Memoria e Terrore
Sant’Anastasia: la strage della Flobert
di Girolamo De Simone
E’ di pochi giorni fa il trentaduesimo anniversario di una delle più
gravi stragi del lavoro: l’esplosione della fabbrica Flobert che nell’aprile
del Settantacinque distrusse molteplici famiglie del vesuviano. Lo scoppio lasciò
un segno indelebile sul movimento operaio, tanto che nell’ottobre dello stesso
anno il gruppo popolare dei Zezi
presentava ad una delle Feste dell’Unità una vibrante canzone, intitolata ‘A Flobert ma passata alla storia col
nome “Sant’Anastasia”, ovvero del Paese che ospitava la maggior parte delle
vittime e dei feriti. Proprio nella cittadina nascono ora molteplici iniziative
che, a partire dalla celebrazione del trentennale realizzata due anni fa, concorrono
all’istituzione di un giorno della Memoria per ricordare i caduti attraverso
musica, istallazioni e numerose iniziative collaterali.
È in gioco la riappropriazione di una memoria rimossa: del resto
Anàstasis significa “rinascita”, “guardare verso l’alto”, e così nel segno
della speranza un premio, il Fontana d’argento, ideato dallo scrittore
Francesco De Rosa, andrà ad un giovane cantautore anastasiano, Mikele Buonocore,
che ogni anno apre le celebrazioni della Flobert con il suo canto sociale e la
sua poesia d’amore e morte. Ed operatori culturali come Ciro Manfellotto e
l’associazione “Vesuviamoci” riscoprono le foto, i nomi, le storie dei caduti e
promuovono attività di conservazione dei luoghi, per la costruzione di quei
“tasselli di memoria” che soli appaiono capaci di radicare le appartenenze
comunitarie.
Girolamo De Simone
I fatti
Venerdì 11 aprile 1975, alle 13,25, una terribile esplosione distrugge la Flobert, una fabbrica che produce proiettili d’arma giocattolo e fuochi d’artificio, situata alla contrada Romani a Sant’Anastasia, alle pendici del Monte Somma, nel vesuviano. Quel giorno sono al lavoro circa sessanta dipendenti, tra cui motissime donne. Vicino alla baracca da cui promana la prima deflagrazione, piena di circa 200.000 cartucce, vi sono tredici operai, dei quali dodici muoiono sul colpo, scaraventati fino a cento metri dal luogo dell’esplosione. Sono quasi tutti giovani, d’età compresa tra i venti e i quarantadue anni. Provengono da molti paesi della provincia partenopea: Sant’Anastasia, Somma Vesuviana, Pollena Trocchia, Pomigliano d’Arco, Cercola, S. Sebastiano al Vesuvio, Portici.
Dieci degli operai scomparsi avevano iniziato a lavorare solo due settimane prima; altri dieci, tra cui cinque donne, subiscono ferite anche gravi.
Non si riesce ad accertare la vera causa dello scoppio: si ipotizza un innesco da cicca di sigaretta (ipotesi poi esclusa dalle successive indagini), forse lasciata cadere da uno degli operai, molti dei quali, si scoprirà, lavoravano al nero in capannoni di lamiera e legno e privi di qualsiasi requisito di sicurezza (gli operai risulteranno assunti solo cinque giorni prima, ma le testimonianze documentano anche la presenza di lavoratori al nero).
Dopo lo scoppio, i soccorsi giungono dapprima dagli abitanti, e poi dalle forze dell’ordine. Si trovano davanti brandelli di carne, due figure carbonizzate attaccate ad una grata, colte dalla morte nel tentativo di sfuggire alle fiamme, teste staccate dai corpi, dita e braccia disseminate nei campi circostanti e sugli alberi nella campagna. Di un operaio non si ritrova nemmeno il cadavere. Polverizzato, disperso dalla violenza dell’esplosione.
A Sant’Anastasia tutti avvertono la gravità della strage. Noi bambini sentiamo nell’aria il puzzo della polvere da sparo, e per giorni non si parla d’altro. Il Comune proclama il lutto cittadino.
Ai funerali, che si tengono negli
spazi della Casa del Pellegrino all’interno del Santuario della Madonna
dell’Arco, vengono gli operai di molte fabbriche vicine, assieme a migliaia di
persone comuni. Poi i feretri vengono trasportati tutti assieme al cimitero del
Paese, su camion militari, dove una lapide recita: Pagarono con la vita il pane, la
pietà del popolo li volle qui riuniti.
Ancora oggi quel monumento
attende di essere terminato, ed è impossibile attribuire i nomi alle sepolture.
I nomi, nomi d’operai, vengono elencati in ordine alfabetico, e la ruggine
aggredisce il ferro mai ridipinto del monumento. Sul luogo ove sorgeva la
fabbrica oggi nuove costruzioni hanno lasciato poche rovine, sbarre di ferro
contorte dal tempo. Memoria che svanisce a dispetto del nuovo nome della
strada. “Via Caduti sul lavoro”. (Girolamo De Simone)
La canzone della memoria
Intervista a Pasquale Terracciano
di Girolamo De Simone
Tra gli operai accorsi da Pomigliano, cittadina confinante con
sant’Anastasia, c’è Pasquale Terracciano, uno degli autori della celebre
canzone ‘A Flobert. detto ‘o Pissillo, Pasquale aveva cominciato giovanissimo a
studiare il pianoforte con i padri Agostiniani della Chiesa del Carmelo di
Pomigliano d’Arco. Dopo aver vissuto varie esperienze musicali “leggere”,
nell’estate del 1974, poco prima dello scoppio della fabbrica, aveva fondato insieme
a Tonino Esposito detto ‘o Stocco, Pasquale Bernile, Antonio De Falco ed altri
il gruppo de ‘E Zezi
Nell’estate del 75 ‘E Zezi
partecipano alla Biennale di Venezia; nel 1976 al Festival Internazionale delle
tradizioni popolari di Rennes (Francia), rappresentando
Qual è il tuo ricordo di quel
giorno terribile?
Era già passato mezzogiorno, uno scoppio aveva catturato la nostra attenzione, e dalla piazza di Pomigliano si intravedeva una nube di fumo… ed un silenzio “assordante” regnava; curiosi di sapere e con la speranza di apportare aiuto ci dirigemmo verso il luogo suggerito dalle prime notizie, ovvero la masseria Romani.
Al nostro arrivo ci risulta impossibile arrivare fino al posto dello scoppio: c’era un cordone di sicurezza delle forze armate, e tante autoambulanze che a sirene spiegate si dirigevano proprio lì; il blocco iniziava davanti alla Chiesa dei Romani. Intorno a noi solo silenzio interrotto da grida strazianti… dopo qualche ora ci si rendeva conto della gravità dell’accaduto; la non sicurezza del lavoro ed il continuo perseguire dell’utile da parte dei chi voleva a tutti i costi guadagnare, faceva sì che regnasse la morte e che ancora una volta altri lavoratori perdessero la vita laddove volevano invece procurarsi di che vivere.
Mi sintetizzi la storia della canzone?
Sulla scorta di quanto Rosa Balestrieri, Otello Prefazio, Maria Carta ed altri cantavano in quegli anni e grazie alla conoscenza diretta degli stessi e dell’ aver vissuto i loro spettacoli trascrivemmo le scene, la cronaca, le sensazioni ed il ‘prezzo’ che si doveva pagare per la cosiddetta ‘evoluzione sociale’.
Abbiamo scritto insieme il testo
della canzone, come tutti gli altri, discutendo tra compagni
frequentatori e componenti del gruppo, ovviamente su un canovaccio stilato e su
una idea già elaborata. Anche gli altri testi, vedi Tammurriate dell'Alfa sud, 'A
canzone 'e l'elezione, etc, sono state frutto di discussione. La melodia l'ho composta io, assieme a Pasquale
Bernile e Nino Di Marzo: eravamo gli unici 'musicisti' del gruppo; però Carlo
Siliotto del Canzoniere del Lazio è stato uno dei primi ad ascoltare il materiale
esprimendo il suo parere in quanto esperto della musica popolare e delle storie
cantate; e se ricordo bene dette suggerimenti anche Dody Moscati. La prima
esecuzione, se non ricordo male, avvenne ad una festa dell'Unità, nell’ottobre
del 1975. La prima incisione fu a Parete, in provinca di Caserta, durante uno
spettacolo; il tecnico del suono era Marcello Notari e il lavoro fu mixato da
Franco Coggiola dell'Istituto Ernesto De Martino. Infine ‘A Flobert fu
pubblicata da "I dischi del Sole".
Non c’era un fosso per me
Intervista ad Immacolata Russo
di Girolamo De Simone
Si è sempre ritenuto che Ciro Liguoro fosse l’unico superstite dello
scoppio della Flobert, salvato da una visione della Madonna dell’Arco. In
realtà quella mattina in quel reparto era presente anche una giovinetta, che
lasciò il suo posto poco prima dello scoppio, subito dopo il pranzo. Fu
ritrovata in stato confusionale, con le lacrime agli occhi e senza voce vicino
alla chiesa di San Francesco alla Masseria Romani, dove è poi vissuta tutta la
vita, e dove ancor oggi abita con suo marito Antonio Barone.
Immacolata non ha mai raccontato la sua storia. In fondo era
considerata l’ultima arrivata.
Che lavoro svolgevi in fabbrica?
Io preparavo gli ‘scatolini’, quelli con le munizioni per le armi giocattolo (dopo lo scoppio della fabbrica, le strade del paese, Sant’Anastasia furono a lungo cosparse di questi piccoli proiettili, i ‘colpi’, che i bambini andavano a raccogliere sul luogo della strage e poi disperdevano per gioco, nda). La caposquadra si chiamava Rosa, mi chiese “vuoi andare sulla macchina dei guagliuni?”, cioè dove lavoravano i maschi, ma io le dissi che non sapevo usare le macchine, che non le avevo mai viste..., ma lei ribadì “tu non devi fare niente, devi solo guardare”.
Gli altri operai conoscevano le macchine?
Li metteva a lavorare così, senza preparazione. Erano quasi tutti nuovi quelli che morirono. Il Padrone mi pagava milleduecento lire al giorno. A me doveva dare ventimila lire al mese, perché ero l’ultima arrivata, ma agli altri dava qualcosa in più. Lui si chiamava Emanuele, era di Cercola. È morto di vecchiaia. A volte non ci pagava neppure: faceva freddo, ci dava il panettone di Natale e non ci dava i soldi. E noi come e puverelle là fora, ce mureveme e friddo e chillo nun ce vuleva dà i soldi... Non ci teneva a posto (molti erano lavoratori al nero, nda), ma so che lui voleva farlo, perché la fabbrica si era ingrandita. Ma poi scoppiò e basta. Finì tutto.
Lei era nel reparto che saltò in aria?
Fui nella stanza tutta la mattina, fino all’ora di pranzo, quando andammo a mangiare. Al ritorno il mio posto fu preso da un giovane, ed io ebbi il tempo di tornare nel capannone, sedermi e poi... scoppiò tutto. Scappavano, urlavano, c’era chi sveniva, c’era anche una donna incinta di Pomigliano, che venne meno, cadde a terra e poi non si capì nulla, una tragedia. Ricordo anche un ragazzo di diciotto anni, stava portando tra le mani una bacinella con la polvere da sparo: fece una lampa (bruciò in un’unica vampata di fuoco, nda). Se non sono morta allora, non morirò più: dovevo morire io al posto di quel giovane, ma non c’era una fossa per me. Io me ne andai, lui si mise al posto mio, e morì: non so nemmeno il suo nome. Sono passati trent’anni, ma non ne conosco ancora il nome.
I caduti
Giuseppe Mosca, 20 anni
Antonio Tramontano, 21 anni
Giuseppe Sorrentino, 22 anni
Antonio Savarese, 23 anni
Mariano Barra, 24 anni
Giovanni Esposito, 25 anni
Antonio Frasca, 25 anni
Michele Allocca, 32 anni
Michele Esposito, 34 anni
Giovanni Caruso, 35 anni
Giovanni Cerciello, 39 anni
Vincenzo Florio, 42 anni
‘A Flobert o “Sant’Anastasia”
Venerdì undici aprile
a Sant'Anastasia
ad un tratto un rumore
sentii, e che paura
Stavo uscendo a lavorare
nemmeno la forza per camminare
e per la strada chiedo
questa botta che sarà
La Masseria dei romani
una fabbrica è scoppiata
la gente che scappava
ed altra che piangeva
Chi andava e chi tornava
per paura d’altri scoppi
arrivato davanti al cancello
madonna, e che macello!
Volli andare dentro
mi sentii di svenire
a terra c’era una testa
che stava senza corpo
Cammino e che tristezza
mi giro e sulla rete
due poveri operai
tutte le carni bruciate.
Poi arrivano i parenti
di quei poverini
piangono disperati
per i loro figli perduti.
«Mio figlio dove sta
aiutatemi a cercare
fatelo per pietà
per forza deve stare qua».
«Signora, non urlate
che forse s’è salvato»
e la mamma va a girarsi
sotto terra lo stanno prendendo.
Sono stati dodici i morti
per le famiglie che sconforto
ed uno non s’è trovato
povera mamma sconsolata..
Sono arrivati i tavuti
ed alla chiesa siamo andati
per gli ultimi saluti
ai compagni sfortunati..
Prendiamo tra le mani
tutti questi telegrammi
son lettere di condoglianza
mandate per crianza.
li accompagniamo a seppellirli
e con la rabbia in corpo
sopra a questi morti
giuriamo: dovrete pagarla
Chi va a faticare
pure la morte deve affrontare
moriamo uno ad uno
per colpa di questi padroni.
Chi dobbiamo aspettare
per condannare questi padroni
che ci fanno lavorare
col pericolo di schiattare
Questa gente senza cuore
con la bandiera tricolore
cerca di riparare
a tutti gli sbagli che fa.
Ma voi non lo sapete
qual è il dolore nostro,
avvolgete con il tricolore
questi dodici lavoratori.
Ma noi l’abbiamo capito:
cambiamo questi colori
pigliamo questi padroni
e mandiamoli affanculo.
E con la disperazione
di fascisti e di padroni
facciamone un montone,
un grande focarone
Certo questo è il momento
quello di cambiare
e la guida nostra è grossa,
è la bandiera rossa.
Compagni, per lottare
son s’ha da aver pietà
ma questa è la verità
il comunismo è libertà.
(‘e Zezi; libera traduzione di Girolamo De Simone)
‘O rre de’pazz
di Mikele Buonocore
Sotto ‘a chistu sole
Stammo a jezza’ sti prete
Povere ca saje
E ce arruvina l’aria
Povero ommo, scunsulato e triste
Dint’ ‘a nu penziero
Passarrà ‘a matina
L’evera ca pogne
Te ricorda ‘a vita
Povero ommo, e’ chisto ‘o re de’ pazz,
Pure ‘o scuorno fa cade’‘e palazz
E si te vuo’ scurda’
Va vicino ‘o mare
Ccu l’acqua e ‘o sole
‘O doce sta dint’ ’o core
E po’ pe cumpagnia chiamma ‘o re de’ pazz
‘O mare te ‘nfonna ‘a capa
‘O male, si tu ce pienze ‘o male
Nun te fa’ campa’ e scinne a fatica.
Sotto a chesta luna
Isso allucca sempe
Pure si nun parla
Pe da aretta a gente rire
È cumbattuto e rire.