Antitetiche
dell’audiovisivo
di Girolamo De Simone
I.
Diéghesis è “il racconto”. Alcuni ritengono che il
racconto sia ‘narrazione’, e che pertanto la colonna sonora debba essere una
‘scatola’ più grande del racconto.
Infatti la colonna sonora può o meno esprimere suoni
che seguono la narrazione: i suoni diegetici possono essere in campo (in)
o anche fuori (esterni al) campo (off), laddove il “campo” è la cornice
inquadrata dalla macchina da presa. Essi sono relativi alle azioni, ai rumori
collegati alla scena (dentro o fuori campo), al contesto sonoro, al
‘sottofondo’.
Suoni ‘extradiegetici’ (over) sarebbero
invece quelli al di fuori della diéghesis, del racconto, e quindi non
apparterrebbero al campo (in), né si collocherebbero al ‘fuori campo (off): le musiche
che accompagnano o evidenziano talune emozioni, creano atmosfera, etc; il campo
‘extradiegetico’, secondo la lettura classica, si collocherebbe pertanto al di
fuori della narrazione del film pur facendo parte della più ampia ‘scatola’
della ‘colonna sonora’.
La stessa musica può cambiare ‘posto’ all’interno
della colonna sonora e collocarsi altrove nello schematismo appena illustrato.
Faccio un esempio, partendo dalla ‘scatola’ più piccola alla più grande:
-un direttore dirige l’orchestra: diegetica Þ in
-la musica continua, il direttore esce di campo, ma
i personaggi reagiscono ancora all’ascolto: diegetica Þ off
-la musica continua, cambia la scena, il personaggio
non reagisce e la musica appare decontestualizzata: extradiegetica Þ over
Ma: il racconto contemporaneo non è necessariamente
in forma di ‘narrazione’, non è necessariamente ‘lineare’. Forse nemmeno è solo
un ‘racconto’, perché il senso nell’arte di oggi sopravanza il prodotto (il senso
sopravanza l’opera).
Le riprese non si avvalgono necessariamente di
‘campi’ o di scene individuabili sempre. Alla dizione ‘diegesi’ andrebbe
sostituita quella, meramente tecnica, di ‘girato’.
L’ambiguità della parola ‘girato’ consente di
nascondere l’autore di quel girato. Il ‘girato’ potrebbe essere quello di una
telecamera fissa (scene di crimine), priva di autore. O potrebbe essere
catturato dal web, da materiali free, probabilmente girati con web-cam.
Le ‘reazioni’ alla musica non sono facilmente
individuabili, e cadono in una sorta di limbo indistinto di ‘azione-reazione’,
laddove anche una apparente ‘non reazione’ di un personaggio può indicare
profonda correlazione con la musica che agisce, ed una apparente ‘reazione’ di
personaggi o ‘animazioni’ potrebbe invece simularla: si pensi alle reazioni random
puramente meccaniche di animazioni per il web. Il ‘girato’ potrà poi essere o
meno ‘montato’. Le piattaforme digitali consentono di condividere (mettere in
comune) file video compressi sui quali comunità di liberi operatori
intervengono in successione. In tali casi anche le musiche possono essere
modificate, o semplicemente svolgere una funzione di ‘sfondo’ sonoro. Le azioni
di ‘montaggio’ comunitario possono essere poste in essere anche solo per
‘assonanza personale’ con l’audio, e funzionare anche a caso. Da John Cage in
poi, la sonorizzazione dal vivo segue percorsi emozional-improvvisativi privi
di aderenza determinata (pur con alcune autolimitazioni d’arbitrio). Fluxus ha
poi sviluppato sapienza di happening con sonorizzazioni dal vivo di
immagini (oggi di net-image), con un fluire della musica puramente
emozionale, certamente non-lineare. Anzi, in ragione della non linearità
(anche) del non-lineare tali performance o sonorizzazioni hanno svolto al
meglio la loro funzione. Anche da questo punto di vista, il senso della musica
è funzione.
II.
I rapporti tra audio e video vengono sottoposti ad
‘analisi’. Tale analisi si avvale di una metafora temporale: i rapporti
sarebbero ‘sincronici’ (quelli di una singola scena o sequenza
temporale); e ‘diacronici’ (quelli esistenti in un intero film; con
richiami, sviluppi o contraddizioni tematiche). Il presupposto dell’analisi si
basa sull’esistenza di due ‘livelli’ separabili: quello visivo e quello sonoro.
Quando il livello sonoro segue passo a passo quello visivo, allora si parla di
‘parallelismo’, sorta di forma pura in cui azione e reazione coincidono. Un
parallelismo ‘dinamico-ritmico’ ci sarebbe ad esempio nelle scene di
inseguimento, in cui all’incalzare della corsa corrisponde un incremento della
velocità nella successione tra i suoni (ritmo). Ci sarebbe poi un ‘parallelismo
convenzionale’, ovvero la possibilità di usare musiche che convenzionalmente si
ritiene (per moto, forma, tonalità, etc.) possano adeguarsi alle immagini di un
certo tipo. Come è noto, esistono dei veri e propri ‘prontuari’, in uso fin
dalla nascita dal cinema muto, che contengono indici di musiche, temi, tonalità
adatti a questa o quella situazione-emozione video da sottolineare.
Ma: ogni libro di linguistica prescrive che “occorre
non confondere ‘diacronico’ con ‘storico’ e ‘sincronico’ con ‘attuale’”. Ciò
che avviene in ‘diacronia’ avviene letteralmente ‘attraverso il tempo’,
contrapposto al ‘simultaneo’ del sincronico. Oggi ciò che avviene in simultanea
con le immagini può tranquillamente simulare una ‘diacronia’, o addirittura una
‘assenza’ di tempo (‘acronia’), ad esempio attraverso l’uso di strutture
ipnotiche ripetitive (minimal) o statiche (Scelsi, Part). è altrettanto evidente che un uso
differito e ripetuto nel tempo della sincronia (medesimo tema sincronizzato
alla scena con piccoli aggiustamenti) può portare facilmente all’illusione
della ‘pancronia’ ovvero dell’uso di musiche che valgono per qualsiasi
situazione. Tale uso è quasi abuso e abitudine nelle musiche da spot televisive;
esse vengono poi adeguate a sigla di programma televisivo; poi ancora adeguate
a musiche-sfondo radiogeniche; infine nuovamente adeguate a musiche da vendersi
su supporto digitale...
Il successo di una sonorizzazione si ritrova in
misura proporzionale in ragione dell’inscindibilità (nella memoria successiva)
tra livello sonoro e livello visivo. Si pensi alle musiche di John Barry per il
volo in aereo del film “La mia Africa”. Come scinderle analiticamente tra
livelli? Lo stesso rumore del motore dell’aereo (che è presente o assente
assecondando la visione o ancor meglio la componente visionaria della scena)
come può essere considerato ‘sincrono’? Quel rumore è una componente essenziale
di quella sonorizzazione, nella prospettiva del percepire e del ricordare.
Il becero parallelismo dinamico-ritmico non è mai
nemmeno sincrono: sennò sarebbe comico. E il parallelismo convenzionale, che
esiste storicamente, si basa su associazioni di qualità e di senso oggi non più
date (per scontate): la tonalità consegnerebbe senso e stabilità, la atonalità
turbamento e la dodecafonia ‘attesa angosciosa’? suvvia, ormai anche la
pubblicità usa questi linguaggi, e le vendite non calano!
III.
Il ‘contrappunto’ che l’estetica audiovisiva
vorrebbe attingere dalla storia della musica viene definito come una linea
melodica (livello sonoro) che procede ‘per moto contrario’ rispetto al livello
visivo. Ciò starebbe a significare una non assoluta autonomia della musica, la
quale manterrebbe una relazione di contrapposizione/conflitto con le immagini.
Tale ‘contrappunto conflittuale’ svolgerebbe funzione referenziale (informare
lo spettatore di qualcosa non ancora apparso); interpretativa (informare dello
sensazioni del personaggio); straniante (mantenere lo spettatore attivo usando
il sonoro in modo imprevedibile); ironico-grottesca (onde generare comicità);
estetica (contrasti tra audio e video che servono al solo piacere estetico).
Ma: il contrappunto musicale non è assolutamente
soltanto per moto contrario. Esso può essere di molteplici specie (e qui non
interessa trattarle), basti sapere che già il contrappunto semplice di tipo
uguale può essere per moto retto, contrario o perfino obliquo. Un movimento
schematicamente sempre per moto contrario, come è noto, è solo in poche primitive
forme di polifonia. Solo per ignoranza della terminologica musicale si può
credere che ‘punto contro punto’ significhi ‘moto contrario’. Indica piuttosto
che a nota (o meglio a “suono unico”) corrisponde nota.
Rispetto alle funzioni: come può un contrappunto,
pur accettando per un attimo la definizione erronea in uso comune, essere
‘conflittuale’, cioè alludere temporalmente a qualcosa di differito nel tempo?
O non sarebbe più contrappunto (ma cosiddetto parallelismo) o negherebbe la
definizione data (che si è visto essere erronea) ... Come può un contrappunto
che procede per moto contrario rispetto alle immagini ‘sorprendere’ lo
spettatore e mantenerlo attivo? Il moto contrario è prevedibilissimo... Come
può un contrappunto essere in contrasto con le immagini ma risultare in
sintonia con le emozioni del personaggio? In sostanza la nozione è da
abbandonare.
Nota a margine. Talora si portano ad esempio le tesi
Brecht, noto per prediligere musiche con effetto ‘straniante’ rispetto alla
narrazione. O meglio, musiche “nettamente separate”. Ciò era sostenuto nella
convinzione che la fusione tra diverse arti fosse una sorta di ‘minestra
riscaldata’. Un’opera che contenesse diverse arti o elementi, comporta per
Brecht che tutti questi elementi vengano “necessariamente degradati in egual
misura”. Oggi questa visione ‘gerarchizzata’ tra generi, stili, arti, non trova
diritto d’asilo. Anzi, a ben vedere, ciascun elemento, se ben trattato, può
esaltare l’altro, senza alcuna necessità di mantenersi ‘puro’ o ‘integro’.
IV.
Effetto ‘empatico’ sarebbe quello che il
suono suggerisce nel suo andamento ‘parallelo’ o ‘contrappuntistico’. Starebbe
a significarsi, ad assecondare o contrastare il livello visivo. Effetto ‘anempatico’
sarebbe invece quello indifferente al contenuto visivo ed emozionale, e
tuttavia si manterrebbe all’interno della diéghesis, del racconto, riproducendo
una “realtà sonora aleatoria”...
Ma: se i suoni che appartengono al racconto (rumori,
vita che scorre, etc.) sono aleatori, come possono non rinviare ad altro dal
racconto medesimo? Due sono le strade: o essi disegnano la vita che scorre in
modo reale (o meglio con finzione realistica) oppure non fanno parte del
racconto lineare, ne sono del tutto scollegati, e allora rinviano ad altro.
Quindi nel rinviare ad altro non possono essere il panorama sonoro di ‘quel’
racconto. Necessariamente essi creerebbero, proprio come i suoni ad effetto
‘empatico’, una reazione ‘per contrasto’, come quella che si vorrebbe assegnare
al cosiddetto contrappunto...
In effetti oggi i suoni ed i rumori appaiono con una
contiguità estetica mai vista. Difatti è del tutto indifferente attribuire o
non attribuire i rumori al racconto, legarli o meno alle scene, perché tali
rumori fungono da arredamento sonoro esattamente come i suoni fabbricati
apposta o le musiche predisposte ed usate per tale scopo (fare sfondo, come
accade per le musiche ambient o di frontiera, che assecondano le istanze
estetiche della contemporaneità). Dire questo significa essere consapevoli
della perfetta ‘funzionalità’ della musica, la quale si presta ad esigenze
variegate o a scopi puramente ‘mercificati’. Ciò nulla toglie alla possibilità
di valore estetico, a prescindere dall’uso che della musica o del suono si fa;
dalla pubblicità al suono del cellulare, dalla sigletta del computer ai rumori
degli spot, da piccoli pezzi midi usati quando si apre una pagina di net-art
alle complesse elaborazioni di filigrana video e sintesi granulare del suono:
ogni produzione non è esclusa, per sua natura, da una validità estetica
assegnata a posteriori (assunto importante per evitare un intervento della
volizione dell’autore). Ogni produzione raggiunge un suo esito nella funzione
svolta. Spesso tale funzione è comunitaria.
Nota a margine. Si dice che l’effetto anempatico in
realtà si ‘finge’ aleatorio e diventa quindi un “contrappunto anempatico”,
sorta di contraddizione in termini considerando l’intenzionalità empatica (pur
se per contrasti) del contrappunto (come da erronea definizione in uso). Ci si
chiede quindi la ragione di queste categorie analitiche, se poi in fondo non
possono contribuire né alla ‘fabrica’ dell’opera né alla sua fruizione.
Altra nota a margine: qualcuno dice che l’effetto
anempatico avrebbe nella produzione sonora un suo posto privilegiato, perché il
cinema sarebbe “la forma espressiva maggiormente aderente alla realtà”, e
quindi essere luogo in cui l’anempatia trionfa (ricordo che anempatici
sarebbero i suoni aleatori, quelli della vita che scorre). Anzi nell’anempatia
si troverebbe la specificità sonora che individua il film. Non vorrei
commentare queste affermazioni; dire che il cinema sia forma vicina alla realtà
(quando come è noto e largamente accettato il cinema contemporaneo può
creare/ricreare luoghi e suoni dell’immaginazione tradita dell’uomo) è davvero
improponibile. Peraltro il cinema esiste a causa di un errore nella nostra
percezione visiva. A causa della persistenza retinica il nostro occhio crea un
effetto di cross-fade che simula il movimento. Per definizione il cinema
è il luogo della finzione. Inoltre col regno del digitale, il discreto si
sotituisce al continuo, con perdita di informazioni. Per questo aumenta la
possibilità di simulare le cose che immaginiamo: il dato digitale è un numero
che possiamo trattare a piacimento e nella misura della sua artificialità
risiede anche la sua maggiore adattabilità ai desideri creativi di chi opera.
La frontiera tecnica è il tentativo di recuperare le informazioni perse quando
si passa dal continuo dell’analogico al discreto del digitale...
V.
Usato nel cinema, si è tentato di inscatolare pure
il silenzio. Chiamandolo diegetico o extradiegetico, o argomentando che
nel cinema muto il silenzio veniva subito dagli spettatori, e le immagini ne
risentivano diventando ‘spettrali’.
Ma: il silenzio, almeno, sfugge a qualsiasi
catalogazione. Maesto del silenzio determinato fu ancora Cage, che in occasione
di un suo brano fatto d’assenza, appose in partitura un fortissimo laddove uno
spettatore uscì dalla sala sbattendo la porta.
Il silenzio indeterminato, invece, quello della vera
alea, assume il senso duttile ed evanescente che alla teoria
dell’assenza di suoni si può dare: il silenzio non esiste. Dove c’è silenzio
c’è il nostro corpo, il sangue che pulsa nelle orecchie, il cuore.
Silenzio in musica esiste solo nella nozione
relativa della ‘pausa’: dell’alternanza tra un suono e un silenzio, da cui
spesso il suono trae la sua pulsazione. Questo silenzio musicale diventa allora
per la mente luogo di sopravvivenza del bit strutturale. La nostra testa
continua a scandire quel moto pulsante, quel reticolo temporale sul quale
cadono, indistintamente, suoni e rumori, qualificando o evadendo lo scorrimento
di senso delle immagini.