FINESTRE
SUL MONDO
Purezza e mescolanze
Come si può definire la «world
music»? È semplicamente musica che proviene da ogni parte del mondo, o piuttosto un genere con un linguaggio
proprio, che auspica una società dalle molteplici culture ed etnie? Ancor oggi
vige una certa confusione in proposito, generata anche dall’ ambiguità e dalla
distanza d’intenti tra ciascuna produzione, che ogni paese adegua all’ immagine
da esportare.
Ad esempio, l’Africa appare
genericamente più incline alle contaminazioni, specie con i musicisti di Mali,
Senegal e Gambia. Salif Keita, da nobile
appartenente alla più antica famiglia Mali è sceso volontariamente di casta per
dedicarsi all’arte, e da Soro in poi sperimenta l’elettronica e il rock contro
la staticità delle tradizioni; Manu Dibango è noto per aver incontrato a più
riprese il funk, ma si era formato prevalentemente in Francia, e solo in
seguito aveva ottenuto riconoscimenti in Camerun: è sua la frase «ho orrore
della ripetizione, non si può continuare all’infinito a ripetere la lezione
degli antenati»; Youssou N’Dour è conosciuto per i suoi trascorsi con Peter
Gabriel, l’estroso ex-Genesis oggi anche
produttore[1];
Foday Musa Suso e Toure Kunda hanno incrociato le loro strade con Herbie
Hancock, il pianista jazz, e con Bill Laswell, che dal funk sperimentale di
Baselines[2]
diventa tra i più agguerriti produttori discografici.
Ma altri musicisti, appartenenti ai griots[3]
restano vicini alla visione tradizionale, magari legata ad uno strumento
particolare: è il caso di Lamine Konté, virtuoso di kora[4],
del quale la Arion[5]
presenta due monografici. Lamine è nato a Kolda, ma ha studiato alla scuola
delle arti di Dakar, ed appartiene ad una delle più antiche caste di griots;
è pertanto un «figlio d’arte», come diremmo qui. Così, la sua musica è di una
straordinaria dolcezza e spontaneità, non priva di caratteri personali: «quando
suono vorrei che la gente mi riconoscesse». La ricerca di questo musicista è
volta soprattutto al massimo sfruttamento delle ventuno corde della kora, che
la fa assomigliare all’arpa elettrificata usata tanto nella new age: ma non ci
si illuda, Lamine cerca di attualizzare ritmi e suoni attraverso una evoluzione
interiore che non preclude aperture, ma risulta pur sempre legata a un costume
specifico. Specie il secondo compact appare godibile negli assolo della kora,
ed è più scontato nei brani cantati
perché l’accompagnamento indulge a un linguaggio incline al
country & western.
Percussioni d’Africa
Generalmente, l’attenzione degli
occidentali si focalizza sulle varietà di percussioni ‘nere’, e sulla
complessità dei ritmi incrociati, ed ecco una efflorescenza di compact: Les génies noirs de Douala [6]
prende il nome da un gruppo che ha lavorato, oltre che con Myriam Makeba e Manu
Dibango anche con i nostri Tullio De Piscopo e Tony Esposito. Il bel disco
offre una panoramica sulle danze caratteristiche del Camerun, come ad esempio
la Tchokoto, per la nascita del
primogenito, o il famosissimo Soul
Makossa, danza moderna del popolo Duala. Notevole l’intento di unire le
diverse etnie di un paese che rappresenta un po’ l’Africa nella sua interezza,
con tutta la complessa serie di implicazioni politiche: vere e proprie mine
vaganti innescate nel corso del colonialismo sono poi esplose a programma, mettendo
l’una contro l’altra forze altrimenti
naturalmente coese.
Molto più attento ad aprire strade
di conoscenza interiore attraverso l’incantamento e la malia del ritmo è
Mustapha Tettey Addy, originario del Ghana: «un maestro di tamburo deve
mostrarsi capace di captare l’energia degli altri, e di rendergliela nuovamente
attraverso la sorpresa della loro stessa riscoperta». E in effetti lo strumento
sembra produrre vibrazioni che prendono
alla bocca dello stomaco: il rilascio del battere ha una flessibilità tale da
essere estremamente comunicativo. Il
ritmo, nei lunghi assolo, assume forme cangianti, e mantiene desta e attiva
l’attenzione del fruitore. Non mancano gli esperimenti: affascinantissimo, e
quasi orientale, il suono di Gongs Ga,
dove tubi di metallo sono percossi con una bacchetta di legno duro[7].
Sempre nella scia della tradizione,
con uno scivolamento folclorico di troppo, è la musica dei Batimbo, enclave
familiare trasformatasi in gruppo di maitres-tambours
du Burundi: un compact che li concerne[8]
riproduce uno dei loro spettacoli, con tanto di entrata in scena, ma non fa
giustizia di quello che deve essere stato l’effetto visivo e scenografico
dell’impianto complessivo; le voci si percepiscono troppo in lontananza.
Non pochi dischi sono dedicati alle
percussioni africane, alcuni antologici, altri monografici. Tra i primi c’è
sicuramente Balafon et tambours d’Afrique,
in due volumi[9], con
una silloge della musica percussiva di Camerun, Guinea, Senegal, Tanzania,
Togo. Qui le percussioni sono veramente nude, senza orpelli, e presentate nella
loro ricchezza ritmica, per la maggior parte senza accompagnamenti cantati.
Notevole anche la collezione di strumenti impiegati, dal balafon alle maracas e
ai sonagli. Un secondo volume è dedicato a Koko du Burkina Faso; presenta sue
composizioni originali che includono spesso anche il canto, è godibile
ed estroverso, ma la lunghezza dei brani risulta eccessiva per l’insistenza delle
percussioni. Queste si susseguono in modo lineare, anche se -come in tutta la
musica africana- si sovrappongono ritmi d’ogni tipo. Le permutazioni interne
sono poche, e non facilmente percepibili per gli occidentali. Anche Percussions D’Afrique presenta quattro brani raccolti in occasione di
cerimonie religiose o civili, ma risulta quasi insostenibile per lunghezza (il brano più prolisso dura 32’30”).
Al secondo gruppo monografico
appartengono Les tambours de Gorée e Percussions Mandingues [10],
dedicati rispettivamente all’orchestra africana Djembé del Senegal ed al
solista Adama Dramé, naturalmente ancora un griots. L’aspetto tecnico è
qui notevolmente accentuato, ed il tamburo diventa un microcosmo con un suo
centro ed una sua forza di gravità: l’abilità dello strumentista risiede
nell’indirizzare i colpi in precise zone
della membrana, improvvisando e mescolando ritmi senza annoiare. Tutti traditional
i brani raccolti invece nel disco dell’orchestra Djembé, proposti alternando
canto e percussioni e sole percussioni; se si eccettua la prima lunga track
(11’38”), le altre sono sufficientemente varie e più che sopportabili.
A Nigeria, Etiopia e Camerun sono
dedicati Nomades du Desert, Musiques Traditionnelles d’Etuiopie e
Cameroun, Musique des Pygmées Baka
[11].
A causa del loro itinerare, i nomadi hanno conservato un’antica tradizione
vocale ipnotica, malinconica, solitaria: melodie che suggeriscono
l’attraversamento, una metafora dell’andare che si materializza per pitch
ricchi d’infratoni. I canti e le danze sacre dell’Etiopa rappresentano bene una
musica più ricca, preziosa ed interetnica. Ancora una strumentazione
prevalentemente percussiva individua la musica dei Pigmei Baka: gli strumenti
melodici vengono sostituiti con gioviali cori a voci multiple ai quali si
alternano solisti che procedono ad affascinanti permutazioni tematiche, spesso
di una vocalità che si approssima al grido modulato.
L’India, o della densità
del suono
L’India è più lineare dell’Africa,
la sua produzione più riconoscibile: si ascolti, ad esempio, Raga Multani [12], con un’orchestra di sarangi, il più antico
strumento ad arco di questo paese, tabla[13],
shenhai (fiato) ed harmonium; la massima variazione ai canoni classici è
nella diversa disposizione di alcune note; Ustad Munir Khan fornisce variazioni
emotive, risulta riconoscibile per la profondità e l’interna risonanza di raga pomeridiani. Ma
straordinaria è la concentrazione, la densità di questi suoni che sembrano
provenire da un metaforico altrove della coscienza, un luogo non accessibile ma
denso di linee, quelle stesse linee definite da Michaux come un limite tra
esterno e interno. Il sarangi
crea un effetto di bordone, con le corde libere, come una cornamusa lanciata sull’orlo
dell’infinito, lo shenhai intreccia con il sarangi (con le corde
principali) variazioni tematiche dagli intervalli armonici impercettibili, una
sorta di urlo mistico.
Più consueta, ritmica, sofisticata e
virtuosa (al modo di noi occidentali) l’interpretazione di Pramod Kumar dei
raga[14].
La scansione perfetta di suoni in rapida successione tradisce l’origine da
percussionista, e l’attacco deciso dimostra una sicurezza tecnica dovuta forse
all’appartenenza ad una famiglia di musicisti. La strada prescelta è
inequivocabilmente ‘esterna’, tant’è che Kumar viene considerato come
l’erede di Ravi Shankar, del quale è
stato tra i più anziani allievi. Ma Shankar resta forse più aperto agli
esperimenti creativi con l’occidente (si ricordi la sua collaborazione con
Philip Glass). Una minore fluidità, una certa spigolosità, la ‘sforatura’ di
certi suoni (è un eccesso in relazione alla portata emotiva e musicale, non tecnica) ci fanno così ancora
prediligere il maestro.
Alla musica folk dell’India del nord
si consacra l’omonimo disco per
Il ghetto di Varsavia
L’esemplare contrapposizione tra la
world africana e quella indiana mostra come possa essere estremamente difficile
distinguere, all’interno della produzione musicale di un paese, l’impulso
etnico e quello globale. Un’altra scuola di pensiero inserisce la world in una
costellazione che ha come punte d’iceberg il rock d’avanguardia, l’etnopop, la
contemporanea e molte delle ‘new’
(acoustic, beat, eccetera), e come fulcro l’attenzione per quelle nuove
sonorità poggiate sulla fusione delle
tecniche. Ha certamente contato, nella formazione di un linguaggio
profondamente contaminato, l’evoluzione delle singole espressioni pop di
ciascun paese: molte delle voci più
originali hanno cominciato ad allargare i confini delle loro produzioni
folcloriche attraverso incroci con artisti della più svariata provenienza.
Questa pratica, nel jazz, ha finito con l’organizzare le varianti secondo
scanzioni formali più o meno collegate al genere. Il pop, invece, ha mantenuto
le devianze per quel che erano: vere e proprie ventate di ‘nuovo’ che
investivano ritmi, timbri, melodie. Una
grande vitalità, legata ad esempio alla produzione della cosiddetta ‘afro’, già
qualche anno fa non appariva più mascherabile o incanalabile in standards,
ma andava a collocarsi in un filone proprio, talvolta più etnico, talaltra
incastonato al rock, ed oggi addirittura legato al rap.
Quelli che hanno preferito guardare
alle produzioni più tipicamente tradizionali, a quelle scevre di sonorità
etichettate come occidentali, hanno biasimato i musicisti e le opere che invece
si lasciavano sedurre dal west sound, dalle pratiche strumentali e
stilistiche più facilmente riconoscibili
da noi occidentali. Youssou N’Dour si è fatto portavoce del fastidio di questi artisti, parlando di una
ghettizzazione arguta, furba e molto
articolata. Individuare le differenze
tra generi nella semplice provenienza geografica, prediligere il sound
tradizionale a quello moderno, di fatto inibisce la «possibilità di
un’espressione non compromessa» e rende irrealizzabile uno sviluppo che i
musicisti africani ritengono oggi necessario e improrogabile. Che si parli di afro music, che si allarghi
la qualifica alla world music, sempre di ghetto si tratterebbe: confini eretti
a difesa di un consumo e di un mercato già di per sé saturi, o, il che è
peggio, a difesa della purezza dei linguaggi. Una musica che resta
identificabile ripropone in eterno il problema della differenza, che qui è differenza di valore tra espressioni auree ed
alte (quelle occidentali) ed espressioni viscerali e incolte, in fondo di
‘colore’ locale. Fino a che le gerarchie non diventeranno insiemi di quantità
che evitino giudizi di valore i guai non diminuiranno.
E con queste consapevolezze si
ascolta con particolare commozione il lavoro di Sarah Gorby, premiato come
documento storico dalla Accademia Charles Cros, Les Inoubliables chants du Ghetto[16],
frutto della ricerca sui musicisti morti nei ghetti durante gli anni della
Grande Tragedia: diversi confini, comuni sofferenze e atrocità.
Il timbro vocale della Gorby è certamente molto caratterizzato: incisivo, doloroso, ironico, e a tratti beffardo (ricorda un po’ quello di Lotte Lenya). L’interprete riesce a condensare, con agogiche oggi irreperibili altrove, il canto di rassegnazione e di protesta di chi ha subito il più grave torto alla dignità personale e umana.
Etnica o contaminata?
Così, la world presenta da un lato
una musica legata al folclore e più attenta alle origini, alla «nobiltà ed
antichità» dei generi tradizionali (come riferisce un famoso cantante di
Maqam), dall’altra interpreti che hanno coscienza delle continue permutazioni
del passato, dei prestiti che già gli antichi stili presentavano, lanciandosi
senza indugi nella sperimentazione di forme evolute da quei suoni tradizionali.
Tra questi, i ‘progressisti’ cercano un territorio comune ai diversi linguaggi,
intuiscono gli stilemi condivisibili, vanno infine verso il Global Village. In
tutti e tre i casi ci troveremo in presenza di varianti della world music: etnica,
contaminata, globale (o fusion), se prevalgono spinte che valorizzano i
percorsi interni, quelli esterni o quelli comuni a tutti.
Nella world etnica (la cui
etimologia greca richiama l’idea di ‘moltitudine’) rientrano alcune delle
registrazioni di Gérard Krémer, che «raccoglie in diretta suoni e riflessi»
delle musiche popolari più legate alla tradizione. Dall’Algeria deriva
Alcuni esempi di world contaminata
sono Celtic Odyssey, The Road North, New Land, Alma del Sur.
Il primo[20] è un
viaggio metaforico attraverso la musica
contemporanea celtica, e si pensa immediatamente alla Whindam Hill (come non riferirsi ad altri solstizi
d’inverno?), anche perché si tratta di una compilation di artisti diversi.
Convince il dinamismo di The Butterfly,
un racconto estremamente delicato disegnato da Orison, e tratto dall’album Celtic and Contemporary Instrumental Music[21].
Più energico Dònal Agus, dove Altan
rifà il lifting a un traditional. Assoli d’arco, con ambientazione, per Calliope House e Trip to Skye, e un suono fortemente emotivo (alla Balanescu, per
intenderci) per Are Ye Sleeping, Maggie? , dove Alasdier Fraser dà sfogo ad una
vena motivica che fa tesoro anche della lezione classica. In Tribute to Peadar Dònal Lunny sembra citare i viziosi circoli armonici e tematici di
Oldfield. Meno godibili i brani anche vocali, forse troppo legati a fonemi
individuabili per parlare al resto del mondo. Nello stile della ballata The York Reel/Dancing Feet, che porta
alla conclusione un disco vario e sicuramente in grado di offrire una bella
panoramica sulla musica celtica rivisitata nello stile globale. Sempre
d’origine celtica le sensazioni e certi nuclei tematici suggeriti dal
violinista scozzese Alasdair e dal pianista Paul Machlis in The Road North[22].
L’unico traditional ci pare essere
Spostandoci in Sud America, ma
restando sempre nell’ambito della world contaminata, ecco New Land[24],
dell’argentino Bernardo Rubaja, la cui ambientazione è però più vicina alle
atmosfere rilassate di certa new age che ai ritmi sudamericani: la sua musica
scorre come olio, e starebbe assai bene nelle compilation della Grp. Alma del Sur [25]
ha certamente la pelle più scura: a Rubaja si affiancano il chitarrista Nando
Lauria, l’arpista (suona un’arpa paraguayana) Roberto Perera, Carlos Guedos,
Junior Hamrich, Matthew Montfort degli Ancient Future e tanti altri: ecco
allora venir fuori quello che ci aspetteremmo da una silloge dedicata a
(emergente da) quelle zone: dalla marcetta ammorbidita e assai gustosa di The Hill of Seven Colors dello stesso
Rubaja all’acquatile New Amazon, con
percussioni e voci che s’innestano su sciacquettii d’ogni genere. Bella la
chitarra in Las Marianas del gruppo
Gurrufìo, evidentemente ispirato alla tradizione venezuelana, effettivamente
«spontanea, improvvisata, inaspettata».
In dialetto occitano e provenzale le
canzoni di Riccardo Tesi e Patrick Vaillant in Véranda e Anita Anita [26].
Le songs sono prevalentemente brani originali di Tesi, ma non mancano
arrangiamenti da traditional. Se qui è presente una certa
contaminazione, il movimento mi pare essere più quello di ottimi artisti che
guardano al repertorio dialettale e locale piuttosto che quello della ricerca
che parte dalla terra e lambisce infine perimetri lontani. Pochi gli interventi
soltanto strumentali, dove forse si osa di più.
Uno specialista di tango il
bandoneista Olivier Manoury, che con Michael Nick, Isabelle D’Auzac ed Enrique
Pascual, indulge al jazz ben più di quanto non facciano Astor Piazzolla ed il
suo naturale erede Richard Galliano, forse anche con minore originalità: ma il
suo Tangoneon[27] resta
gradevole, anche perché offre una panoramica non solo sul tango, ma anche sulla
candombe e sulla milonga. Particolarmente dolce e struggente (non quanto il
quintetto di Piazzolla), Llovisna di
Enrique Pascual, e l’espressiva Milongue
di Olivier Manoury.
La world globale
Alla world globale o fusion possono
ascriversi, ad esempio, gli Ancient Future, che Piero Scaruffi collega ai Do’A
di Randy Armstrong e Ken LaRoche. A Quiet Fire (Narada Lotus 1012), la
chitarra di Alex De Grassi, noto ai cultori della new age, e il sound complessivo,
danno una parvenza un po’ più
commerciale rispetto ai lavori
precedenti[28].
Così l’effluvio un po’ sudamericano, un po’ indiano, un po’ new age di Caged Lion Escapes di Matthew Montfort travasa di traccia in
traccia fino alla dolcezza incantatoria di Hillside
View di Randy Mead, con le cascate d’arpa celtica di David Michael, ed alle
suggestioni rinascimentali di Candlelight.
L’impatto iniziale di Dreamchaser [29]
mescola chitarra elettrica e sitar, tampura e percussioni africane, con la
prevalenza di un suono indiano in Edge of
a Memory ed africano in Chant of the
C Schell, con tanto di cori in stile. Ma le suggestioni restano
superficiali, non sempre fuse in modo omogeneo, ed un po’ ripetitive. In
Andrean Dream l’imprimatur è
smaccatamente cileno, e così via, fino al brano migliore di un album tutto
sommato prescindibile: l’Ode to Ajanta
di Ian Dogole, orientaleggiante.
World
whithout walls [30]
ha già un programma fin dal titolo: mondo senza mura, senza confini. Lakshmi Rocks Me è la prima dirompente traccia, sicuramente
arricchita dalla partecipazione di Zakir Hussain alla tabla ed alla kanijra.
Stucchevoli invece le sintetizzazioni di April Air, veramente da demo-song.
Un’atmosfera alla Vollenweider permea nel bene e nel male anche i brani successivi,
con punte di Turchia ed India qui e là. I due brani Alap e Indra’s Net, quasi introduzione e sviluppo, mi sembrano
straordinariamente riusciti, e confermano a chi abbia conosciuto le musiche di
Luciano Cilio quanto questo artista abbia preconizzato le sorti della musica
futura. Gopi Song, col piano di Dough
McKeehan e ancora Zakir alla tabla,
mezzo Clayderman, mezzo Kitaro, chiude
un compact più che soddisfacente.
Il tipico attacco dell’arpa da
tavolo giapponese gu zeng di Zhao Hui lancia Asian Future[31],
e senza pause subentra il ritmo incalzante e disinibito di Bookenka, con un mix
di jazz ed Asia: una pietra miliare per gli Ancient Future. Mezgoof, di Ian Dogole, ricorda la
musica del Pakistan, con percussioni e sintetizzazioni che si muovono su un
bordone pieno e comunicativo: un movimento straordinario che concilia le
esigenze interiori e convince per la varietà e l’articolazione del percorso. Sumbatico ha in corpo molto più jazz che
nel passato, Ja Nam si affaccia
addirittura sulla musica vietnamita con l’uso del Dàn Bàu[32]
fondendosi ad un ritmo reggae. L’affermazione di questa musica è apodittica;
gli Ancient Future più che sperimentare affermano con sicurezza e leggerezza
Altro esponente rilevante è Michael
Pluznick, compagno di Jim Chappell in Saturday’s
Rapsody [33], col
primo cd solistico Where the Rain is Born[34].
Le percussioni soffici si intrecciano ad un tessuto massimale alla Borden in Savannah Dance (è il computer di Peter
Scaturro a creare il meraviglioso amalgama). Tanta Africa interiore è mutuata
da Rites of Passage: perché non
confrontare le sintonie e simpatie con Mustapha Tettey Addy, anche per l’assolo
di The City’s Reflectio ?
Introspettivo anche quando
pianamente ritmico, Pluznick ci convince pure in brani radiofonici come Desert Crossing, introdotto da un
delicato gioco di percussioni ed effetti speciali. Da Time caravan si affaccia Brian Eno, e da Big Foot un morbido jazz sound. La voce di Maria Rodriquez fa da
background alla title-track, che anche qui chiude il disco.
Acqua che scorre e voci ‘nere’ danno
il via a Cradle of the Sun[35]:
una piccola introduzione traditional (1’20”) cementata con l’avvio di un
basso ed una chitarra elettrica, un pizzico di rock e tanta Avana: una musica
già più ‘fuori’, meno ripiegata su di sé, e quindi anche fluida, qualche volta
non omogenea: stacchi multipli dividono le tracks, in molti brani è
presente la voce, l’ambientazione è sicuramente vicina alla new age, se non
fosse per la solida presenza del basso: reminescenza anche questa di tanta
musica africana. Anche qui fa bella
mostra di sé il computer di Peter Scaturro, specie nei nove minuti e oltre di Guardians Of Nature. Cosa che chiarisce
abbastanza bene cosa si può intendere per rivisitazione della world etnica.
Ancora più aperto e solare Rhithm Harvest [36],
come indica il titolo: una efflorescenza di ritmi da Haiti, Kongo, Senegal,
Cuba, Mozanbico, e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di una parentesi o di
una nuova vena per Pluznick? Fatto sta che, a parte l’argento vivo che questa
musica riesce ad incollare sull’ascoltatore, viene da pensare ad un passo da
granchio, un ritorno alle origini dei ritmi diversi. Questo ci fa preferire
sicuramente il percussionista un po’ introverso e decisamente pensoso di Where the Rain is Born.
Pierre Jean Croset, in Harmoniques du temps Overtones of all times
[37],
propone a sua volta una reinvenzione creativa ed interiorizzata dei suoni della
Cina antica, esercitando sulla lira armonica ipnotizzanti variazioni melodiche
che paiono miracolose per l’esiguità dello strumento. Quest’ultimo, con
diciotto corde fissate su un pezzo di cristallo, trasmette vibrazioni
straordinarie, trasparenti come le ali dell’Hetaera
Esmeralda.
Originale e creativo l’assortimento proposto
da Mikhail Alperin in Prayer[38]
con Arkady Shilkloper e Sergey Starostin. Il pianista russo presenta alcune
delle sue composizioni più intense, non disdegnando d’usare topoi melodici russi incastonati sul
particolarissimo canto gutturale mongolo. In Prayer Part 1 si sprofonda
in luoghi lontanissimi per cultura e densità spirituale con la leggerezza
tipica della world globale, ovvero senza eccessivi appesantimenti etnici.
Straordinario l’accostamento tra pianismo classico, jazz, armonie ‘nuova era’ ed
elementi etnici, di Talk for Trio:
raramente si è ascoltata una commistione
di tale omogeneità, capace di suggerire istantaneamente un climax tra voce e
pianoforte, talvolta ironico, talaltra giocoso, sempre teso ad una
comunicazione forte, alla faccia della crisi della musica e della morte
dell’arte. Un lavoro bellissimo, pieno di sorprese.
Percorsi trasversali:
etnica mistica o religiosa
Più percorsi trasversali sono
possibili nell’ambito della world. Uno, particolarmente affascinante,
ripercorre l’Asia e parte dell’Africa alla ricerca di nessi comuni o di
significative differenze tra religioni.
Partiamo dall’estrema appendice
subcontinentale: lo Sri Lanka. In Musiques
Rituelles et religieuses [39]
sono raccolte registrazioni effettuate nel 1979 da una spedizione
etnomusicologica svolta in collaborazione con de Silva Kulatillake. Il fatto
che il Ceylan sia posto sotto il subcontinente indiano non impedisce che un
gran numero di religioni vi abbia attecchito nel tempo. Tracce dei culti
fallici e dei riti di fertilità si mescolano con il culto brahmanico. Nel tempo
ci si è rivolti ai démoni vedici e a credenze induiste, fino all’arrivo dei
calvinisti olandesi e dei gesuiti portoghesi. La musica, come ad esempio nella
lunga cerimonia del pirit, si muove su un bordone di percussioni molto
poderose, e due o quattro esecutori giocano antifonalmente anche con
modulazioni microtonali.
In India del Sud troviamo la ricca
raccolta dei veda, che come è noto ospita in differenti sezioni inni dedicati a
divinità indiane, alla grande origine del tutto[40],
a formule magiche e preghiere. Nel Rigveda, o veda delle melodie, sono raccolte
strofe dedicate al culto sacrificale. In Musiques
Rituelles et Théatre du Kerala [41]
vi sono esempi di insiemi cerimoniali, recitazioni di veda, mescolati ad esempi
di teatro rituale, come quello danzato sanscrito Kutiyattam. Si tratta di un
disco molto evocativo, che presenta differenti stili espressivi della musica
carnatica tipica dell’India del Sud, dai suoni prolungati e ipnotici della vina
alle recitazioni ritmiche, sorta di ‘salmodia diretta’.
Musique
traditionnelle de danse Odissi [42]
presenta musica di danze sacre e repertori del teatro tradizionale della
provincia di Orissa, situata sulla costa est dell’India centrale e al centro di
scambi interculturali, di fusioni
etniche e stilistiche. L’incipit è costituito da un saluto al Dio Ganesha,
accompagnato da vina, cimbali e flauti di canna. Un solista vi traccia melodie
con impulsi ritmici particolari, ripetuti con varianti, con
La musica dell’India del Nord, pur
adottando la medesima terminologia per i raga, è notevolmente differente da
quella carnatica del Sud, e si caratterizza come musica indostana. Sempre in Musique Populaire de l’Inde du Nord [43],
assieme ad esempi strumentali folclorici per tamburo solo e flauto e mandar, ci
sono tracce di canti devozionali musulmani Dhun, canti sufi eseguiti dal gruppo
di cantori del santuario di Nizamuddin (nel Corano, l’idea dell’Onnipresenza di
Allah è frequente), e i canti religiosi Bhajana.
Avvicinandosi al Tibet, ecco Chants et Danses du Népal[44],
canzoni di lavoro della casta dei musicisti-cantori Gainés, ma che offre anche
l’occasione per riascoltare il sarangi[45].
A metà strada tra India e Nepal si situano diversi santuari tibetani.
Preghiere del mattino dei monaci di Bodh
Gaya (India), percussioni da Swayambunath (Nepal), rituali della sera da
Dharamsala (sempre India), sono rintracciabili in Musique sacrée des Moins Tibétains[46].
È interessante la registrazione delle lunghe trombe tibetane, che lanciano
messaggi lontano nello spazio, ma lasciano vibrare il corpo di chi le suona. Le
preghiere dei vari rituali accoppiano non solo i suoni bassi dei Tuva o di
altri popoli della Mongolia, ma anche voci nasali abbastanza inquietanti. Con Tibet: Traditions rituelles des Bonpos[47]
ci si sposta invece nella zona sotto l’Himalaia, a Nord-Ovest dell’India. Qui
si ascoltano i suoni densi e profondi dei monaci, nella versione dei Bonpos che
rinnova e perpetua tradizioni a rischio di scomparsa. Diverse cerimonie,
rituali, musiche processionali, sono in Tibet:
Musiques Sacrées[48],
registrate tutte a Nord-Est del Nepal, nella provincia di Khumbu.
La Russia presenta una varietà
sconfinata di tradizioni e stili. In Chants
Des Peuples De Russie[49]
possono reperirsi registrazioni in grado di offrire una panoramica sul folclore
(canti nuziali, lamentazioni funebri, etc.) di zone differenti, dalla regione
di Tula a quella tartara. In Russian
Orthodox Chants[50]
può godersi il suono di raccolta dei fedeli delle campane del monastero
Novodevitchi mescolato a canti della
liturgia divina in cui solisti si
alternano al coro, ed esempi di canoni e litanie. Il disco si chiude
circolarmente, col suono delle campane che ritorna.
Spostandoci ancora più a nord, si
arriva al buddismo lamaista della Mongolia. Registrazioni rarissime ed
estremamente interessanti sono in Mongolie,
Chamanes et lamas[51].
Si va dalle pratiche officiali legate al buddismo dei lama a quelle misteriche
degli sciamani, con veri e propri ‘viaggi’ condotti da nenie accompagnate,
imitazioni di animali magici. Un primo sciamano si chiama Darqad, e col suo
canto accompagnato da sola percussione augura buon viaggio agli occidentali che
sono arrivati fin lì per conoscerlo. Il secondo sciamano, invece, effettua un rituale magico-medicamentoso.
Notevolissimo anche l’incipit dell’Ufficio del “Tchogtchin Qural” del monastero
dell’Erdeni Zuu.
Gli Chants Liturgiques Arméniens [52]
appartengono ad una branca autonoma della famiglia indo-europea. Sono stati
registrati nella comunità di San Lazzaro a Venezia, dove nel tempo l’ordine dei
Mekhitaristi ha tramandato la conoscenza e lo studio dei neumi della tradizione
musicale bizantina. Gli armeni adottarono la religione cristiana nel quarto
secolo, istituendo nel quinto il rito ortodosso. Solo dopo molti secoli una parte della chiesa
armena riconobbe la supremazia di Roma fondando il Patriarcato Cattolico.
Queste vicende epico-religiose fanno sì che l’interpretazione neumatica si
presenti particolarmente interessante, probabilmente meno edulcorata rispetto a
quella tramandata in Occidente.
In Chants liturgiques byzantins de Grece [53]
l’ Ensemble Théodore Vassilikos presenta una scelta delle melodie della chiesa
ortodossa greca. Gli inni compresi nel disco sono prevalentemente del XVIII
secolo, quasi tutti sullo schema della salmodia, con un solista che effettua i
melismi (molto contenuti, per la verità, seguendo il trattamento sillabico
piuttosto breve che caratterizza l’innografia bizantina di quel periodo), ed un
coro che l’accompagna con un cantus
firmus dai movimenti statici. Per avere un ‘controcanto’ della produzione
bizantina pagana, ricordiamo la serie curata da Christodoulos Halaris per Orata,
con un ricco apparato storico e iconografico.
Conquistano i suoni lunghi dei
dervisci turchi, placidi nel loro scorrere, risonanti per cavità interne con le
microndulazioni simili a pitch vocali, veramente portatori del messaggio
di inazione del misticismo sufi. Differenti cerimonie, quella dello Zikr e del
Mevlevi sono contenute nei due dischi Chants
des Derviches de Turquie e Musique Soufi[54].
Sempre dedicato ai dervisci, alla cerimonia dei Mevlevis (o dei dervisci
rotanti) è il monografico Le Ney Turc[55].
Spostandoci di continente ritorniamo
in Africa, scontrandoci col mare magnum della musica religiosa.
Interessante è Messe et chants au
Monastere de Keur Moussa[56],
che muove dall’originale idea di accoppiare dodici monaci francesi che si
ispirano ai solesmensi e dodici percussionisti senegalesi. La dolce melodia di J’ai vu l’Eau vive è accompagnata dall’assiko,
una percussione formata da un telaio in legno sul quale è montata una pelle di
montone. Il tutto è suddiviso in due parti: dopo i canti da messa, quelli al
monastero, composti prevalentemente su testo tratto dai Salmi. Curiosa la
somiglianza della Improvisation pour
flute et kora con tante danze rinascimentali per flauto e liuto.
Registrazioni interessanti del Ciad
sono raccolte da Monique Brandily in
Tchad, Musique du Tibesti, che presenta canti di donne e bambini, raccolti
in occasioni cerimoniali e non, come i canti di matrimonio o di circoncisione.
Le sovrapposizioni tra musiche e
culture religiose differenti hanno certamente propiziato l’emergenza di messe
contaminate. In Camerun sono presenti semi religiosi differenti: animisti,
cattolici, protestanti e musulmani. Gli ultimi arrivati furono i cattolici, nel
1890, che subito istituirono scuole e missioni, col risultato di molti animisti
convertiti al cattolicesimo. Un esempio di messe in cui all’impianto formale,
alla scanzione dei tempi, si mescolano i ritmi africani è in Messes au Cameroun[57].
Una traccia sonora della tribù d’Ait
Said, aderente alla fascia musulmana che predilige il sufismo, è in Maroc, Musique sacrée et profane[58].
L’invocazione del dio avviene attraverso danze estatiche accompagnate. Ne è un
esempio la Jdeb che accoppia flauti e percussioni. «Non ha amici chi non danza
al ricordo dell’Amico», recita un mistico musulmano: la Jdeb procede dapprima
lentamente, coi flauti che ronzano attorno a note predominanti, poi si sposta
in altezza e velocità, in un crescendo che richiama la presenza divina in
antiche confraternite di origine guineane.
La musica liturgica Etiope non
prevede l’uso di strumenti a corde; soltanto percussioni rudimentali (come il
tamburo tromboconico kabaro) accompagnano i Debteras, sorta di poeti e cantori
da chiesa. L’Etiopia è prevalentemente cristiana (copto monoteista), i canti sono di tre specie: l’ araraye e lo ge’ez vengono usati durante i
periodi di Pasqua e Quaresima. Il modo ezel
è invece il più comune, usato per le celebrazioni funebri, le veglie e le più
importanti liturgie. Un esempio di questi modi è in Ethiopie, Musique traditionnelles[59].
Percorsi trasversali:
musica sacra oltre ogni confine
Una religiosità particolare permea
l’opera di alcuni compositori europei che sembrano collocarsi al di là del
tempo e dei confini.
Tra questi vi è l’italiano Giacinto
Scelsi. La sua produzione, dopo la conversione dalla fase dodecafonica a quella
del ‘suono unico’, ha una matrice spirituale di tipo orientale, ed è evidente
fin dai Quattro pezzi su una nota sola
per orchestra, definiti da Metzger come «il paradigma della sua musica»[60].
Nel
Anche Henryk Mikolaj Gorecki, il
compositore polacco ‘oscurato’ fino al 1977 dai suoi più famosi conterranei
Lutoslawski e Penderecki, scrive musica molto evocativa. Ha trovato infatti
gran successo con
[1] Con
[2] Celluloid, 1983.
[3] Gruppi che si trasmettono l'arte di uno strumento da padre a figlio.
[4] È un liuto a più corde, dal suono simile a quello di un'arpa.
[5] Arion 64036; 64070.
[6] Arion ARN 64112.
[7] Arion ARN 64055.
[8] Arion ARN 64016.
[9] Playa Sound PS 65101, PS65034.
[10] Playa Sound PS 65104; PS 65085.
[11] Rispettivamente Playa Sound PS 65009, PS 65074; Auvides D8029.
[12] Ducale, CDL 012.
[13] Una sorta di doppio tamburo in legno e rame.
[14] Arion ARN 64277.
[15] D 8033.
[16] Arion ARN 64081.
[17] Arion ARN 64077.
[18] Arion ARN 64063.
[19] Arion ARN 64057.
[20] Narada 3912.
[21] Gourd Music.
[22] Narada 2755.
[23] Forse Dave Holland, ma il nome non viene indicato.
[24] Narada 3014.
[25] Narada 3908.
[26] Y 225002, Y 225037.
[27] Silex Y 225007.
[28] Naturalmente non si intende qui demonizzare il mercato come ancora fa tanta estetica di derivazione francofortese.
[29] Narada 3754.
[30] Narada 2763.
[31] Narada 3023.
[32] È un fiato ad ancia.
[33] Music West 134.
[34] Narada 2756.
[35] Narada 2762.
[36] Narada 3022.
[37] Ocora C 558661.
[38] Silex Y 225039.
[39] Ocora C 580037.
[40] Dallo smembramento del maschio primordiale Purusha.
[41] Le Chant du Monde LDX 274 910.
[42] Arion ARN 64045.
[43] Il già citato Unesco/Auvidis D 8033.
[44] Musique du Monde 82493-2.
[45] Si tratta di uno strumento a quattro corde con una curiosa cassa armonica aperta.
[46] ARN 64078.
[47] Ocora C 580016.
[48] Ocora C559011.
[49] Le Chant du Monde CMT 274978.
[50] Auvidis/Unesco D 8301.
[51] Ocora C 560059.
[52] Auvidis/Unesco D 8015.
[53] Arion ARN 64233.
[54] Rispettivamente Arion ARN 64159 e Arion ARN 64061.
[55] Auvidis/Unesco D 8204.
[56] Arion ARN 64095.
[57] Playa Sound PS 65054.
[58] Ocora C 559 057.
[59] Playa Sound PS 65074.
[60] Accord 200612.
[61] Accord 201112.
[62] Harmonia Mundi SCD8904-5.
[63] FYCD 119.
[64] Radio France/Adda 581189.
[65] Elektra Nonesuch 7559-79282-2, ed Emi 7243 5 55368 2.
[66] Argo 436 835-2.
[67] Elektra Nonesuch 7559-79348-2.
[68] ECM 1505.