Musiche
Sregolate, da Cage a Cardew
“Questa sera o mai”, ultima fatica di
Mario Gamba (Questa sera o mai. Storie di musica contemporanea, Frosinone, aprile 2003, Fazi
Editore, pp. 150 - Euro 15,50)
, si può leggere davvero in una
sola notte. Vi è disegnato un paesaggio variegato, composto da
musicisti “non popolari” (e il termine assume più significati), che presto
assumono le sembianze di “personaggi principali” di un racconto, quello della
musica contemporanea più radicale e ‘desiderante’, nel quale fanno capolino e
vengono riproposti con frequenza inversamente proporzionale alla retorica del
loro linguaggio compositivo.
Gli autori che meglio mantengono la promessa entrano in
scena subito, fin dal primo capitolo: Heiner Goebbels, Pierre Boulez, György Kurtàg... . Vi si affiancano
alcuni mostri sacri, numi tutelari dell’avanguardia: John
Cage, La Monte Young,
Morton Feldman, Karlheinz Stockhausen ed altri,
numerosi, che sono contemporanei in una più vasta accezione del termine,
precisata in alcuni statement fusi nel testo, sorta di dorsale ‘estetica’
del volume. Tra questi, la convinzione che le regole «costringono, inutile
negarlo. Mai quanto i modi di pensare, di essere, di
insegnare che finiscono per introdurre regole ovunque, anche dove sembrano
fuori luogo per definizione: così le abbiamo tonali, atonali, dodecafoniche,
rumoriste, aleatorie. Resta spazio per
ribellioni creative». L’idea di ‘rivolta’ ricorre generosamente: «le rivolte musicali non mancano. Contro i
musei della cultura polverosa ed esclusiva, contro i musei del moderatismo
populista». Ed è proprio così, dacché il presupposto della cosiddetta
‘difficoltà’ di certa musica d’avanguardia, e la ‘facilitazione’ un po’ meretricia con la quale si producono musiche col solo
intento di facilitarne la fruizione alla fine poggia
sul falso presupposto che la gente comune, il ‘popolo’ appunto, non possa
essere in grado di accogliere, capire, amare anche le strutture complesse o
radicali (dove il termine ‘complesso’ implica un dato quantitativo e non un
giudizio di qualità). E tuttavia apparve tra gli
apostoli dell’antimperialismo militante un Cornelius Cardew che attaccò
proprio Stockhausen e Cage,
e poi andò a suonare nelle fabbriche, ripescando armonia e arpeggi minori. Ma Gamba è raffinato, non pone la questione della tonalità come
dirimente, perlomeno non nel testo, laddove numerosissimi esempi lo conducono
ad apprezzare brani che, pur tonali, appaiono comunque ‘radicali’, ribelli,
forse eversivi. Dove l’intento sia
invece quello di ‘restaurare’ un ordine già frantumato, allora sarà la musica
non tonale ad avere maggiori possibilità di trasformarsi secondo Gamba in
avventura di comunicazione anche “desiderante”. Lo stesso autore non manca però
di raccontarci come alla Biennale Arte accorrano Tg e giornalisti dell’ Unità, e che così avveniva ai tempi
di Nono anche per la
Biennale Musica; «adesso quella passione è svanita. Intorno, nei media, in Italia”». Come mai?
Potrebbe esserci una risposta nella conversione
post-moderna delle avanguardie? Del “postmoderno in musica” viene
indicata una definizione rigorosa: «un certo uso corrente lo fa equivalere a
concetti come questi: plurilinguismo, molteplicità
dei richiami temporali, indifferenza alla coppia di opposti tonalismo-atonalismo,
eclettismo, citazionismo. Autori che non confidano nel percorso
rettilineo verso la sperimentazione sarebbero, secondo questo uso corrente,
postmoderni. Meglio (molto meglio) dire che si tratta
di autori non dogmatici e perciò squisitamente contemporanei». Eppure eclettismo e
citazionismo caratterizzarono una delle aperture di Stravinskij
contro le regole di Schönberg. Ansermet,
che le criticò cadendo purtroppo in una apologia del
tonale, fu ignorato ed isolato pur avendo individuato proprio nelle ‘regole’
della dodecafonia la difficoltà del suo radicamento . Qui soccorre una bella intuizione di Gamba, quando suggerisce che al di là
dell’edulcorato Schönberg da salotto, una componente
‘barbarica’ fosse presente anche nella sua produzione. E
quando definisce Goebbels come il compositore più
interessante della generazione post-moderna: «Lui propone in versione
“radicale” il criterio dell’uso a tutto campo di una pluralità di linguaggi.
Non sposa la “contaminazione”
pensando che così ci si accomoda sul sofà ...Si trovano nella sua
musica richiami etnici, hard-rock e underground-rock, free-jazz,
improvvisazione tonale, radiodramma, teatro, neoavanguardia europea e
americana, musica da film, pop music... Richiami? Molto di più. Nei suoi lavori
ci sono tutti questi idiomi nella pienezza del loro messaggio comunicativo
dentro la miscela rigorosa da cui scaturisce un ulteriore
linguaggio».
Nel libro i ‘brutti’ sono forse Baricco,
Sgalambro, alcuni critici ‘postmoderni’; ed i ‘cattivi’ i
musicisti colti che non hanno compreso l’importanza del rock, tra cui Boulez. Una nube avvolge Nyman, Adams, Bryars. Qualche randellata
per Glass e Mertens. Appare tra parentesi Brian Eno, ed una volta sola Giacinto Scelsi.
Spesso c’è Gianni Emilio Simonetti ma non i radicalissimi Marchetti e Chiari.
E proprio per questo è un volume stupendo, perché mai cerchiobottista,
per la raffinatezza delle scelte critiche, per le intuizioni dirimenti non
tanto tra autori diversi, quanto tra opere più o meno
riuscite perché ‘rivoluzionarie’. Un libro che riesce nell’intento di occuparsi
anche di “politica della musica” e che nella sua unicità è indispensabile
davvero leggere in una sola notte, e tenere a lungo
sul comodino.
Girolamo
De Simone
il manifesto,14 Giugno 2003