conseguentemente decade del tutto. Opera secondo categorie musicali rigide e delimitate.E' legato agli ambienti tradizionali ed accompagna atteggiamenti da gran virtuoso ad uno snobismo sfrenato. E' tipico l'esempio del vecchio maestro che fonda un'associazione musicale la quale costituisce l'  hortus conclusus, dove far suonare gli allievi.  Questi   concerti    in genere sono   assiduamente frequentati dalle anziane signore-bene, che non perdono occasione per sfoggiare perline, nastri, acconciature ed una straordinaria ignoranza musicale. Il vecchio maestro gestisce un micropotere locale fondato sul  filo intrecciato di concerti, conservatorio, lezioni private. La disponibilità e la possibilità di facilitare gli esami in conservatorio degli ormai innumerevoli privatisti (quando non degli stessi allievi interni costretti per superare un esame difficile a prendere delle lezioni 'supplementari' a domicilio), la facoltà di procurare concerti pubblici fondano il dominio di questi vuoti bozzoli di crisalide, dal brillante passato di virtuosi e dal vibrante presente da accattoni.

   INTERPRETE: è fondamentalmente un musicista, e già questo basterebbe a connotarne i caratteri. Non opera distinzioni di valore tra i generi musicali perché ama tutta la musica, e non soltanto quella cosiddetta 'grande', e che gli consente una fallace immedesimazione. Egli non è preoccupato di sentirsi il migliore: ciascuno è, in arte, il migliore. Ama la produzione contemporanea, se non mera speculazione, perché attesta la vitalità dell'arte. E' capace di improvvisare, e riconosce l'importanza di questa pratica. Spesso è anche compositore e filosofo dell'arte. Tiene pochi concerti sempre memorabili, perché dalle sue interpretazioni traspare tensione, dinamismo, dialettica. Ama il suo strumento, ma ama di più la musica: per questo il pianoforte è per lui soltanto 'strumentale', non rappresenta il fine in sé. Aderisce alle idee più moderne, e le sue esecuzioni, le sue composizioni, le sue idee generano contrasti: amori spassionati oppure odii sfrenati, come sempre nella storia della musica. Accetta le più  avanzate tecnologie ma non se ne lascia sedurre, convinto della prevalenza dell'uomo e dell'arte sulla macchina. Preferisce incisioni LIVE a quelle in studio, ma quando è costretto a queste ultime esegue i brani uno dopo l'altro senza consentire   nessun accorgimento tecnico. Cerca di non gestire potere, ma se non può rifiutarlo lascia aperture a chi la pensa diversamente, senza preclusioni arbitrarie.

 

 

 

 

   Questa bipartizione  non pretende certo d'essere esaustiva, o di coprire tutte le sfumature possibili, ma in questo contesto è comoda per chiarire i diversi modi  di riproduzione di un brano musicale.

   Dal momento che la musica abbisogna della mediazione di un terzo, quest'ultimo potrà essere un semplice e mediocre esecutore o un grande interprete in relazione al maggior o minor grado di partecipazione presente nelle sue esecuzioni. Più egli darà un'impronta caratteristica e assolutamente inconfondibile  al brano, -più sarà riconoscibile, ed il suo Bach e Chopin saranno ricercati per il loro essere sé medesimi ed insieme per la peculiarità dell'interpretazione.

   Occorre precisare  che non ha rilievo  la posizione del grande interprete che ritenga di riprodurre fedelmente e testualmente i brani che suona. Questa convinzione, infatti, corrisponde a una visione personale, che può o meno essere condivisa da tutti; anzi, anche l'interpretazione più vicina al testo, che rasenta quindi una lettura anatocistica dello spartito, conserva un alcunché di riconoscibile che può qualificare e caratterizzare il grande interprete (rectius: quel grande interprete che riesca ad esprimere un alcunché con una lettura  così restrittiva).

   Questa necessità di una mediazione,  l' ineluttabile presenza di un intermediario tra fruitore ed opera (il semplice fruitore, giacché anche il pianista è prima di ogni altro un fruitore), allontana  quest'ultima  da un ideale di perfezione e di assoluta, statica e statuaria bellezza. Non si può ancora contemplare una fuga di Bach come se si trattasse di un quadro o di una statua; se ne potrà forse ammirare la forma,    o addirittura   definire la struttura e goderne  visivamente  (come negli spartiti di musica contemporanea, che spesso però soddisfano soltanto la vista).

    Questa lontananza dall'idea, che pur è prossima alla musica in altro senso, la trasforma in un'arte straordinariamente plastica e nel contempo pericolosamente instabile, potendosi dare  o togliere nitore ai suoi  capolavori soltanto cambiando interprete. Ma essa è meno qualificabile come arte per questa ragione? Il fatto è che si è abituati a concepire l'Idea come una potenza statica, e non già plastica, privandola di un carattere che non può non possedere: l'adattabilità, la capacità di modificarsi, o per meglio dire di automodificarsi operando su se stessa quando ne sia il caso (quasi  autoreferenzialità).  Per quale ragione l'Idea non potrebbe infatti piegarsi su sé stessa uscendo dal sistema dato e riferendosi ad altro da sé medesima?

   Ma non occorre ricorrere a concetti così generici ed improduttivi (perché indimostrabili) per dare autorità e dignità ideale alla musica, pur  se  essa  si  compiace  della  plasticità,del- l'effimero, dei colori tenui e delicati simili alle ali trasparenti  di una Haetera  Esmeralda.  Una fuga di Bach rinnova  pur sempre sublimi sensazioni  nel suo esecutore, ad un livello differente rispetto alle altre opere d'arte, agli occhi di chi pur le ama. Semmai la noia per un brano sarà scontata in chi ascolti sempre la solita incisione, ma non certo in chi frequentando musicisti riascolti in 'serate di musica da camera' opere sempre diverse da sé (e ciò purtroppo accade sempre meno nelle sale da concerto).

   La necessità di una mediazione tra opera e fruitore implica la varietà delle interpretazioni possibili a darsi. Criteri diversi informano queste interpretazioni, dando luogo, talvolta, a vere e proprie scuole del gusto, dove l'unica cosa che resta ad accomunare le idee più varie e lontane tra loro è soltanto il segno, proprio l'ermetico simbolo musicale.

 

 

LA MEMORIA

 

   Una  delle consuetudini diffuse tra i pianisti e, in genere, i solisti di spicco (i cosiddetti virtuosi) consiste nella prassi di eseguire i brani a memoria. Le motivazioni di questa nuova (ma non tanto nuova, considerando il fatto che si è diffusa da Liszt in poi) abitudine sono sostanzialmente due: la maggior capacità  di concentrare selettivamente l'attenzione, e il fatto che ritenendo il maggior numero possibile di brani si sviluppa una  forma mentis   che già costituisce un abito culturale, conferendo un dominio assoluto non soltanto sul brano in sé quanto sulla relazione intercorrente tra quest'ultimo e l'intero universo culturale che rappresenta. Questa seconda osservazione sfugge però alla maggior parte degli interpreti, che afferma di eseguire a memoria per "avere tutto nella mente", e per meglio padroneggiare le difficoltà tecniche ed interpretative.

   Tutto quindi sembrerebbe rigorosamente logico, considerando che in effetti certi grandissimi  interpreti eseguono l'intero loro repertorio a memoria, eccezion fatta per i brani di mu-sica da camera e, talvolta, le integrali.  Le loro incisioni ed i loro concerti dal vivo sono proprio come dovrebbero essere, e né la musica né loro stessi sembrano soffrirne: il rapporto con il testo mandato a memoria è risolto in modo non traumatico.

   Non ci si porrà pertanto il problema della liceità categorica e assoluta delle esecuzioni a memoria, se tale regola sia cioè estendibile a ciascun autore, o se esistano compositori che prevedono la visione del testo in ogni istante dell'esecuzione, o che non abbiano per nulla ipotizzato la possibilità di far eseguire a memoria le loro opere: si  esaspererebbe altrimenti il criterio filologico, già  di per sé criticabilissimo.

   Né ci si porrà di fronte a categorie assolute, considerando e rappresentando il valore conchiuso della musica quale idea, o la degenerazione  di questo valore, per la pratica concertistica derivata dal virtuosismo come sistema (presente anche in brani dal carattere intimistico: virtuosismo della mente; ed anche nei casi in cui ritenere a memoria sia stato affatto naturale,  dal  momento che  il pianista è stato 'programmato' in anni di faticoso apprendistato).

   Viceversa, il problema sarà affrontato partendo da un punto di vista negativo:  posto come assioma il valore musicale della memoria, e l'eccellenza di questo valore musicale, accettando cioé senza riserve l'attuale pratica convenzionale, si dovrà per questo discriminare e considerare deplorevoli tutte le  esecuzioni  basate invece sulla lettura dello spartito? In tal caso le esecuzioni di brani contemporanei, di musica da camera, delle integrali comprendenti anche pezzi minori e fuori dal repertorio sarebbero di  qualità inferiore? Anche le esecuzioni su strumenti per i quali non è necessaria (necessaria alla convenzione) la memoria (è il caso dell'organo) resterebbero ad un gradino al di sotto, mancherebbero di quelle caratteristiche (concentrazione, interrelazione culturale) proprie delle altre? E le esecuzioni di grandi pianisti che leggono? tutti sanno che esistono, ma vengono considerate semplici eccezioni alla regola, se non addirittura associate alla senilità o ad una scelta esecutiva di bassa lega.

   Nei conservatori  e nei concorsi pianistici  chi legge viene penalizzato, valutando l'abilità, l'arte, la sensibilità musicale dei candidati sulla base di un pregiudizio convenzionale. Pare quasi che sia la memoria a fare il concertista, e non la musicalità, l'estro, l'inventiva: possibili in misura maggiore quando si legge, giacché le mani  seguono movimenti del pensiero e non trame meccaniche dal percorso obbligatorio, a senso unico. Ciò non significa certo che la possibilità di variare volta per volta le proprie esecuzioni  non  sussista anche per chi esegue a memoria: ma si tratta di poche, grandi eccezioni. La maggioranza dei concertisti, quando esegue a memoria, presenta  ed offre una esecuzione inscatolata e confezionata, dove lo spostamento di un solo accento può far traballare tutta l'impalcatura.

   La letteratura cameristica può essere eseguita leggendo. Ciò significa che questa produzione è di minor valore rispetto a quella solistica? Si può forse ritenere di no, considerato il fatto che ai compositori non è mai venuto in mente di privilegiare i brani dedicati ad un solo strumento.  Se ciò avviene oggi, ciò è dovuto ad una deformazione dei valori, che ci porta a pensare che  altro  sia  un  concerto  per pianoforte  solo e altro un concerto per trio o per duo pianistico: cosa che esprime ancora una volta il malcostume mentale che deriva dall'idea di virtuosismo.  Tant'è che a pianisti con qualche carenza tecnica e a quelli che preferiscono leggere si consiglia abitualmente di dedicarsi alla musica da camera, come panacea, senza considerare che occorrono invece doti anche maggiori rispetto al solismo: si devono rendere isocroni gli attacchi, scegliere diversi amalgami sonori. Non è affatto più semplice la musica da camera, ed i compositori lo hanno semmai dimostrato, privilegiandola proprio per la minor rilevanza  ed i minori arbitrii consentiti ai pianisti, che devastano la musica per il virtuosismo. E' nella strabiliante abilità di questi ragionieri della tastiera e dell'arco, abituati a far di conto nelle ore ed ore di studio che risiede il maggior problema della memoria. Essi infatti raggiungono la perfezione, e non intendono abbandonarla affidandosi all'estro estemporaneo, alla creatività del momento, giacché la loro maggior virtù è il controllo delle possibili varianti, che evitano accuratamente.

   Essi mostrano tanta perfezione, tanta pulizia, tanto essere-così-come-deve-essere che non c'è spazio per null'altro, nemmeno per la musica.

   Anche la produzione contemporanea può essere eseguita leggendo, e non certo per la difficoltà di decodificazione: brani di Albeniz, Franck, Strawinskij sono dalla lettura parimenti complessa, eppure vengono eseguiti a memoria.

   In realtà questi brani non vengono memorizzati perché "non ne vale la pena"; non si tratta, a giudizio della maggior parte degli esecutori, di composizioni dal sicuro valore musicale, interpretate perché vi si crede, ma di  merci usate per suonare nelle varie piccole rassegne locali, dove ogni compositore d'avanguardia coltiva il proprio orticello con i fans del vicino circolo dopolavoro.

   Sarebbe uno spreco di energie mandare a mente un brano che non "fa repertorio", che non piace, che sarà eseguito una o due volte in tutta la propria carriera.

   Nella maggior parte dei casi l'interprete ha ragione: molte composizioni  contemporanee non  hanno nemmeno in piccola parte quel valore universale posseduto invece da altri  brani inseriti stabilmente in repertorio. Ma questo è un problema che riguarda i compositori, e che è stato già trattato altrove. Inoltre, nel generale caos dell'avanguardia (dell'avanguardia ormai storicizzata) e della speculazione che se ne fa, talvolta si possono individuare composizioni di un certo valore. E' in questi casi che l'interprete ha torto, perché accomuna semplicisticamente produzioni diverse.

   Ed ecco che fa capolino tra le righe quest'altra idea, cui va imputata la restante parte di colpa: quella di repertorio.  Piero Rattalino ne ha trattato  in più luoghi della sua opera, alla quale si rimanda.  Ci si limiterà ad osservare come nelle sale da concerto si possa ormai ascoltare  quasi esclusivamente brani già noti e consolidati dal tempo, cosiddetti banchi di prova per virtuosi. E' per questo che musicisti come Eugenio Fels auspicano dieci anni di silenzio (di pubblico silenzio) per questi logori capolavori.

   Concludendo:

1. Se fosse obiettivamente meglio ai fini della musica l'esecuzione a memoria non si capisce per quale ragione, anche con difficoltà  inenarrabili, questa prassi non debba essere seguita anche dai complessi cameristici più numerosi, o dai solisti di un coro, dai coristi, dagli organisti, da chi esegue integrali, da chi è specializzato in musica contemporanea. Quando poi perfino i pianisti jazz spesso pongono schemi  e canovacci davanti a sé.

2. La sensibilità musicale è contenuta dall' emotività. L'esecuzione a memoria prevede la freddezza di nervi  ed il pieno autocontrollo: un sangue troppo freddo per esprimere i sacrosanti deliri dell'anima, necessari alla sopravvivenza dell'arte.

3.  Se  la memoria può accettarsi in casi straordinari, va dunque preferito lo spartito. Chi ne fa uso potrà forse essere meno virtuoso (e non è il caso di Richter), o meno strumentista di chi esegue a memoria, ma sarà più musicale, e le sue interpretazioni saranno più vive, emotivamente pregnanti. E se è vero che oggi mancano musicisti, mentre si hanno virtuosi in abbondanza, non ci si potrà che augurare una nuova generazione in grado di rivaleggiare con le attuali tecnologie non  per quello in cui queste ultime primeggiano, ma per quello che mai  saranno in grado di offrire: la continua "uscita dal sistema", l'emozione dell'improvvisazione, di brani mai eguali a sé medesimi, il sapore di interpretazioni vive.   BAMBINETTE

 

   Le bambinette-prodigio che ascoltiamo suonare in televisione, vincitrici di concorso, geni di  sicura futura fama, potrebbero essere  nonostante tutto abbastanza simpatiche se lo sfruttamento perpretato ai loro danni da mamme gaudiose stile Leopoldo Mozart non rendesse questi mostriciattoli simili ad istrici ammaestrati pronti a rizzare gli aculei contro tutti, ritenendosi ormai summa di tutto lo scibile musicale, assegnatarie del Sacro Graal  dell' arte della tastiera.  Se per caso le si incontra in un salotto, il loro atteggiamento verso i comuni mortali è freddo e schifiltoso, quasi di ribrezzo, come se un alone impenetrabile le separasse da tutti gli altri;  una scia olezzante di genialità.

Nulla a loro importa

di nulla son curiose:

esse son fredde e noiose.

 

  E se a loro è stato dato il Graal della freddezza e la precoce virtù digitale  a tutti noi semplici musicisti non resterà che piangere nel nostro calice, per poi farne dono a queste vergini prodigio.

   Che possano berne con voluttà, strozzandosi  senza troppo clamore, e con perfetta dignità da genio.

 

 

*

In Minima moralia  Adorno scrive che anche l'attività spirituale è diventata pratica, specie di fabbrica con  rigide partizioni del lavoro, "branche e numerus clausus " .  Egli ritiene che questa partizione -divisione in "scompartimenti"- dello spirito sia ottimo mezzo per la conservazione dell'ordine, cioè dello status quo  : alcuni sono tenuti a collaborare perché stretti dalla necessità del vivere (ad esempio gli scrittori poveri); gli altri vengono invece esclusi, diventano reietti e paria della società perché non vogliono collaborare; essi possono però trovare altrove una fonte di sostentamento  (è il caso degli scrittori ricchi).

   Spostando di poco l'asse, facendolo girare millimetricamente rispetto al punto di partenza, si può dire che la meccanizzazione di certi processi spirituali, che trova una sua strada nell'esistenza di tappe obbligatorie per una qualsiasi evoluzione al di là del dato (produzione artistica, mistica, religiosità popolare, puro e semplice intellettualismo),   conduce certamente alla stasi, al permanere di un ordine non solo sociale, cioè  di  chiusura   gerarchica  di  certe caste rispetto ad elementi eterogenei, ma anche ad un ordine culturale, ad un persistere dell'idea selettiva che qualifica buoni ed utili certi percorsi e fuori dal comune, perciò errate, quelle strade alternative che sono poi invece tipiche della genialità.

   Non occorre, qui,  limitare la tesi poggiandola soltanto sulla pretesa esistenza del genio. Anche in senso generale, l'ordine scalare e piramidale che si dà al pensiero (o alle costruzioni concettuali) può essere frantumato dall'intuizione di realtà spirituali superiori, inaccessibili soltanto al comune sentire. La "scompartimentazione" dello spirito e del pensiero conduce quindi a risultati certi, ma probabilmente mediocri. Rifiutare questa divisione porta d'altra parte al mero disordine, o ad intuizioni superlative, anche se si è persone ordinarie (ciò  è vero in ogni caso per il genio).

   Si può parlare così di una necessità del disordine, o quantomeno di una sua tollerabilità, se dati confusi e liberi possono poi combinarsi anche casualmente secondo costruzioni solide e geniali.

   Naturalmente  ed  ancor  più  deprecabili  appaiono poi le specializzazioni o compartimentazioni tipiche dell'arte contemporanea, che settorializza le competenze dello spirito come se fossero corsi  di ragioneria: il compositore non si esprime sul pianista; il quale "non può" dare un parere professionale sul compositore (anche perché di solito le sue conoscenze musicali si arrestano a Debussy); il direttore d'orchestra è raramente anche compositore, e quest'ultimo raramente dirige l'orchestra .  Se perla nera qualcuno osa "scavalcare il ruolo" (e la terminologia è ancora adorniana), una muta di cani inferociti dà del bastardo al malcapitato, ed in onore alle razze selezionate si distrugge qualsiasi possibilità d'evoluzione delle razze stesse. 

   Ora, se è indubbia la necessità di categorie altamente specializzate nei vari settori,  parrebbe anche opportuna una maggiore elasticità proprio nella selezione dei compartimenti stessi, ed in fondo una maggiore cultura musicale generale, che pur è esistita in passato, quando pareva che la musica fosse straordinariamente grata a se stessa.

 

 

MUSICA E ZEN

 

   Altrove si è scritto che l'artista contemporaneo  dovrebbe produrre secondo una forte determinazione. Ora, queste parole non si  riferiscono affatto all'artista, nel senso che  la modalità comportamentale che esprimono non può essere contenuta nella sua sfera volitiva, non rappresentando affatto una sua forte decisione. Non si intende qui, cioè, rendere sinonimi la parola "decisione" con  "determinazione", cosa frequente  solo nel linguaggio comune. Non si intende nemmeno semplicemente indicare un atto della volontà, perché questo significato, prevalentemente  psicologico, presupporrebbe una partecipazione attiva, un porsi di fronte alla creazione oggettivata (l'opera), la qualenon deve necessariamente esserci (ciò è simile al presupposto non indispensabile della "ricerca" quale atteggiamento interiore, e non come metodo). In una, non si intende riferire l'agire e l'opera dell'artista ad una genesi interiore.  Ciò che può essere, ma non costituire regola.

   Il senso corretto di "determinazione" nel contesto di cui sopra è quello di "causa che   determina", cioè un significato oggettivo, non riferito all'interiorità ma ad agenti  estranei alla volontà. E' secondando una idea forte e determinante che l'artista contemporaneo può motivare la sua opera, non perché ciò sia necessario, ma affinché essa abbia una qualche ragione. 

   Si è ormai stanchi, infatti, di scorgere il niente dietro al niente, e perfino il nulla perde qualsiasi connotazione di gusto  ( empatia d'assenza) se diventa norma. Nell'augurarsi un artista che produca secondo una forte determinazione si intendeva dire che qui ed ora non può più prescindersi dalla ricerca dell'idea perduta, di una ragione che dia una costruzione ( e non di costruzioni, magari a pannelli  o a serie, che abbiano la pretesa d'essere idee), che la dia di per sé  e senza porre assiomi operativi.

   Il compositore non dovrà decidere di produrre seguendo tale ragione, né dovrà compiere alcuno sforzo di volontà. Egli sarà simile all'uomo zen del decimo stadio, o al mistico che medita passivamente: nel suo automatico agire assecondando un'idea, essendone   contemporaneamente  al  di  fuori,   senza   alcuna partecipazione,  risiede forse il possibile futuro della creazione artistica.

 

 

SI PUO' ANCORA ESSERE ESPRESSIVI?

 

   Nel leggere un libro l'uomo contemporaneo cerca un surrogato di verità. Egli tenta disperatamente di legare a sé dei brandelli di eterno, e spera di reperirli in un volume. E' così che nella maggior completezza culturale, nel maggior numero di citazioni, nella maggiore articolazione linguistica risiedono il successo  dei romanzi più venduti; ma è raro trovare situazioni espressive o liriche nei prodotti contemporanei, ad esempio nella produzione musicale, come se il poeta o il compositore avessero paura d'esporsi o abbandonarsi a parole già ascoltate, a frasi  e incisi già noti, che "hanno fatto il loro tempo".

   Ma il libro poetico, quello ispirato e lirico, non può rendersi spauracchio della verità, perché in qualche modo presuppone già una verità, già ripropone valori del fruitore, ed è più figlio della verità di qualsiasi prodotto che finga di rappresentarla con citazioni o  ricercatezza formale.

   Per quale ragione non dovrebbe essere possibile ancora l'uso di parole e note con uno spessore? Perché mai dovremmo ubbidire ciecamente agli imperativi  imposti dallo sperimentalismo,invece di prendere da quest'ultimo cio che è più funzionale alle nostre idee musicali? Se tutto ciò che è lirico viene etichettato automaticamente come decadente sospendendo qualsiasi giudizio di valore, come sarà possibile reggere il confronto con questa nuova era glaciale dell'arte?

    Più utile, forse, andare a fondo di ciò che è detto, osservando il come    ed il significato  di  quanto si sta ascoltando. Peraltro, l'espressività non implica necessariamente la reazione; ben venga, e guai se così non fosse, l'impiego delle ultime tecnologie e di tutti i mezzi offerti dalla tecnica, dalle sintetizzazioni ai suoni elaborati o pilotati da un computer in tempo reale.

 

 

DEI CONCORSI PIANISTICI

 

   Come mai i giovani affollano i concorsi? Il fatto è che in queste maratone pianistiche sorge la possibilità di: 1- provare i pezzi d'esame; 2- compiacere un maestro in qualche modo coinvolto nell'organizzazione; 3- esibirsi in pubblico; 4- saggiare le proprie capacità di memoria; 5- acquistare il titolo di semplice 'classificato'; 6- acquistare il titolo di primo, secondo o terzo classificato.

   Questi ultimi due punti chiariscono, in particolare, le ragioni della grande affluenza di pianisti specie ai concorsi di piccola o media importanza. E' infatti  accertato come nelle gare internazionali cali sempre di più il numero di concorrenti, e sempre più spesso i primi premi non vengano assegnati, e come viceversa in quelle locali o nazionali il numero aumenti in ragione dell'incremento dei premi raddoppiati o triplicati.

   Come si spiega?  Il fatto è che soprattutto nei concorsi locali riescono ad avere la meglio i potentati dei maestri del luogo; essi 'fabbricano' i titoli dei loro migliori   ( e peggiori, indifferentemente) allievi, aumentando il loro prestigio e la loro credibilità , e quindi incrementando lezioni private e giro d'affari.

   Volendo provare a fare i conti in tasca a questi vampiri dell'arte si costaterà che in generale le lezioni private di un insegnante noto si aggirano tra le ottantamila e le centomila lire l'ora. Calcolando però che spesso le lezioni non durano affatto un'ora, o che addirittura vengono svolte 'in gruppo' (storia della musica, armonia, composizione, didattica), il guadagno settimanale segue questi standards:  sette lezioni in un pomeriggio saranno eguali a duemilionicentomila lire alla settimana(per tre soli pomeriggi di lezioni) ed a tremilionicinquecentomila per cinque pomeriggi. Il che equivale a dire che in media (lavorando cioè solo pochi giorni alla settimana) il guadagno mensile di questi insegnanti, nel giro di esami-concorsi-concerti-lezioni è di quasi quindici milioni  al mese, eccettuato naturalmente l' "onesto" guadagno in conservatorio.

   Meglio tacere su costi di preparazioni ad esami dove coloro che hanno curato la preparazione figurano poi in commissione.     Entro questa logica è chiara l'utilità di spendere il proprio nome all'interno di un concorso pianistico locale, soprattutto se i propri allievi dichiarati o celati riescono a vincere. E, affinché allievi molto ricchi ma poco dotati riescano ad avere la meglio su ragazzi preparati ma poveri (o preparati ma onesti) occorrerà certo qualche 'maneggio' tra commissari.

   Come avvengono i maneggi? 

   Esistono infiniti modi per ottenere la vittoria dei propri allievi. Esaminiamo soltanto i più plateali.

   Se il maestro è al di fuori della commissione potrà  dichiarare la paternità dell'allievo, sfruttando il pressing psicologico sui commissari. All'occorrenza potrà esserci una telefonata ai membri più 'sensibili', ma non a tutti: basterà comunicare con la maggioranza dei commissari; sfruttando il momento opportuno essi potranno influenzare gli altri. 

   Se il maestro è all'interno della commissione può seguire due strategie, dichiarando o meno la paternità dell'allievo. Nel primo caso: non si esporrà; potrà esprimere il suo giudizio; potrà quindi liberamente giocare all'abbassamento  del  voto degli altri candidati. Nel secondo caso: si esporrà alle critiche, ma contemporaneamente influenzerà i commissari (essi tentano sempre d'essere condiscendenti: mirano alla spartizione, non certo alla prevaricazione assoluta...); potrà inoltre decantare le  lodi di questo concorrente altrimenti anonimo (quanti altri concorsi ha vinto; i voti eccellenti riportati agli esami; la sua brillante carriera concertistica; la posizione familiare da compatire; l'emotività e l'emozione; ...).

   Ma quali sono i meccanismi che consentono i maneggi?

   Molto dipende dal presidente della commisione, che stabilisce i criteri di valutazione e quindi determina l'ambito delle possibili manovre (egli consacra infatti la quintessenza del potere). Bisogna fare molta attenzione qualora si  stabilisca a priori la soglia che consente l'accesso alla zona premi  ( ad esempio da  85/100 in su terzo premio, da 90 secondo, da 95 primo): ciò consente di 'orientare' la votazione con grande faciltà, specie se si può contare sull'appoggio di un 'compare' all'interno della commissione. Ad esempio,  su cinque embri, se tre voteranno 95/100, e due franchi tiratori 60/100, e fino a 63/100, escludendo il voto più alto e quello più basso ci si ritroverà col buon candidato escluso dalla zona premi.

   Altra trappola insidiosa sarà la possibilità di variare il risultato finale alzando il voto del candidato  all'unanimità. Queste votazioni all'unanimità sono rischiose: il peso di tutta la giuria che si schiera contro un singolo oppositore è difficile a sostenersi, a meno di  far saltare il concorso (uniche alternative l'astensione e l'abbandono).

   Do ut des   è la massima che regola i rapporti fra commissari; e il dare e ricevere può avvenire a cavallo di più concorsi, secondo l'ottica del reciproco scambio di favori.

   La morale.  E' quantomeno immorale: al concorso non vince il concorrente più musicale, ma un tipo pianistico che si può definire atletico: un esperto nell'agonismo. E vince soltanto se possiede alle spalle un solido appoggio.

   L'auspicio.  E' che i giovani musicisti disertino i concorsi di piccola e media portata. Subire le vessazioni  e i giochi di potere di questi commissari agli esami ed ai  concorsi  pubblici è già sufficiente; assurdo sottomettervisi volontariamente.

 

BESTIARIO: i commissari

   La megera : in ogni commissione c'è una grassa e non più giovane signora, tanto più orrida quanto maggiormente avvezza all'andazzo istituzionalizzato di esami e concorsi. Questa befana è capace di qualsiasi aberrazione: potrebbe candidamente ammettere di essere stata raggiunta telefonicamente dalla sua più cara amica per un "ti raccomando". Potrebbe ammettere di concedere "uno o due punti in più, ma solo per amicizia, s'intende!".

   Attenzione: col sorriso sulle labbra ed il volto amabile può proferire le più ridicole bestialità musicali, e tacendo commettere le più inique scorrettezze: della serie" temi chi tace".                 

   L'uomo dal vestito grigio.    Richiama certi personaggi di Michael Ende o di Savinio: è uguale a sé stesso da quattordici anni. Se può si  iscrive al club dei bigotti. Suo idolo preferito Ponzio Pilato. I suoi allievi sono simili a donne magrissime: completamente piatti e asessuati.    L' anziano pian-ista .  Motto abituale: "chi va piano...". Andamenti privilegiati: lento ed obsoleto. Pedali: va sempre con sordino e in sordina. Dimenticanze preferite: non conosce Glenn Gould e crede che Alan Ford sia un grande scrittore.

   La direttrice :  generalmente nevrotica e con frequenti crisi estetico-sessuali, sfoggia abiti che pongono in risalto doti femminili inesistenti. Tra i suoi titoli un passato da accompagnatrice ed una laurea conseguita con difficoltà. Assegna premi ad esecuzioni che ammette essere "nemmeno scolasticamente corrette". Riesce miracolosamente a leggere un regolamento.

   L'insigne didatta  .  Compositore in pensione. Pubblica bassi tematici e canti dati (immemore qualche esecuzione di un suo brano originale).  Costa lire ottantamila l'ora. Non riesce a condensare due lezioni in una (sarà la sua lunga esperienza). Per diplomarsi con lui occorrono dieci anni ed undici mesi.

 

 

 BESTIARIO: i concorrenti

   La fanciulla belloccia. Si presenta in genere con un vestito serie mezzaborghesia. Suona discretamente e con apparente disinvoltura. Si distrae tuttavia dal pianismo (la sua piccola mente scantona) e le dita svolazzano su ingrati passaggi.

   Il fanciullo occhialuto.  Nello stile 'dottorino'. In genere cura con attenzione l'estetica: ha i capelli tirati  a modo, giacca e pantaloni con le pence. Promette più di quanto conceda.

   La grassona ansante.  E' della serie di quelli che pestano, cercando tuttavia di convincere tutti della loro capacità di 'pianissimo'. Cavallo di battaglia: la Leggerezza di Liszt.

   Il figlio di/l'allievo di .  Si avvicina con indifferenza e studiata noncuranza al tavolo della commissione. Il viso assume una smorfia schifiltosa. Con indice e pollice consegna il documento. S'avvia al pianoforte. Estrae l'onnipresente fazzoletto col quale pulire la tastiera (onde allontanare il sospetto di qualsiasi estranea sudorazione). Poi guarda il soffitto, come in cerca d'ispirazione. Infine pigia i tasti.    Benemeriti figli d'arte. Benemeriti figli di.

   L'indisciplinato.  Non si presenta all'appello. Pretende poi di suonare per legittimazione. S'avvicina al tavolo col casco della motocicletta sottobraccio (della serie "suono e vado via"). Opzione è l'autoradio estraibile ultimo-modello-con-cerca-programmi-elettronico. Porta seco i libri, ma li lascia per dimenticanza sotto al suddetto casco, o sotto alla suddetta autoradio. Suona.

   Si teme allora qualche incidente di percorso (serie "stunt-man") o qualche meningite infantile.

   Il grande assente. Ai concorsi partecipano cani e porci. Unico grande assente J.S. Bach.

 

 

DELLA  DIDATTICA

 

   Molti  insegnanti di composizione hanno cataratte davanti agli occhi: quinte e ottave parallele impediscono loro di scorgere quanto di buono e bello si cela in un brano; seguire un didatta equivale così a mortificare la propria creatività, e chi  -facendosi forza- riesce a sopportarne la vicinanza per un anno o due vedrà indebolirsi  ed affievolirsi l'estro, quando non addirittura l'amore per l'atto stesso del comporre.

   In compenso, a mo' di  pince-nez gli appariranno davanti agli occhi tritoni e sincopi armoniche.

   Cercasse dunque lo studente un insegnante di composizione musicista, che sia ancor vivo, e componga brani eseguibili. E facesse invece a meno di questi insopportabili pedanti, che in tutta la vita son riusciti soltanto ad imitare questo o quello stile.

 

 

ENDICANTI ET SIMILIA

 

   L'accattonaggio dei baroni di conservatorio (ma non certo di tutti gli insegnanti) si manifesta non tanto nel prendere allievi privati, e nemmeno nell'ingerenza e prepotenza del loro tariffario, ma nella prassi ricattatoria verso l'allievo, espressa attraverso l'obbligo di una assidua ed inesorabile frequenza, attraverso la minaccia di non presentarlo agli esami,  ed in generale nel tentativo di sfruttare il più a lungo possibile la gallina dalle uova d'oro.

   E quanto più è esosa la tariffa, formalmente corretto il rapporto ed apparentemente rispettabile la mera estetica, tanto meno si consegna alla spugnosa mente del privatista, il quale non solo paga (e paga perché non ha avuto chi lo raccomandasse  ai fini dell' ammissione in conservatorio), e paga tariffe esose (il rapporto tra una normale lezione ed una lezione di questi professionisti del guadagno è di uno a otto), ma si vede poi anche mortificato ed insultato (vero insulto alla conoscenza) proprio in ciò che più gli è caro: il valore.

   E allora a nulla vale far presente che le lezioni son pagate col miserabile gruzzolo dovuto  a lavori saltuari, a nulla cercar di conquistare la stima del barone: il pregiudizio opererà comunque contro l'allievo privato, che verrà sempre considerato alla stregua di una grassa vacca, da mungere il più possibile, e fino a farla morire d'inedia.  Inesorabilmente.

 

Promesse spauracchio

   Ecco un elenco delle promesse tacite od espresse dei baroni.

1- Esame.  E' la promessa tipica. Consente di incrementare le lezioni in modo impressionante. Ancor più impressionante è il fatto che nulla importa se l'esame verrà poi sostenuto con esito sfavorevole: opera un meccanismo automatico di ricambio che consente il costante impinguamento; la naturale sacca è quella del microambiente del conservatorio, di amici e parenti di allievi, e talora addirittura di allievi  interni.

2- Concorsi.  E' la promessa-tipo per i diplomati. Essi devono necessariamente vincere dei concorsi per acquisire punteggio valido ai fini delle graduatorie nei conservatori. E' un  settore ben remunerato, dal momento che comprende anche gli allievi uscenti dai conservatori, e quindi la totalità degli allievi possibili.

3- Concerti.  E' categoria che comprende le due precedenti. Si spiega così come mai molti insegnanti siano inseriti in associazioni concertistiche di infimo ordine, o si diano da fare per organizzare miserabili saggi o esibizioni di dodici ore consecutive dove genitori estasiati ed allievi alle prime armi possano, pagando, appagare mitici sogni concertistici.

4- Scuole, o posti in graduatorie.  Alcuni sembrano garantire una scuola seria, dal momento che numerosi allievi già piazzati  testimoniano della loro potenza contrattuale. Essi in sostanza promettono il posto in conservatorio. Ma è chiaro che, seppure avessero il dono della sincerità, cosa che solo uno "Candido"   può   pensare,  sarebbe  materialmente  impossibile  'piazzare'   la   quantità   enorme   di   allievi che riescono   ad   attirare,   e che hanno in 'parcheggio' anche presso i cossiddetti allievi già inseriti. Si pensi che un insegnante privo di scrupoli può fare in cinque ore anche dieci lezioni, e che i  giorni impiegati in conservatorio sono in genere due o tre. Ogni barone può  avere, quindi,  con faciltà, dai trenta ai cinquanta allievi.  Altra prassi che fa loro guadagnar tempo è quella ormai consolidata di non recuperare le lezioni non tenute per ragioni di forza maggiore, lezioni pagate regolarmente in anticipo.

   Il barone, dunque, lucra non solo sulle spalle degli allievi, ma anche su quelle degli altri insegnanti il cui compenso, in proporzione, è miserabile. Egli sfrutta il malessere della struttura pubblica per i propri fini privati  e, di conseguenza, ha tutto l'interesse a far sì che questo malessere continui e sia anzi incrementato.

5- Preparazione.   E' il caso più raro e la più velata promessa. Ma non si illuda l'allievo: da persone prive di scrupoli difficilmente potrà ottenere una preparazione musicale. Molti insegnanti di pianoforte, i cui nomi sono noti, pur vincitori di concorsi internazionali, o blasonati concertisti delle stagioni RAI locali, non correggono neanche gli errori di lettura.

 

 

 

DELLA POSIZIONE DELLA MANO

 

   In ogni manuale che si rispetti non può mancare il solito capitoletto dedicato alla posizione ottimale della mano, come se la risposta a  questo problema non sia in realtà della più grande ovvietà: la miglior posizione è quella naturale, quella cioè che la mano assume quando è in posizione di riposo, col braccio disteso lungo il fianco.  Però i manuali generalmente omettono che i più grandi pianisti del mondo hanno talvolta una posizione tecnicamente assurda, eppure funzionale in modo geniale. Horowitz è il caso limite ed il più conosciuto. Glenn Gould suona bassissimo, quasi appendendosi alla tastiera. Molti tengono il quinto dito sempre in tensione, altri distendono le dita. Gli allievi di Vitale compiono svolazzamenti e sfarfallamenti visibili ad occhio nudo. Molti pianisti jazz dalla tecnica leggendaria sono venuti su in modo naturale e con evidenti difetti 'funzionali', ad esempio Petrucciani e Peterson.

   Pertanto chi volesse a qualsiasi costo modificare una propria impostazione naturale, magari la risposta geniale del proprio corpo   alle   posizioni affatto innaturali del pianismo potrebbe fare (pianisticamente, s'intende) la fine di Schumann.

   Sarà perciò meglio valorizzare le proprie doti nascenti se si vorrà arrivare alla perfettibilità delle risposte tecniche, ed al miglior grado possibile di esecuzione; ed al contrario sarà ancor sempre possibile invenire una posizione ed una tecnica ottimali in grado di generare una grande quantità di esecutori di medio livello, tutti eguali tra di loro, al punto da incidere cento studi senza proporre nessuna sostanziale differenza di esecuzione.

   In definitiva, se il progresso della tecnica deve portare all'elevazione del livello medio di esecuzione pianistica a discapito della genialità dell'interpretazione saranno preferibili poche punte d' iceberg che si elevano sulla massa  piuttosto che un ghiacciaio uniforme, bianco e tale da rendere veramente glaciale  tutto il futuro dell'arte.

 

 

DEI VINCITORI DI CONCORSO

 

   Fra i pregi del cosiddetto tipico vincitore di concorso vi è senz'altro la "chiarezza d'idee", l' "unicità" o univocità delle sue esecuzioni, insomma il suo (non) caratterizzare un brano, informandolo di un'unica mera intuizione (ad esempio quella ritmica): e che sia sempre la medesima idea, perché una tale granitica convinzione della verità non può concedersi variabili o varianti.

   La chiarezza, la pulizia, l'uniformità creano il vincitore di concorso standard. Ma allora l'incapacità di presentare variabili di un'interpretazione significa in quest'epoca essere dei buoni musicisti, e la perfezione o chiarezze d'idee (dell'idea con la 'i'  minuscola)  significa possedere un'originale linea interpretativa!

   E invece, l'eccessiva semplificazione della linea melodica di un brano, l'asservimento della sua complessità ad   un'  unica scelta preferenziale, la limpidità tecnica, la chiarezza e lapalissianità delle invenzioni (quando ci sono è il migliore dei casi) non sono qualità propria senso che si  adattano ad un buon ragioniere. Ma che strano: in letteratura, pittura, e in tutte le altre arti (quelle che non necessitano di un mediatore), l'uniformità, la cristallizzazione delle forme è ritenuta un difetto, indice di convinzioni troppo rigide, che porta inesorabilmente alla noia. Si immagini poi un pittore  in grado di riprodurre in un numero infinito di copie la stessa opera; non ci verrebbe il sospetto che tale capacità perfettamente simmetrica e simmetricamente perfetta nasconda non un artista tecnicamente agguerrito né un tecnico con velleità artistiche ma nulla più e nulla meno che uno tecnico stupido. Già, perché  ai concorsi si premia null'altro che la stupidità, attratti dall'uniformità e dalla chiarezza. Soltanto uno stupido può essere talmente convinto di una sua esecuzione da assegnarle indefinitamente il rango di 'unica' e 'perfetta'; e soltanto uno stupido può sopportarne ogni volta la ripetizione senza annoiarsene.

   Fortunatamente, se lo stupido non si annoia a guardare il pallone gonfiato e colorato, c'è chi per lui, dopo ogni sguardo, s'alza e se ne va, perché anche una bella palla, una palla proprio magnifica, tutta colorata e (gaudio) perfettamente sferica dopo poche occhiate  stanca irreversibilmente.

   Questo terzo incomodo, che non accetta, è il pubblico, il quale spesso non è coinvolto, specie se l'automa-palla in questione non è ancora noto. Ma se sfortunatamente l'automa addiviene al successo (miracoli di  concorsi e di amichevoli 'pacche' sulle spalle di chi sa e chi può), ebbene anche il pubblico resterà  in sala ad annoiarsi, a patire la fine del concerto,  distratto semmai dallo sguardo che la vicina di poltrona lancia all'altrui  collier di diamanti.

 

ARALIPOMENA

   

   Non c'è dubbio che il miglior interprete suoni senza muovere un dito. Anche il fruitore è immobile: solo il suo spirito è vivo.

 

   Sovente l'arte è ingiusta: essa premia l'istante ispirato e censura le intere ore improduttive.

 

   Ogni espressione del ritmo in musica è l'espansione di un ordine cosmico.

 

   L'artista crea il soliloquio, ed esso lo magnifica.

 

   Lo stile diventa godimento quando oltrepassa il disgusto per la descrizione.

 

   La scelta caduta sulla composizione musicale di chi sente una predisposizione letteraria vòlta al linguaggio simbolico non è che una conferma di questa particolare inclinazione dello spirito; difatti la scrittura musicale, nella sua indecifrabilità ai non iniziati,  è  massima realizzazione   per  chi anela a celare le più intime sensazioni dietro segni che nulla di limpido lasciano trasparire. Il simbolo manifesta soltanto la necessità, consostanziale a certi argomenti, di mediazione attraverso segni, cosa in cui consiste la ricerca di un significato.

 

   I suoni sono stanchi d'esser perfetti: loro limite è questa stessa uniformità che li rende belli e preziosi. Il non variare, il persistere in timbri e colori di cui già si immagina l'effetto genera noia, e la mancanza di invenzione (quella stessa invenzione che può portare all'errore di esecuzione) rende il brano privo di qualsiasi emozionalità.

 

   La musica è un'arte che può qualificarsi come espressione del pensiero in espansione.

   Essa è un frutto del pensiero perché ogni variazione nel pensiero produce mutazioni essenziali nel suono, e dal muoversi del pensiero deriva anche il muoversi del discorso musicale, proprio in senso generativo.

   Essa è inoltre frutto dell'espansione del pensiero perché può qualificarsi come arte, e quindi come disciplina esoterica di  perfezionamento soltanto quando sia aliena dal pensiero comunemente usato,  tingendosi di eccezionalità ed espandendosi al di là dei limiti disposti soltanto dalla consuetudine.

 

   La ricerca di una personale dimensione del produrre è scontata? o, per meglio dire, agisce secondo ingranaggi automatici, nel momento in cui ci si pone davanti al leggio e si effettua la selezione di certe frasi a discapito di altre? Si può parlare, insomma, di un meccanismo di ricerca inteso quale atteggiamento interiore, quale ovvia e naturale predisposizione dell'artista nei confronti del suo creare?

   Probabilmente, l'uso del termine 'ricerca' è in questo caso erroneo, perché la scelta quasi automatica che si compie non è il frutto dell'atteggiamento interiore di ricerca: in tal modo si salta un  gradino di troppo; è semplicemente un orientarsi del gusto che se può   provenire da un  atteggiamento di ricerca,  può  anche   essere   una semplice   scelta   dell'artista.  Questi, consapevole del suo stile e sicuro della sua produzione, opera una selezione  lungo strade già percorse e caratterizzanti.  In ciò non v'è nulla della ricerca. Perciò meglio sarebbe riferire questo termine al metodo di scrittura, e non ad un fantomatico moto interiore.

  

   Nella  Terminologia filosofica  di Adorno, a proposito della critica kantiana alla cosiddetta prova ontologica di  Dio, vi è la spiegazione del fondamento di tale critica; basata sulla differenza tra concetto e giudizio (i concetti non possono esprimere verità, o meglio non possono contenerla: celebre l'esempio del centauro, per il quale l'insieme dei concetti che formano la definizione non dice assolutamente nulla delle sue qualità), la critica kantiana mostra come l'esistenza di Dio sia "pertinenza del giudizio", come dice Adorno e "deriverebbe dal suo proprio concetto, poiché la sua esistenza è compresa nel suo concetto, come una delle sue note". Poco prima Adorno si riferisce però ai concetti definiti contraddittori, di cui è più semplice dimostrare l'assenza di  esistenza, proprio in virtù della contraddizione: un concetto siffatto potrebbe essere  "un ferro di legno".

   Ora, a parte la banale osservazione che se non è dato dimostrare l'esistenza di un  concetto  (diciamo il suo fondamento d'esistenza) non è dato dimostrarne nemmeno l'inesistenza, occorrerebbe poi valutare se e in quale dimensione, a quale punto di riferimento ancorare questa prova d'esistenza.  Nel campo dell'immaginario e dell'arte, o in quello della scienza (un ferro che abbia tutte le qualità del legno conservando intatte altre conformazioni strutturali) il concetto contraddittorio può essere accettato  non senza una fondata sospensione del giudizio sulla sua esistenza.

   Analogamente non è rilevante dimostrare che l'inesistenza di Dio deriva dalla natura stessa del concetto in quanto tale. Infatti da ciò è possibile dimostrare soltanto che il concetto non possa né affermarne né negarne l'esistenza.

   Infine, ma qui il tracciato diventa complesso, anche un concetto può essere una prova oggettiva di esistenza, perché non è affatto  provato che la dimostrazione d'esistenza debba essere fondata sulla formulazione di un giudizio, o in altri termini sulla riflessione cosciente di un concetto. Quest'ultimo, anche se fosse la somma dei concetti dell'entità immaginaria 'centauro' può essere introiettato  senza riflessione, attraverso una forma di meditazione sovra-oggettiva, e non oggettiva. Una serie di meditazioni sovraoggettive può poi essere il fondamento di un giustificato e motivato giudizio d'esistenza.

 

   L'artista non può sempre sostenere il ruolo di fenomeno da baraccone, sorta di monstrum da additare e separare dalla comune genia.  Pur rappresentando  questi una patologia dello spirito, ciò non può sempre essere messo in evidenza, non può essere spiattellato ai quattro venti.

   La forza che forgia la sua diversità non sempre riesce a proteggerlo dall'invasione altrui e, come un fiore delicato, il suo talento si sciupa, diventa superfluo e accessorio perché poco a poco non rappresenta più il fine di se stesso.

 

   Parafrasando Karl Kraus, oggi la musica è la quintessenza di tutto ciò che si è dimenticato.

 

   La grande utopia: il pianoforte non sia più uno strumento a percussione.

 

   La musica contemporanea defunge ogni giorno attraverso la perpretata 'avanguardia' di oltre quarant'anni fa. Suo triste epitaffio è la didascalia, piena di segni altrimenti incomprensibili che simbolizzano suoni vecchi di mezzo secolo. Siano dunque gli spartiti del futuro simili ad Urtext, dove nemmeno l'errore è celato.

 

   Oggi quello che si chiede all' interprete è di non essere caratterizzato quale artista, nel senso creativo del termine, ma di   astrarre la sua personalità dal brano musicale, di cui dovrebbe risaltare invece l'intrinseco carattere e l'originale personalità del compositore.

   Così l'interprete di oggi è un mero esecutore, che si illude di volta in volta di dar luogo alle idee di Bach, Mozart, Strawinskij, quando invece non fa altro che riprodurre meccanicamente i segni che questi ultimi posero su un foglio di carta.  Il fine ultimo di questi grandi compositori era la musica; il fine di un esecutore è il semplice foglio pentagrammato, da cui trae pretesto per proclamarsi virtuoso.

   Si può ben dire che ai concerti tenuti dai locali virtuosi anche le sedie inorridiscono.

 

   Siamo diventati degli artisti pattumiera: la nostra principale attività è rivolta alla collezione di pezzi di carta dalla magniloquente intestazione:

       Concerto del pianista...

e chi più ne ha, più spende in fotocopie, che girano per i conservatori d'Italia senza essere mai sfogliate da alcuno, incrementando quel patrimonio cartaceo che Cortazar descrive come un mare di celluloide.

   Ciò che è più triste è lo svuotamento di contenuto patito: qualsiasi compromesso viene accettato pur di possedere un programma in più da esibire. E il valore? la sostanza di una esecuzione pubblica? la giusta remunerazione per questi concerti? Tutto ciò non vale ormai nulla, e nessuno suonerebbe senza avere in cambio, almeno, quella squallida locandina, quel pezzo di carta inutile per tutti, tranne che per i Designati, i Grandi Eletti, i Promessi della alleanza. Figli d'arte, di politici, allievi unici di grandi baroni.  Soltanto  per  loro  ha un  senso collezionare carte.

   Che tutti gli altri lascino con buonumore i loro programmi, e la qualifica di artista pattumiera, a questi futuri insegnanti, cercando almeno di far musica sul serio, e  fuori dalle patrie officine musicali.

 

   Non sempre Adorno centra il bersaglio: la presenza di idiosincrasie e di piccole alterazioni storiche è riconosciuta ed accettata dalla maggior parte degli Autori. Queste alterazioni possono essere dimostrate attraverso l'analisi micrologica di alcune opinioni, come ad esempio  quelle contenute nella appassionata difesa di Bach "contro i suoi ammiratori" (T. W. ADORNO,  Prismi , trad. it., Torino 1972, Einaudi, pp. 129 ss.). Qui Adorno si scaglia contro la concezione ideologica della musica di Bach, e contro coloro che "godono l'ordine della sua musica perché gli è possibile sentirsi subordinati" (p. 129). Questi 'ammiratori' degradano Bach ad "uno di quei compositori di chiesa al cui ufficio la musica si opponeva" (p. 129). Lo stesso Bach, nel momento in cui entra al servizio dei catecumeni sarebbe diventato  "povero,   ngusto, espropriato proprio di quello specifico contenuto musicale di cui pur vive il suo prestigio" (p. 130). Egli si sarebbe trasformato in  un "neutralizzato bene di cultura, dove la perfezione estetica si frammischia torbidamente con una verità che non è più sostanziale in sé" (p. 130).

   In sostanza, pare che Adorno trascuri la formazione luterana (con ammiccamenti al pietismo) di Bach, e l'enorme influsso religioso costatabile e riscontrabile in molte sue opere, proprio alla luce di quella simmetria e quell'ordine così aspramente criticati. Va da sé che non necessariamente riconoscere l'opportuna simmetria compositiva (dato formale indispensabile alla composizione in quel periodo) significa fare di questo riconoscimento, che può essere anche di valore e trasformarsi in apprezzamento, una Weltanschaung , proprio una sorta di professione ideologica altrove posta in discussione da Adorno (precisamente nella Terminologia filosofica ,  lezione decima). Infatti, anche se è indubbio che la produzione di Bach ha abbracciato lo stile galante, e non solo nelle suites  francesi ma anche in molte  cantate   poi  rivelatesi parodie, pare anche che la portata religiosa di altre sue opere sia di tale rilievo da abbracciare, quasi contaminandola con topoi, e nel riconoscimento tematico di Leitmotiv, tutta la sua produzione. Inoltre, l'incidenza della sfera religiosa nelle cantate e nei corali è stata dimostrata da Albert Schweitzer, il quale ritiene, anzi,  impossibile comprendere il contenuto musicale se si prescinde dal testo sacro.

   Anche la tesi di Piero Buscaroli, che esalta quella di Adorno confortata dalla scoperta di nuove parodie, è facilmente attaccabile. Egli, in sostanza, ripete che Bach non può considerarsi un compositore religioso perché in molte sue cantate ha utilizzato musiche composte in precedenza per ricorrenze profane. Ma, in primo luogo, era prassi abituale dell'epoca utilizzare materiale preesistente, pur sempre modificato e, per così dire, aggiornato. Molti brani di Bach sono costruiti su temi e spunti di altri compositori, vere e proprie 'fonti'. In secondo luogo Buscaroli sembra vittima di quella stessa influenza romantica che sembra  criticare: egli assegna un valore inferiore alla musica religiosa a causa del pregiudizio romantico  della  novità della creazione: nulla prova che per Bach una cantata o una messa parodia dovesse aver meno valore solo perché basata su idee musicali preesistenti; è questa una caratteristica peculiare della sensibilità dell'Ottocento, e già sfatata nel Novecento, se è vero che la prassi della citazione assume pieno valore di creazione artistica (potrebbero ricordarsi anche gli assemblaggi di Picasso o certi procedimenti di Borges e Joice). Più probabile che Bach abbia pensato alla semplice funzionalità della composizione, trattata in modo artigianale.

   Anche Adorno nel saggio in esame si richiama spesso ad una concezione analitica ed interpretativa di tipo romantico, e ben vi si può leggere quanto di Malher e Wagner era rimasto nelle opere di Berg e del primo Webern: il richiamo alla doppia fuga in sol diesis minore del secondo volume del Clavicembalo ben temperato, paragonata nell'andamento allo Chopin maturo è privo di fondamento.

   La tensione rilevata da Adorno tra modernismo ed arcaismo trova riscontro  nell'attuale dibattito,  dal momento  che  per  certi  versi   è stupefacente  in alcune  opere la presenza dei dodici suoni, che vengono però assorbiti da una struttura armonica complessa e 'giusta' secondo i principi armonici tradizionali (che poi sono quelli codificati da Bach in poi). Adorno critica l'affermazione che Bach abbia recepito nella sua "bottega artigianale" soltanto il pietismo dell'epoca, costatazione certamente vera dal momento che "il pietismo stesso, come tutte le forme di restaurazione, conteneva in sé le forze di quello stesso illuminismo al quale si opponeva" (p. 132). D'altra parte, però, difficile a sostenersi è l'affermazione che in quella bottega "entrarono tutte le scoperte tecniche del tempo": basti pensare all'esclusione del pianoforte che, per quanto strumento ancora rudimentale costituiva pur sempre una scoperta di cui Bach non seppe o non volle riconoscere la portata. Egli preferì sempre ascoltarsi al clavicordo, che consente un volume d'esecuzione minimo, accessibile a pochi fruitori.

   Ed è proprio da questa idea che nasce la critica successiva al saggio di Adorno, ed alla sua posizione in favore delle grandi orchestre e delle grandi idee riproducenti originali di Bach per piccoli organici.  Adorno  non  potè,  forse, ascoltare questi brani eseguiti su esatte riproduzioni di strumenti d'epoca, cosa che oggi è ritenuta indispensabile per formarsi un'idea delle reali sonorità che Bach ascoltava nelle sue composizioni; inoltre, se è pur vero che "le autentiche opere d'arte dispiegano nel tempo il loro contenuto di verità, superiore all'orizzonte della coscienza individuale grazie all'oggettività della legge formale che è lor propria", disconoscere l'oggettività formale consegnata da Bach stesso alla propria opera in favore di una trascrizione di Schoenberg o Webern (trascrizioni che invece non a caso ebbero ad oggetto soprattutto opere teoriche di Bach, quali l' Arte della fuga o l'Offerta musicale, o brani originariamente per altro strumento) sembra veramente paradossale: chi si potrebbe assumere l'onere di pronunciare un giudizio più veritiero sull'organico di un brano se non lo stesso compositore?

   Tuttavia è vero che "non sta scritto da nessuna parte che l'idea che un compositore ha della propria musica debba coincidere con la sua essenza immanente, con la legge che è oggettivamente  sua  propria"  (p. 136).  Basterebbe, per dare una logica musicale alle argomentazioni di Adorno, suddividere i vari momenti: quello della composizione originale, oggi riprodotta in genere su strumenti copie di quelli antichi; quello della composizione  eseguita tal qual è su un altro strumento (è il caso di tutte le opere clavicembalistiche eseguite ordinariamente sul pianoforte); quello della trascrizione e della reinvenzione ad opera di un altro compositore, momento per il quale possono valere le affermazioni di Adorno.

 

   Gli strali lanciati da Vitale contro i grandi maestri della scuola napoletana, da Rossomandi   (Il pianoforte a Napoli nell'Ottocento, Bibliopolis, Napoli 1983  p.100), a Longo (p.111) e Cesi (p. 61) sono condensati in una frase particolarmente feroce:  oggi,  "pianisti privi di doti strumentali si rifugiano all'ombra di geni musicali che appartengono alla preistoria dello Steinway. Col pretesto di una 'musicalità' che sbandierano sciupando la frase e gabbando quanti blaterano contro il 'virtuosismo' equivocando con faciloneria su d'un fondamentale aspetto del pianismo " (p.111).   A parte le sgrammaticature, l'affermazione è grave sia perché mette in discussione acriticamente il magistero di questi grandi, asservendolo ad una mera diatriba tra scuole, sia soprattutto perché vi si preferisce in modo netto il virtuosismo, la concezione 'strumentale' del pianismo, a tutte spese della musicalità.

   Se infatti la "musicalità" è di difficile definizione (ma basta comperare qualche disco per reperirla) è pur vero che non per questo bisognerà inaridirsi dita e cervello, costringendosi a pigiare i  tasti in modo percussivo e slegato.

 

   L'esistenza di una corrispondenza interiore, e di un comune tracciato, fra l'opera di Goethe, che ne  rappresenta l'asse, ed il pensiero di Thomas Mann, Hermann Broch, Adolf Loos da un lato,  e Schoenberg, Adorno, Nietzsche (attraverso l'amore per Wagner) dall'altro, pare confermata e dimostrabile in più luoghi della loro opera. Alcune idee contenute nelle costellazioni di Adorno, come quella di 'entropia' esistono anche in Thomas Mann, in Schoenberg, ma soprattutto in Hermann Broch, precisamente nei suoi  Appunti per  un'estetica sistematica. Qui Broch critica Loos, al quale pure Adorno invece spesso si riferisce nella sua Teoria Estetica  laddove, ponendosi il problema della fattibilità dell' arte, ritiene che l'arte aleatoria converge con l'opera totale perché anch'essa è fatta , al di là dell'apparenza.  Già Loos aveva detto qualcosa di simile a proposito degli ornamenti, che non si lasciano inventare.  E Broch, invece, alla luce di Nietzsche, ritiene l'ornamento "espressione differenziale, in piccolo, dell'idea unitaria e unificatrice che informa il tutto". Per  Karl Kraus, infine, il  filisteo "salta sugli ornamenti come il cane sulla salsiccia". 

 

 

DEI  CORSI  ESTIVI

 

   Il corso estivo standard è quello che elude calde sudorazioni emozionali. E' condotto in genere dagli stessi insegnanti che decidono le sorti dei concorsi o degli esami; essi diventano, così, avvicinabili alla modica cifra di cinque o seicentomila lire per una settimana di corso collettivo.

   In questo breve periodo si può imparare tutto sulla musica, ed ogni punto oscuro della propria bieca formazione conservatoriale sarà illuminato da una vivida e sfolgorante luce: le intuizioni estive di quegli stessi insegnanti incontrati nei corridoi del conservatorio!  Con turni estenuanti all'unico pianoforte (moltiplicato per venticinque corsisti) si potrà anche suonare per mezz'ora al giorno! e fare lezione ogni due giorni col docente sempre più ciotto e cotto (nell'ora di libertà corre a rinfrancarsi: laide membra galleggiano in piscina). Le sue rivelazioni vi apriranno sordidi universi esecutivi, e sarete contaminati dai due o tre allievi privati, pezzi di virtuosi,  che sempre il maestro porta seco per dimostrare   ai   miscredenti la grandezza della sua scuola.

   La massima ambizione dei corsisti è l'agognato saggio finale nell'immancabile chiostro messo a disposizione dal comune (della serie "viva la cultura").

   Così, se non piove,  si potrà ascoltare la summa di queste monster-class: caldi deliri di mezza estate.

 

 

DELL'EGUAGLIANZA TRA LE MANI

 

  L'eguaglianza tra le mani è una verità paradossale. E' una verità perché le due mani devono acquisire le medesime capacità potenziali (velocità digitale, ampiezza, tocco). E'un paradosso perché quello che normalmente si chiede alle due mani è la complementarietà tra opposti; viceversa, quanti e quali esercizi dovrebbe svolgere la sinistra prima di raggiungere le doti di cantabilità tra quarto e quinto  tipiche della destra? Quante ore di studio potrebbero bilanciare lo squilibrio per gli innumerevoli brani in cui la sinistra svolge una funzione di mero accompagnamento?  Dal  canto suo la destra prende ottave e accordi in modo differente dalla sinistra, ed ha minore attitudine ai salti (quando non si sia curata questa specifica qualità).

   Se quindi le due mani sono di fatto differenti, il problema non sarà tanto quello di imparare a renderle uguali, quanto quello di rendere funzionale al massimo grado la diversità di ciascuna.

   Questo  ribaltamento (apparente) delle posizioni tradizionali, basato su osservazioni tecniche, in realtà consente delle aperture sulle possibilità interpretative. Se una scuola pianistica fondasse le sue velleità sull'affondo  costantemente eguale del tasto, in modo uniforme tra le due mani, questa scuola tenderebbe all'appiattimento musicale delle possibilità espressive di un brano. Quando Vitale diceva che nessuno dei suoi allievi aveva compreso il suo magistero pianistico (che poi era il magistero  di Denza) poteva forse intendere proprio questo: la caduta preparatoria, lo slancio del dito, l'affondo del tasto sono espedienti tecnici che dovrebbero ampliare le possibilità espressive della musica, diminuire lo scarto tra idea e sua realizzazione, e non viceversa condurre all'appiattimento, al gelo musicale. Le due mani devono essere sempre in grado di scomparire, l'una in favore dell'altra; e ciò vale anche per ciascun dito delle due mani: in qualsiasi momento deve essere possibile variare l'intensità tra le diverse dita.  Ora, ciò  non  è virtualmente impossibile anche   con   il   tipico   affondo dovuto   allo   slancio del dito: ma questo suono è quasi sempre slegato, cosa che assicura una maggiore velocità e  nitidezza,  ma   che diminuisce la possibilità di dire  delle cose attraverso i tradizionali stilemi pianistici: il legato, il crescendo diversificato tra le mani e tra le frasi divise per sezioni fra ogni mano.

   Da tutto ciò si evince la necessità di riflettere sul dato tecnico in ragione della sua efficacia finale, che in musica non è altro che la musica stessa, e non la velocità virtuosistica né il nitore discografico, l'anatocistico formalismo di certi cosiddetti filologismi.

 

 

LATITANZA  DELL'IDEA

 

   Non si può fare a meno di  rilevare un fenomeno al quale va imputata l'attuale crisi della cultura e dell'arte: il baronaggio delle cattedre, il feudalesimo dell'immobilismo scientifico. Non vi sono luoghi in cui si fa cultura e non docenti, maestri che si dedichino all'insegnamento per amore dell'arte e della ricerca, ma soltanto ai fini  di una miserabile gestione di potere, nota a tutti gli addetti ai lavori in qualsiasi campo in cui sia appena più importante ricoprire una carica decisionale. La logica seguita non è allineata con quella di un partito, o con un'idea, anche se formalmente vi appare ancorata, ma soltanto col proprio  avanzamento, che si traduce nell'avere la più grande influenza personale nel maggior numero possibile di luoghi. Centri dove si dovrebbero promuovere musica, letteratura, arte e in genere tutto ciò che è scientifico si trasformano in luoghi dove non  si promuove altro che gli allievi di quei quattro o cinque personaggi di spicco che stringone in pugno il destino culturale di una intera regione.     E' importante l'aver sottolineato da un lato l'autonomia individuale dei baroni della musica, e dall'altro la disinvoltura morale con la quale si muovono, restando lontani da qualsiasi idea politica in senso vero e alto. Difatti è a questo tipo di atteggiamento che bisogna guardare per riconoscere in nuce il motivo della scarsa rappresentatività dei partiti, per scorgere quella che da alcuni è stata chiamata "la menzogna del potere", e per comprendere quali sono le ragioni della lottizzazione dei posti di lavoro, della spartizione delle cattedre. In questi casi, politica diventa manipolazione del potere a fini meramente personali, e non per il bene della collettività,ectoplasma che appare ormai citato soltanto nei manuali di diritto, a mo' di spauracchio o banderuola che perpreti l'inganno di idee che ormai sono prive di qualsiasi effettività. Ed è qui che bisogna infatti ricercare le ragioni del personalismo e del protagonismo di potere che ha conquistato l'uomo politico medio, il quale accetta questa logica distruttiva e vi si adegua senza apparenti traumi, conferendo una veste di rispettabilità e di decoro ad un agire ormai inqualificabile.  Costoro, ormai,nulla hanno più a che fare con la cultura, alla quale rinunciano spesso e volentieri in nome di una loro scuola (preferendo propri allievi poco dotati ad esterni ed a figli di nessuno) e di loro interessi particolari, anche economici (lottizzazione dell'editoria scientifica con la prassi dell'adottato, manipolazione di concorsi ed esami al fine di incrementare la propria riserva di allievi, etc.). Ecco nascere testi  firmati da due o più titolari, scritti a sedici o diciotto mani  al solo fine di essere piazzati in otto o nove cattedre diverse; ecco la pubblicazione quasi biennale di nuovi lavori che raccolgono decine di insignificanti relazioni presso altrettanti insignificanti convegni, dove si decide la sorte dei futuri  titolari o si giocano i numeri della propria scuola contro quelli  del collega.

   Questa logica basata sull'assenza del valore e dell'idea domina nella sfera dei concorsi letterari, musicali e scientifici (che domini anche quelli statali è cosa ormai risaputa) e la lottizzazione non è tanto ad opera dei partiti politici quanto per mano di questi uomini di (bassa) cultura.

   Ad esempio, nei  concorsi musicali sono preferiti gli allievi dei membri della commissione con una naturalezza da far spavento, e trascurando qualsiasi  effettivo valore musicale dei concorrenti esaminati. In questo campo, dove viene valutata la sensibilità musicale dell'artista, è facile addurre sfumature estetiche o tecniche utili ad eliminare concorrenti "scomodi".

   Ciò accade ormai ovunque, e specie nella formulazione delle graduatorie di supplenza,  per le quali in ogni conservatorio vige una consuetudine diversa, con la gravissima conseguenza di un  preoccupante stato di incertezza del diritto.

 

 

PIANISTI IN CATTIVITA'

 

   Non sempre i pianisti sono rimasti volontariamente rinchiusi in gabbie dorate. Vi fu un tempo in cui essi interpretavano i propri brani e quelli altrui con grande libertà rispetto a quel che il   dominio del segno avrebbe in seguito preteso.

   Ciò è scritto a caratteri macroscopici nella storia dell'interpretazione musicale, e specialmente in quella del pianismo.  Ma non sempre l'interprete di oggi ha presente fino a qual punto fosse possibile 'rivisitare' un testo, quasi reinventandolo e riscrivendolo, e come ciò accadesse sia nel caso di  autori che interpretavano  sé stessi sia in quello di pianisti che eseguivano opere di terzi.

   Ecco quindi un parzialissimo catalogo di interpretazioni,  veramente sconvolgente per chi sia abituato  alle mere letture ritmiche di oggi.

 

CAMILLE SAINT-SAENS, nella sua mazurka op. 66, incisa nel 1918 su rullo DUO-ART (si provi a rintracciare il tre/quarti originario! Spostamento ritmico favorito dalla  scrittura sincopata, ma accentuato oltre ogni misura). Disco EVEREST X 1918.

 

CAMILLE  SAINT-SAENS, nella Danse des prètresses de dagon , de Samson et Dalila, incisione su rullo DUO-ART del 1918, disco EVEREST X 1918: (battute iniziali  con mano sinistra non riportate in spartito; ritmo singhiozzato specie nelle semicrome mi-sol ribattute dalla mano sinistra; chiusura divergente dallo spartito -pubblicato dalla Durand et fils editeurs-).

 

ALFRED GRUNFELD: Voci di primavera (trascrizione da Strauss), su rullo WELTE-MIGNON 1905, pubblicato dalla Recorded Treasures n. 682, collana The Welte legacy of piano treasures (ritmo fortemente singhiozzato, secondo movimento più lungo).

 

ALFRED GRUNFELD: Dinner Waltz, stesso rullo e disco; stranissimo tempo ternario con costante singhiozzo sul primo movimento.

 

SERGEJ PROKOFIEV:     Toccata  op.  11  su disco Klavier Records 1974 (altro che compositore percussivo!)

 

SERGEJ PROKOFIEV: Marcia dall'Amore per le tre melarancie, stesso disco.

 

GEORGE  GERSHWIN: Rapsodia in blu, su rullo DUO-ART 1924, disco CBS- SONY 25 AC 247 (moltissime varianti rispetto allo  spartito per pianoforte solo, con aggiunte e sovrapposizioni dall'orchestra. Ritmi fortemente sincopati ed accentati, non indicati in partitura).

 

EDVARD GRIEG: Papillon op. 43 n.1, su rullo WELTE-MIGNON del  1906, disco Inercord 860-855.

 

MAURICE RAVEL: Secondo tempo della Sonatina, rullo del 1913/14, stesso disco del precedente (slentati, arpeggiati  alla Paderewski non segnati; emblematico perché come compositore consigliava agli interpreti la massima fedeltà allo spartito).

 

IGNAZ JAN PADEREWSKI,   nella  mazurka    op. 17 n. 4, su rullo DUO-ART 1921, disco Eurodisc n. 27 674 XDK (stravolgimento del tre/quarti).

 

IGNAZ JAN PADEREWSKI: in Liszt, seconda Rapsodia ungherese, stesso disco (cadenze fra il Lassan e la Friska, e prima della fine); nella decima Rapsodia ogni parte è chiusa in maniera differente dall'originale. Cambia totalmente la parte in cui Liszt imita il  cimbalom ungherese, raddoppiando note e prolungando trilli doppi. Anche Cortot fa lo stesso nella  undicesima Rapsodia, CBS SONY 25AC243 dal rullo DUO - ART.

 

IGNAZ JAN PADEREWSKI: nella Leggerezza di Liszt, incisione del 1923 su disco RCA MVC 527, oggi su disco RCA CAMDEM MCV 527 (cambia tutto il finale).

 

BERNHARD STAVENHAGEN: nella Rapsodia ungherese  n. 12 di Liszt, su rullo WELTE-MIGNON 1905 n; 1O33, disco EMI n. 2704481 (esecuzione totalmente divergente dallo spartito, basata  sui   personali  ricordi  delle   esecuzioni e delle lezioni di Liszt).

 

ERVIN NYIREGYHAZI, in Grieg, Elle dance (aggiunge ottave e accordi, tuoni -zampa di leone- al basso); Garcon Vacher (salta diverse battute). In Cajkovskij, Valzer in la bem. mag. altera completamente la direzione del brano con andamenti rallentati, raddoppi, sonorità da capogiro.

 

ALFRED CORTOT aggiunge spesso ottave, raddoppi etc. Famoso il secondo concerto di Chopin inciso nel 1935, dove riscrive addirittura la parte dell'orchestra (oggi usata come versione Cortot) su disco EMI, La voix de son maitre 2 C 153-03090/6.

 

ALFRED CORTOT, nel concerto di Schumann, ultima versione dal vivo: impone i rallentati ed i rubati all'orchestra, anche quando è in pausa; complice il direttore, Ferenc Fricsay. Berlino 1951, su disco REPLICA RPL 2479.

 

 

DEL  PEDALE

 

   Il pedale può essere benissimo tenuto sotto le pause senza nulla togliere alla correttezza della scrittura. Questo è un dato di fatto assimilato dalla cultura musicale, ma che viene talvolta messo in discussione nelle interpretazioni cosiddette filologiche, che limitano il concetto di pausa ad una privazione di suono.

   Esso è infine soprattutto elemento essenziale alla frase, e alla logica complessiva del brano; il suono potrà dunque essere tenuto col pedale, fermo restando il fatto di alzare le mani dalla tastiera.

 

 

DELLO  STACCATO

 

   Oltre ai consueti sistemi per staccare, cioè allo staccato di dita, polso, braccio, e sistemi misti, esiste probabilmente un'ulteriore possibilità che è relativa ad uno staccato finalizzato al suono, combinato  col pedale in modo tale da produrre effetti timbrici particolari. Ciò significa però che segnando, ad esempio, un determinato accordo col punto di  staccato o col segno di portato, l'esecuzione non corrisponderebbe allo stesso accordo, segnato in modo più semplice senza né legatura né punto, ma eseguito nella combinazione di staccato-pedale. Da ciò è deducibile che il compositore lungimirante non segnerà staccato un accordo che potrebbe poi essere eseguito col semplice 'staccato', limitando quindi la ricerca dell'interprete alla pura e semplice lettura stilisticamente accettabile di uno staccato-di-per-sè.  Questo compositore lascerà all'esecutore la ricerca di un suono che sia il risultato della mediazione di indicazioni dinamiche o messaggi taciti di pura e semplice logica musicale.

   Sarà    possibile    pertanto  trovare   legature anche laddove è impossibile legare, indicando in tal modo il compositore la logica musicale, il  senso  di una determinata frase (logica comunque non esaustiva per l'interprete).

   L'esecutore, per esteso, potrà evitare di legare quando risulterà chiaro che la resa timbrica ed il senso complessivo migliorano staccando o suonando 'poco legato'; viceversa, una frase staccata potrà essere modellata meglio nel tocco e nel suono con un 'poco legato'. Risulta così chiaro che l'uso del tocco finalizzato ad ottenere sonorità particolari, mescolato ad opportune  pedalizzazioni ( o addirittura all'uso di armonici creati da tasti abbassati  senza però essere  suonati e segnati, ipotesi non più fantascientifica anche e soprattutto  nelle esecuzioni dei classici) può giustificare l'alterazione di certi segni del compositore, o quantomeno rimpiazzare l'assenza di alcuni segni con quelli suggeriti dalla logica musicale del brano (l'eguaglianza tra logica musicale del brano e logica musicale dell'interprete è sempre esistita: se ne prenda atto con coraggio, affrontandone le  logiche conseguenze).

    L'arbitrarietà   di   questa  conclusione è solo  apparente, perché rispecchia una prassi esecutiva storicamente comprovata, ed interrotta oggi dall'incapacità di andare oltre il segno grafico apposto dal compositore.

 

 

DELLA FEDELTA' AL TESTO

 

1- Si può decidere di attenersi più o meno fedelmente al testo: si tratta di cosa lecita e che accade spessissimo nella prassi musicale.

 

2- Qualora si decida di essere fedeli al testo, senza però trascurare quella logica del brano che supponiamo per ipotesi essere la logica dello stesso compositore, è possibile dare una lettura lievemente estensiva di alcuni segni del compositore, laddove riesca impossibile, ad esempio, legare, o quando risulti impossibile staccare mantenendo  quella velocità, quel colore e quel pedale suggerito dal medesimo compositore o, semplicemente, laddove diversi segni contrastino tra loro o con la logica che riteniamo essere dell'autore.

 

3- Qualora non si voglia nemmeno modificare lievemente alcuni segni ci si troverà sempre di fronte ad una vastissima letteratura, magari originariamente clavicembalistica (è il caso di Bach), o anche pianistica, del tutto priva di indicazioni specifiche od esatte.4- In tutti questi casi, il segno dovrà sempre essere oggetto di riflessione, da relazionare comunque al suono (in senso proprio) che si è scelto.

 

5- Queste acquisizioni sono importanti perché ridimensionano lo strapotere del segno, limitando la materia ed esaltando l'idea musicale in sè,  proprio nella sua manifestazione sonora. Qui l'idea musicale dell'interprete è importante quanto quella del compositore, perché non toglie nulla alla oggettività del brano, ma ne incrementa le possibilità  di esecuzione. Così entrambe le idee saranno effettivamente complici nell'ambito di un'unica assoluta concezione dell'arte.

 

 

ERRORI ?

 

* Alzare il pedale di botto crea un effetto di rimbombo utilissimo nei crescendo, o anche nei pianissimi, laddove occorra rompere la monotonia di una frase.

 

* Sfasare tra loro le mani è spesso utile, oltre ad essere divertente.

 

* Su tastiere che non trillano bene o dal ribattuto inefficace è utile studiare articolando molto i trilli e i mordenti (invece di eseguirli a contatto col tasto).

 

* Pedali non cambiati dove si dovrebbe producono sovrapposizioni armoniche insostituibili.

 

* Alterare la corretta posizione del polso alzandolo a dismisura per ottenere ottave più piene colpendo il tasto dall'alto; alzare la mano più del necessario; staccare lateralmente quando non ce ne sarebbe bisogno apparente: tutte cose lecite ed opportune talora per favorire il rilassamento della  muscolatura talaltra per  calibrare diversamente il suono.

 

* Ottave molto forti nel registro più basso possono essere sporcate con due o più note colpite col palmo della mano.

 

* Ottave  dalle sonorità estreme ineguali sono spesso utili per dare spessore al suono.

 

* Velocità e legato sono in genere inversamente proporzionali; tuttavia in velocità il suono potrà sembrare eccessivamente percussivo in presenza di una articolazione errata. Sarà opportuno tornare al legato ed al lento.

 

* Apparentemente chiunque è capace di legare. In realtà in molti casi il suono è percussivo, e il pedale nasconde le imperfezioni. Perciò queste ultime appaiono invece evidenti in fughe di Bach, unico banco di prova per saggiare la capacità di legare e staccare in modo indipendente tra le mani.

 

*Parrebbe che l'esecuzione perfetta di trilli e mordenti  sia  la  meta  dei pianisti. Vale a dire che essi si sforzano di suonare tutte le note realizzandole  matematicamente, ritmicamente. Tuttavia, esaltare questo aspetto, specie nella musica barocca, 'tematizza' gli abbellimenti, che perdono in tal modo il loro carattere improvvisativo. Pertanto essi vanno sovente realizzati in maniera più libera, anche se non necessariamente meno limpida, ed in  modo differente di volta in volta, magari accelerando o decelerando nel corso dell'esecuzione. Rispetto alla rigidità del segno si consulti poi il manuale di J. C. Bach, laddove tratta della libertà di realizzazione.

 

* Polifonia sembrerebbe indicare che in una fuga di Bach bisogna marcare le entrate. Ciò potrebbe significare eseguirle più forte, o in modo accentuato. Ma  questo può essere valido soltanto per i  "pianisti" di Saint-Saens: le nuove entrate vanno  messe in rilievo  , non necessariamente suonandole più forte delle altre voci: uno stacco improvviso tra forte e piano può mettere in rilievo una entrata molto meglio di un incessante crescendo delle voci. Occorre notare, quindi, che a differenza di quanto viene comunemente insegnato, la diversità tra le voci è questione di suono e di tocco,  non di  simmetria matematica.

 

 

DEL  REPERTORIO

 

   Ecco brevemente alcuni consigli:

 

1- Mai studiare un intero corpus di studi , ma scegliere soltanto i migliori. In certa misura ciò vale anche per opere troppo lunghe, o di cui non piace qualche numero: eseguire per forza l'intera opera è soltanto una convenzione.

 

2- Non fidarsi della notorietà quale criterio di scelta del proprio repertorio. Se tutti sono in grado di suonare un brano significa evidentemente che quel brano è alla portata di chiunque (non solo in senso tecnico). Scegliere brani che caratterizzano la personalità e l'individualità.

 

3- Non eseguire mai lo stesso programma per più di tre concerti, ma variare, nella misura in cui sia possibile seguendo uno schema di rotazione (ad esempio: ABCD; EFCD; GHEC; ILFD; GHIL). Ciò consentirà di  aggiornare il repertorio continuando contemporaneamente a proporre concerti. 4- Non preoccuparsi di dover mantenere ad ogni costo il maggior numero di brani per  lungo tempo, ma lasciarli da parte con semplicità  dopo  averli eseguiti in alcuni concerti; eventualmente essi potranno essere ripresi in seguito,  arricchiti di  nuove soluzioni tecniche e musicali dovute alla lunga sedimentazione interiore.

 

5- Scegliere preferibilmente brani rari, inediti, ineseguiti; scegliere edizioni o versioni divergenti da quelle consuetudinarie; proporre soluzioni ed accostamenti originali; 'citare'  le variazioni di qualche grande inerprete.

 

6- Riscoprire le trascrizioni e le opere di autori famosi ma poco eseguiti: esse hanno grande dignità ed importanza artistica, specie quando si  trasformano in vere e proprie reinvenzioni.

 

7- Crearsi una zona di  'affinità spirituali', evitando di  cadere  nella  trappola  tesa  dall'affermazione  che  l'interprete  debba  "possedere  il  maggior  repertorio  possibile".  Ciò è falso, ed è dimostrato dai fatti. L'interprete deve conoscere  il maggior numero possibile di brani, e studiarli  con serietà , ma non necessariamente deve farli entrare in repertorio se si accorge nell'esecuzione di non essere in sintonia con quel tipo di produzione.

 

8- Non trascurare i brani di musica contemporanea: in ogni tempo tutti i più grandi autori  ed esecutori hanno eseguito prevalentemente composizioni di musicisti viventi. Se dovesse prevalere la nefasta abitudine di escludere dalle sale da concerto questa produzione, la morte dell'arte troverebbe camere mortuarie, sudari, sarcofagi (il pianoforte dà talora questa impressione) adatti allo scopo. E purtroppo i cadaveri che muovono le dita sono già la maggioranza.

 

9- Non rendere più rigidi i confini tra generi musicali attraverso scelte unidirezionali: tali barriere reggono talmente bene da non necessitare di ulteriori supporti. Conservare una grande apertura mentale verso generi, stili, forme differenti (ciò potrebbe sembrare ovvio: ma nella realtà quanti pianisti si concedono improvvisazioni con  jazzisti?  quanti   includono in repertorio brani mutuati da altri generi ?).

 

10- Tenere in giusto conto  le esigenze del pubblico, l'occasione, il tipo di sala, ma senza demonizzare questi elementi. La sala può essere sfruttata per creare effetti diversi  (e può contribuire a rendere unica e memorabile l'esecuzione). Il pubblico va prima persuaso e conquistato (con la convinzione nell'esecuzione e, se occorre, con un pizzico di istrionismo) e poi educato. L'occasione va pilotata ed indirizzata secondo i propri fini.

 

OPERE  DISPONIBILI

 

J. S. BACH, Fantasia in sol min. BWV 920, nella versione di Egon Petri, Breitkopf n. 4322

 

. KALKBRENNER, Fuga a quattro voci in sol maggiore per sola mano sinistra, Schirmer.

 

H. BERENS, Studio in do min. op. 89 n. 9 per sola mano sinistra.

 

E. SATIE,  Douze  petits  chorals  (rev. Caby),  Salabert.

 

E. DOHNANYI, Studio in la min. op. 28 n. 1, Editio Musica Budapest.

 

E. GRIEG, Sonata in mi min. op. 7, Peters.

 

D. BRUBECK, I see Satie, in Clavier, febbraio 1987.

 

G. GERSHWIN, Improptu in two keys, New world music corporation.

 

M. MUSSORGSKY, Sonata in do mag., per pianoforte a quattro mani.

 

C. SCHUMANN, Romanza in la min. op. 21 n. 1, Willy Muller Suddeutscher Musikverlag- Heidelberg.

 

C. DEBUSSY, Images  (oublièes).

 

O. RESPIGHI, Notturno, F. Bongiovanni.

 

BACH- JLJIN, Studio   per  pedaliera,  trascrizione per pianoforte.

 

V. RIETI, Variazioni enarmoniche, per due pianoforti o pianoforte a quattro mani, inedito.

 

BACH- SILOTI, Preludio in si minore.

 

BACH-FELS, Preludio corale BWV 742, trascrizione per pianoforte, inedita.

 

BACH- KISTLER-LIEBENDORFER, Fantasia BWV 651,  distribuita da Schott Freres.

 

C. DEBUSSI- M. RAVEL, Prélude à l'après-midi d'un faune, trascrizione per pianoforte a quattro mani.

 

H. DOHNANYI, Fuga  in re min., per mano sinistra sola o per due mani inesperte.

 

G. GERSHWIN, Two waltzer, New World music corporation.

 

C. COREA, Musicmagic, per voce e pianoforte, Litha music co.

 

D. BRUBECK, Points on jazz, versione di H. Brubeck per pianoforte solo, Derry Music Co.

 

G.E. FLORENCE, Sweet Pickles, Dover.

 

M. AUFDERHEIDE, Dusty, Dover.

 

D. MILHAUD, Le Boef sur le toit, versione per pianoforte a quattro mani, Max Eschig.

 

E. SATIE,  Quarto notturno, Max Eschig.

 

A. SAVINIO, Les chants de la mi-mort, Suite per pianoforte, Suvini Zerboni.