Toop ed
Eisenberg
Girolamo
De Simone
(BORDER / Angeli, oceani e fonografi)
Ho ripescato in biblioteca, per le mie letture estive, Oceano di Suono, di David Toop, e L’angelo con il fonografo, di Evan Eisenberg. Sono due piccole ‘bibbie’ (la prima pubblicata da Costa&nolan, la seconda da Instar-libri), ideali per disegnare la geometria, una delle geometrie possibili, del polimorfo mondo delle cosiddette “musiche non convenzionali”. Toop, musicista londinese, spazia dai gruppi di improvvisazione neri, Don Cherry e l’Art Ensemble of Chicago, ai bianchi di Musica Electronica Viva, la Music Improvisation Company, gli italiani di Nuova Consonanza, e lambisce i territori world delle registrazioni etniche (viaggi reali o metaforici nel Giappone o nelle foreste dell’Amazzonia), della Ambient di Brian Eno, e approda alle ‘terre di nessuno’, itinerari originali come quelli Harold Budd e Jon Hassell. L’universo sonoro che ne viene fuori è composito: linee e riferimenti si incrociano, senza rigide scansioni periodiche o tentativi di congelare i musicisti nelle strette maglie della definizione di genere. Col risultato di un affresco eteroforme, in cui è difficile ricondurre al noto i singoli tasselli, raccogliendo un effetto d’insieme stupefacente.
Le musiche sono quelle di Eric Dolphy (Out To Lunch), dell’elettronico Richard Maxfield (New Sound in Electronic Music , con Steve Reich e Pauline Oliveros), Thomas Koner (Permafrost), Lucier Alvin (Music for Solo Performer), David Sylvian (Weatherbox). Ma anche, consegnandocene una visione prospettica inusuale, quelle di Charlie Parker (il contestato Repetition del ‘48), Chet Baker, Jimi Hendrix, Messiaen, Cage, e naturalmente Erik Satie. Le pagine, per una volta sorprendentemente attuali, ci raccontano di città cablate, megalopoli hi-tech in cui le persone si collegano ad Internet non per accedere al mondo iperuranio, ma per riscoprire, nel nuovo isolamento tecnologico, “qualcosa di somigliante alla vita comunitaria”; e romanzano, dal lato opposto, una musica per replicanti, basata sul dubbing, preferibilmente urbana, rurale, mistica, lo-tech; di muzak, di raffinati suoni infinitesimali che orecchie educate possono raccogliere dai raga indiani, di Terry Riley che impara da Pandit Pran Nath un’arte che riprende con precisione la splendida curva tra suoni di differente altezza, delle espansioni cosmiche di Sun Ra. Toop accenna alle vicende del nuovo universo sonoro legato allo sviluppo delle tecniche di registrazione, di suoni e rumori organizzati, con la tape-machine, in cui “otto piste non erano mai abbastanza” e della svolta del nastro da 2”, che divenne per i compositori “l’equivalente della carta per uno scrittore”. Un filo rosso che riporta all’ L’angelo con il fonografo di Evan Eisenberg: un libro più lieve, perché il suo autore è un newyorkese che fa il critico musicale. Anche lui riprende il tema della muzak, che “programmata dagli ingegneri sociali per massimizzare l’efficienza dei lavoratori”, man mano si trasforma nella “timida sfida all’ordine sonoro di una società libera”. Alcuni autori vengono ripresi, Varèse primeggia, Satie fa capolino, ma sempre dal punto di vista del disco, una cosa (thing) privata che facilmente diventa collettiva (thang), “un mondo inciso dall’uomo in una forma che gli possa sopravvivere”.