UNA RICERCA MUSICALE NEL MEZZOGIORNO?
Girolamo De Simone

 

Lo stesso è il diverso
la forma è materia
l’ordine è caos

 

La domanda, forse provocatoria, non è priva di riferimenti metodologici: ha ancora senso parlare di ‘ricerca’ musicale? E, soprattutto, questo interrogativo può prescindere da  considerazioni generali sull’estetica?

Per definizione l’estetica dovrebbe relazionarsi alla distinzione tra il bello e il brutto, e poi alla separazione tra il bello naturale e quello riprodotto dall’uomo (1). La stessa etimologia del termine ‘arte’ ricondurrebbe all’idea dell’artificio costruttivo, che sottintende una volizione e un progetto. Anche la nozione di una Scienza dell’arte, che può riferirsi a forme come la bellezza naturale, risentirebbe di questa contaminazione etimologica, risultando infine incapace di comprendere certe forme aperte dell’arte contemporanea, come l’alea e  l’opera casuale per progetto o per natura.

Non resterà allora che immaginare un uso esteso della parola ‘estetica’, che si riferisca a campi di possibilità, e a percorsi ludici (e senza pretese) del dire, nell’ambito di insiemi che, almeno, siano capaci dell’ «uscita da sé». Se poi questo uscire dal sistema corrisponda o meno ad una qualificazione (ad esempio alla Bellezza) sarà ancora da dimostrare. Così, sarebbe ancora lecito discutere d’arte, e nelle due tradizionali accezioni dell’estetica. Avrà senso parlarne perché oggi la dimensione estetica sembra prevalente (qui quasi un’etica dell’estetica, altra dalla morale): e il discorso sull’arte è un ‘detto’ da interpretare; avrà poi ancora senso parlarne in relazione alla qualità, per la stessa paradossale impossibilità di individuare le caratteristiche che rendono tale la qualità: il percorso estetico sarà possibilistico e ludico, vicino esso stesso all’arte, unica  residua  redenzione anche per la critica.

Oggi  sembra prevalere l’indifferenza gerarchica tra le opere: opere senza qualità perché come Ulrich, l’uomo senza qualità di Musil,  sono «equidistanti da tutte le qualità,  e tutte   sono loro stranamente indifferenti» (2). Corollari di questo dato di fatto:

1- che anche gli oggetti prodotti casualmente sono opere d’arte,  comprendendo la volizione iniziale del compositore (Cage), o non comprendendo alcuna volizione  (ne è esempio  letterario la biblioteca immaginaria di Borges);

2-  le  partizioni in generi non hanno più rilievo (3);

3- all’interno di uno stesso genere  è indifferente  attribuire ad un’opera  un  giudizio di valore relazionale (una relazione è possibile soltanto per quantità differenti, non per qualità).

Ma ciò conduce ad uno schematismo trascendentale, dove l’unica realtà interessante è la struttura. Ogni opera finisce con l’ avere una  giustificazione nel suo mero collocarsi. Vige lo specialismo, l’alessandrinismo musicale, il mero catalogismo. L’opera è per altro.

Ma l’indifferenza gerarchica non importa l’assenza di una gerarchia, quanto semplicemente la designificazione qualitativa dell’opera. Essa mantiene intatte le sue caratteristiche interne (ad esempio, in relazione all’aggregazione di eventi successivi) di minore o maggiore complessità, in funzione delle quali può continuarsi a parlare di gerarchia, ma questa complessità non si trasforma in una discriminante in base alla quale operare un giudizio di valore (4).  Una qualità è possibile soltanto se resa equivalente alla capacità dell’opera di ‘uscire dal sistema’.

Se è semplicistico affermare che la musica oggi possa  trasmettere emozioni o essere espressiva tout  court  ciò non significa che essa non possa anche essere espressiva, quando questo assunto riesce  a dare una qualsiasi logica all’atto del compositore che si ponga  come tale. Questa evidenza dello status quo non conduce naturalmente all’assoluzione dello sperimentalismo, che trova la sua giustificazione storica nell’esaurimento della nozione di ‘novità’, ma alla riappropriazione della colliceità di ogni esprit: qualsiasi opera può anche essere espressiva, nonostante lo sperimentalismo. Ed è appena il caso di prendere le distanze da posizioni decadenti o neoromantiche (5), che sviluppano diversi presupposti: qui si tratterebbe di negare una già accaduta mediazione. L’indifferenzialità tra le opere interagisce con lo specialismo esecutivo: slegato completamente dalla produzione di mercato, dal pubblico e dagli interpreti, il compositore è privo di stimoli esterni, si distacca quindi dalle reali possibilità strumentali, e la verifica mancata rischia di condurlo  verso un crescente intellettualismo costruttivo. Le carenze istituzionali, il fatto innegabile che nei conservatori si insegni soltanto la storia di una delle composizioni, conduce molti alla sensazione della  privazione di un linguaggio personale, perché nelle mani si è acquisito un mestiere indotto e dal percorso obbligato. Laddove quindi non ci si senta legati, o se ne sia già esaurito l’apprendistato, alle scuole di storia della composizione -le quali nel migliore dei casi si arrestano, nell’acquisizione del metodo, al cromatismo malheriano- o ad una delle scuole dell’ avanguardia storica (6), si constaterà l’esclusione dal mercato delle esecuzioni pubbliche e delle pubblicazioni. E, soprattutto, si affermerà l’indipendenza della propria voce, l’eclettismo compositivo, la situazionalità della propria produzione. Su questo tema, un recente contributo di Michele Dall’Ongaro ha delineato con sufficiente chiarezza quali relazioni intercorrano tra il mondo dell’editoria musicale e quello dei diritti d’autore,  collegati ai passaggi radiofonici ed alle esecuzioni; vi si riferisce, tra l’altro, delle conclusioni dei compositori italiani presenti alla tavola rotonda «La Musa Incantata», organizzata dalla Federazione degli autori, sostanzialmente confluenti nel denunciare le carenze del mercato editoriale e nel condannare i meccanismi che lo muovono (7). Confrontando i dati di diverse ricerche sul campo (8), oltre alle già esposte tematiche, si potrà verificare che i compositori che hanno appena terminato gli studi restano in genere inseriti in un circuito di associazioni-satellite ancora legate alle scuole locali; essi tenderanno a ricercare un  macrosistema che simuli quello appena abbandonato: un «sistema del comporre»; così si spiegherebbe il successo di posizioni strutturaliste di matrice bouleziana, e quello eclatante di Donatoni e di Clementi. Molti giovani diplomati si trasformano a lungo in epigoni di chi pare in grado di perpetrare la logica tradizionale del ‘mettere insieme’, anche laddove questa compilazione dovesse sembrare apparentemente destrutturante.

La situazione sembra ancor più grave nei luoghi maggiormente decentrati, e nel  meridione, dove predominano le scuole con una forte valenza meramente didattica, quelle cioè istituzionalmente reazionarie. Soltanto una tra le possibili forme del comporre viene analizzata e studiata, e sovente i manuali di riferimento sono inadeguati e non aggiornati.

Una connotazione di  grande staticità permane anche in centri importanti come Napoli, e viene già rilevata da tutti i compositori promotori di “Avanguardia e ricerca musicale a Napoli negli anni ‘70”, una delle prime manifestazioni aperte, almeno progettualmente, all’Europa. Luciano Cilio è la personalità emergente, la più interessante del gruppo: dopo la sua scomparsa si ricadrà nell’immobilismo, ed il suo spazio (Villa Pignatelli) sarà utilizzato ancora per qualche tempo per la produzione di rassegne di musica contemporanea, questa volta però riferite alle avanguardie storiche,  avulse dalla realtà locale. La ricerca musicale per Cilio si concretizza inizialmente nell’attenzione per i procedimenti aleatori. Poi (è il 1971) nel lavoro attorno alla Klangfarbenmelodie, e più precisamente nello studio della materia musicale che viene scolpita e usata attraverso dei «piani sequenza che sono dovuti alle masse timbriche» (9), non ai singoli strumenti o al loro mero accostamento. Infine il lavoro sulla complessità semiografica. Tuttavia, l’aspetto che qui più interessa è l’attenzione di Cilio per il suono, che viene usato in modo molto vicino ad una accezione ‘interna’ («... rientrare nel suono, tenerlo, tenerlo... poi lasciarlo andare...» (10)). Qui, Cilio sembra vicinissimo a Giacinto Scelsi, il compositore oggi forse più noto all’estero assieme a Luciano Berio. Un recente contributo di Zoltan Pesko sulla rivista portavoce dell’ IRCAM  rivaluta le ricerche del compositore italiano, dopo la polemica sulla reale paternità delle sue composizioni, ed apre una nuova luce anche sulle musiche di Cilio.

Da una ricognizione effettuata attraverso una serie di interviste, il malessere per l’assenza di strutture veicolanti, per la continua promozione di sound folklorico, di ritmi sudafricani, etc,risulta ancora ben vivo tra il 1984 e il 1985, e viene registrato propriamente come ‘assenza di avanguardia’, anche in relazione alla mancanza di interpreti specializzati. Paradossalmente, e specie per la musica contemporanea, non si dà interpretazione se non vi è cambiamento del segno. La mera riproduzione, aliena da ogni reinvenzione, è morte della mediazione esecutiva, e non conduce al predominio dell’idea del compositore, ma alla mera affermazione  cartacea del simbolo.

La situazione della musica elettronica è, se possibile, ancor più devastata. Dopo l’autoisolamento di Antonio De Santis,  originariamente collaboratore dell’IRCAM e meridionale d’adozione, poco o nulla è stato fatto, se si esclude il progetto animato nel 1986 da Giorgio Nottoli e dal Centro di Informatica musicale Suono e Immagine. Naufragata poi a causa dell’inerzia delle istituzioni competenti, l’idea ha partorito una sola, ma significativa, rassegna di musica elettronica, su nastro e in tempo reale.

Si è constatata, dunque, la chiusura dello scenario meridionale, ed italiano in genere. Ma questa chiusura verso l’interno può costituire contemporaneamente anche la forza del compositore venturo. ‘Ricerca musicale’ è oggi sinonimo di riappropriazione di un linguaggio personale (11), al di là degli strumenti. Pare che nessun compositore voglia rassegnarsi al presunto decesso dell’arte (12), e questo dato va letto ancora una volta nel senso della designificazione  dello sperimentalismo, di quello fine a se stesso. Le voci, diverse per portato culturale e per itinerario di formazione, hanno in comune, ancora, l’esigenza di fondare le  opere su entità formanti piuttosto che formali, su un processo che osserva il suono interno piuttosto che l’organizzazione; c’è nuova attenzione per il contenuto. Si procede, insomma, almeno nei desiderata, all’esorcizzazione della struttura. Ciò può significare che la forma, ultimo baluardo eretto da Schoenberg a contenente del materiale sonoro, poi estremizzata dal rigorismo bouleziano (13), può essere prevalentemente trascurata nel processo di creazione. L’opera sembra attendere una vivificazione da stati che non sono estranei alla più intima delle elaborazioni. Si indebolisce, così, la sequenzialità discorsiva della musica occidentale, si superano forse anche i procedimenti cageani, e ci si avvia verso una musica che osserva lo specifico del suono all’interno del suono stesso: spettrale in senso fisico, ma spettrale anche perché intangibile e informale: una musica che si adagia sul pensiero (14).

Non a caso uno dei più recenti tentativi di sistemazione filosofica del fenomeno musicale (15) ha sentito l’esigenza di confrontarsi con le teorie di Marius Schneider sull’origine del significato della musica, pur ignorandone il retroterra tradizionale, arrivando a teorizzare che un significato originale della musica è per se stesso perduto (16). Alla luce dei dati raccolti, e qui soltanto sommariamente esposti, si può invece rilevare che esistono segnali di un movimento verso una musica in grado di riacquistare un significato  tale da essere sentito come originale: non perdita, quindi,  ma  smarrimento. L’auspicio dei compositori , una inversione sintropica.



[1]Altra accezione è quella kantiana, come scienza delle regole di una sensibilità in generale. Sul legame tra le due concezioni cfr. D. FORMAGGIO, “Estetica”, in A.A.V.V., Filosofia, Milano 1966, Feltrinelli, p. 63.

 

[2]Questa assonanza  tra opera, ricerca e possibilità (di qualità), in relazione a Musil è rilevata anche da L. NONO, Verso Prometeo,  Milano 1984, Ricordi, p. 11; e da Massimo Cacciari, ibid., p. 84.

 

[3]Apparentemente contrario M. TUTINO, “Costruirsi un ruolo”, in Annuario musicale italiano, quarta ediz., vol. I, Roma 1989, p. 338: «un altro dato curioso è la rinnovata attenzione alla musica rivalutando l’importanza dei ‘generi’». Qui i ‘generi’ vanno intesi come ‘specie’ sinfonica, cameristica, pianistica.

 

[4]Rispetto all’apertura di campi di possibilità ci si riferisce ad una mera possibilità combinatoria che può evidentemente favorire, in condizioni di maggiore ampiezza strutturale e grazie alla presenza di più eventi, una più ampia apertura verso sistemi diversi, e perciò stesso superiori.

 

[5]Certo non propendendo verso le note  posizioni sull’ artigianato musicale: così C. LAGO, “Quell’abile e visionario artigiano”, in Annuario Musicale Italiano, cit. p. 337

 

[6]Che si sia  già tentato di storicizzare quanto dovrebbe più propriamente essere ancora considerato ‘contemporaneo’ è dimostrato, ad esempio, dal volume di  D. TORTORA, Nuova Consonanza, Firenze 1991, LIM: qui l’intento (auto)celebrativo, in fondo principiato col primo festival intitolato ad Evangelista, raggiunge l’apice, e manifesta anche la debolezza di ogni ‘gruppo’ che si istituzionalizza, si rende apologetico, si cristallizza nel già compiuto. Si cade così in una vera e propria crisi di rappresentanza.

 

[7]M. DALL’ONGARO, “La Tigre di Carta”, in  Piano-Time anniversario, Settembre 1991.

 

[8] Ci si riferisce ai dati CIDIM, al progetto ITACO, a numerosi altri materiali di diretta acquisizione (interviste, conversazioni ed altro).

 

[9]Da una intervista concessa all’autore di questo saggio nel 1982, poi pubblicata in più riprese su quotidiani e settimanali napoletani.

 

[10]A.A.V.V., “Avanguardia e ricerca musicale a Napoli negli anni ‘70”, programma della manifestazione, Napoli 1981.

 

[11]«A Napoli non c’è spazio per la composizione, c’è poca avanguardia, anche per la scarsa presenza di interpreti specializzati», F. DI LORENZO in una intervista poi pubblicata dal quotidiano NapoliNotte, Febbraio 1984.

 

[12]Una descrizione significativa della crisi del linguaggio è quello tracciata da F. RELLA, in  Il silenzio e le parole, il pensiero nel tempo della crisi, Milano 1988, Feltrinelli. Cfr. anche M. CACCIARI, Krisis, Milano 1979, Feltrinelli.

 

[13]In questa direzione anche M. TUTINO, “Costruirsi un ruolo”, cit., p. 338: « (...) esigenza (...) che si può riassumere sinteticamente nella fiducia, anche a costo di una certa cecità, nei valori interni delle singole espressioni artistiche, e nel rifiuto di dare per scontata la morte di uno qualsiasi dei generi possibili». E nella medesima posizione appare la maggior parte delle voci interpellate nel progetto curato dall’Editore Flavio Pagano sulle  Autanalisi dei compositori italiani.

 

[14]Nel celebre articolo “Schoenberg è morto”, Boulez si riferisce alla parola ‘struttura’: «a partire dalla generazione degli elementi componenti fino all’architettura globale di un’opera. Tutto sommato, una logica di ingeneramento tra le forme seriali propriamente dette e le strutture derivate è rimasta assente (...) dalle preoccupazioni di Schoenberg» (in A.A.V.V., Storia della musica, Torino 1980, p. 206). E’ forse opportuno segnalare che Schoenberg si considerò sempre più compositore che teorico, e che spesso si dichiarò incapace di definire anche soltanto ‘dodecafoniche’ certe sue opere.

 

[15]Si pensa qui, tra gli altri, soprattutto a Giacinto Scelsi,  Aldo Brizzi, Gabriele Montagano.

 

[16]G. PIANA, Filosofia della musica, Milano 1991, Guerini e associati