Quelle fughe ai confini del
“melting pot” (versione integrale)
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Possiamo
limitarci a considerare il gioco un po' aleatorio dei linguaggi (dai fuori margine di Franco Rella
ai singhiozzi di John Zorn)
tipici della cultura postmoderna come un esercizio di stile vuoto e privo di progettualità? Quando invertiamo
il senso di marcia di parole come confusione, virus, melting
pot, pasticcio, random, dandogli per una volta nella
storia dell'arte e dell'estetica una connotazione 'elogiativa', si sta perdendo
qualcosa (ad esempio la purezza di forme-sinfonia, forme-sonata, forme...) o
consapevolmente se ne sta inseguendo un'altra?
E questo sviluppo, inaspettato, di nuovi
organismi musicali, contraddice o no qualche assunto fondamentalista
delle tradizionali categorie dell'avanguardia?
Fabulae
contaminatae
All'Istituto
delle Scienze e delle Comunicazioni Visive di Napoli c'è stata l'anteprima
nazionale di 'Alkèmia', uno spettacolo firmato da
Enrico Grieco ed Eugenio Fels
che ben riproduce questi problemi, e a modo suo offre anche squarci su forme inedite
d'opera aggregata. Fels e Grieco vengono da
esperienze antiaccademiche, quasi eversive rispetto ai tradizionali cliché; sono di Pozzuoli e di
Torre del Greco, vale a dire dell'immediata periferia e dell'interland, zone ai
margini della città e proprio per questo più 'produttive' di effervescenze. 'Alkèmia' è un esempio di
multimedia: mescola elementi apparentemente semplici, un pianoforte e un
pianista (che però per grazia ricevuta evade il ruolo), un corpo che danza, diapitture proiettate sugli artisti all'opera (forme e
colori che respirano). Queste diverse entità interagiscono creando una
tessitura complessa, soprattutto evocativa, perché giocano sul dentro-fuori,
sullo spazio evaso, sulla possibilità di eteroriferimenti
intrecciati. Siamo sul piano di una confusione anche improvvisativa:
ci si muove su un canovaccio, e non c'è che una definizione parziale, sottile,
delle forme riprodotte sul palcoscenico.
Oltre il suono
Qualcosa
di più profondo avviene nel proprium musicale e
pittorico. I segni tracciati su una diapo sono
impedimenti per la luce, che filtra per gentile concessione. L'immagine che si
vede non è nitida, resta un po' slabbrata, ma stupisce per forme e colori in
progressione.
Dal
punto di vista sonoro possono esserci 'impurità' graditissime: alle
citazioni ci hanno abituati da lungo tempo proprio quegli artisti dell'altro
Novecento invisi ai teorici di Darmstadt. Ma qui c'è
di più: si tenta di accorpare deliberatamene suoni e stilemi di generi diversi,
e il rischio è di 'accostare' le cose l'una all'altra, invece di con/fonderle. Ogni suono può collocarsi 'oltre il suono',
andare fuori di sé, essere capace di rinviare all'altra
tradizione, come se la conoscesse intimamente, come se desiderasse interagire
con essa seguendo un progetto senza
confini, comune.
Estetica e comunità
S'è
parlato per anni di estetica sociale; ora una estetica
comunitaria potrebbe farsi strada sgomitando. La comunità non sarebbe quella
che espone i nuovi soggetti ad una vuota transitività (Nancy).
Il 'senso' non è soltanto un segnale di percorrenza
che va da una cultura all'altra, dal singolo alla comunità, da gruppo a gruppo
fino ai confini del mondo; questa recipocità di movimento riprodurrebbe soltanto le vecchie
logiche di scambio. Forse la nuova opera procederà ad un abbandono del dominio di appartenenza: del compositore sul brano, dello stilema
sullo stilema. Davvero nel segno del crogiolo.
Il manifesto del 14 gennaio
1996