Addio Pietro Grossi
(il manifesto 23-02-02)
Girolamo
De Simone
L’altro ieri sera (giovedì 21 febbraio) si è spento a Firenze il compositore Pietro Grossi, considerato uno dei padri della musica elettronica italiana per aver fondato lo studio fiorentino “S2FM” ed aver ricoperto dal 1965 la prima cattedra ‘ufficiale’ di musica elettronica presso il Conservatorio di Firenze. Con Giuseppe Chiari, esponente di rilievo del gruppo Fluxus, fu tra i primi a divulgare in Italia le opere di John Cage, con i concerti della “Vita Musicale Contemporanea”. Grossi ebbe straordinari meriti scientifici, perché sperimentò da pioniere le prime tecniche di “taglia e cuci” con il nastro, realizzando, nella fase che denominava “ante bit”, interessanti opere di musica concreta, e arrivando ben presto a sperimentare tecniche di utilizzo musicale del computer. A quel tempo, «i suoni elettronici potevano essere suoni registrati da un microfono, suoni di vari natura, rumori qualsiasi, che venivano registrati anche della strada, e provenire da qualsiasi movimento e da qualsiasi impatto». Questa fase, incisiva, verrà ricordata per alcune straordinarie composizioni in grado di anticipare quello che poi sarebbe accaduto realmente nelle pratiche della vita musicale odierna. Nei suoi “Sketch”, ad esempio, lavora su frammenti tratti dalla pubblicità e su voci di speaker radiofonici: li mescola come poi avrebbero fatto i dj. Grossi raccontava che la sua iniziazione elettronica era passata attraverso la mediazione del violoncello, strumento che suonò per trent’anni, da virtuoso, nell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. Ma nonostante il suo amore per la prassi strumentale, definiva “inerti” il violoncello e gli strumenti tradizionali, perché incapaci di suonare senza l’intervento dell’uomo. Il “colpo di fulmine” per il computer, ed il conseguente allontanamento dal violoncello, avviene nel 1967: “in cinque minuti ho suonato alla perfezione il quinto capriccio di Paganini. Negli altri cinque ne ho fatto quello che ho voluto”, grazie al computer. Una testimonianza di quell’esperienza è possibile reperire nelle sue sorridenti trascrizioni di classici della musica colta e jazz: dallo strepitoso “Sacre” di Stravinskij realizzato a Pisa negli anni Ottanta, alle composizioni di Erik Satie, Strauss, Joplin.
Anche il contributo etico-politico di Pietro Grossi è stato notevole, perché riteneva che la musica non fosse ne dovesse essere ricollegata ad un concetto stringente di ‘proprietà’: mi raccontava ironico di come avesse realizzato un pezzo, chiamato “Collage” per dichiararne esplicitamente la composizione attraverso tecniche di assemblaggio, fondendo e sovrapponendo, alla fine radicalmente alterando, molti lavori di altri compositori elettronici. Ripeteva il motto “Tutto per tutti infaticato...”, di Renato Famea, ritenendo che fosse ridicolo nell’epoca della tecnologia, o se si vuole, nell’epoca della riproducibilità tecnologica, perdere tempo con faticose operazioni ripetitive. Diceva che “non si può paragonare il modo di vivere prima della scoperta dell’energia a vapore con quello successivo: non si possono fare paragoni, però ha vinto lo strumento a vapore. Vince perché è più potente, non perché più bello o migliore. Vince la potenza. E se l’uomo si accorge che può ottenere tutto subito senza fare fatica si domanda per quale ragione non debba seguire la strada più comoda”: una osservazione politica, dedicare le sue energie ad un impiego esclusivamente creativo, senza perder tempo con questioni puramente meccaniche. L’attenzione critica, anche quella dei musicisti, si è risvegliata su di lui negli ultimi cinque anni, dopo i festeggiamenti per il suo ottantesimo compleanno: la pubblicazione di alcune interviste su riviste specializzate; un bellissimo volume intitolato “L’istante zero” e curato da Francesco Giomi e da Marco Ligabue; infine un introvabile testo, risalente ormai ad anni lontani, “Musica senza musicisti”. Non molti altri accessi, pochissimi quelli specificamente musicali; anche lì, opere uniche, segni di un percorso denso di straordinarie intuizioni estetiche.
Tra queste, la convinzione che occorresse utilizzare la tecnologia come occasione per imprimere un colpo mortale all’idea di possesso della creatività. Più che la proprietà dell’opera, più del pregiudizio d’autore, bisognava rivolgersi alla possibilità di ‘creare’ opere uniche, esattamente come faceva attraverso esperimenti di “Home art”: “il computer ci libera dal genio altrui e accresce il nostro”. La serialità viene così rivolta non alla creazione standard di opere identiche, ma al procedimento stesso di elaborazione al computer, riguardasse opere di videoarte o assemblaggi di musica concreta, cosa che del resto oggi imperversa attraverso le tecniche di “Vjing”. Non stupisce, quindi, che negli ultimi anni, la figura e l’opera di Grossi fosse riscoperta e rivitalizzata grazie al successo delle sue opere d’arte visiva: una mostra alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze, dedicata all’Arte ed al computer, un catalogo con una raccolta dei suoi “Fiori e Mostri”, come annotava con “pigra” grafia su eterni supporti silicei, opere legate all’eternità, trasferibilità, duplicabilità dei ‘bit’ ed alla caducità della copia “originale”, subito distrutta oppure offerta in dono, come usava fare.