AFGHANS

Marco Boccitto

La musica non è esattamente il bene di cui sembra avere più urgente bisogno il popolo afghano in questo momento. Al massimo si può parlare di uno dei tanti diritti negati in 23 anni di guerra, con buona pace del fatto che di bisogno si trattava e anche primario. Nel confronto regionale tra Urss e Usa i due elefanti che lottano non si preoccupano dell’erba che viene schiacciata. Anche ora, che l’elefante è uno e va a caccia di topolini con la benedizione di tutti gli animali della giungla, la musica non è cambiata. Resta però lo stupore per il modo in cui in molti si sono accaniti su quella che era considerata una delle scuole più ricche e rinomate dell’Asia intera. Va bene temere il potere consolatorio e inebriante, la forza aggregante della musica, ma per crivellare di colpi e ridurre all’agonia tutto ciò che ruota intorno a quello che i sufi di qui chiamano “cibo per l’anima” c’è voluto del talento supplementare. Addolora, anche in questo caso, vedere su quali crateri sono cadute le bombe di Bush. Considerando meglio la “musicofobia” dei talebani, non era forse il caso di utilizzare sound system d’assedio caricati a heavy metal (la musica degli Anthrax), come quelli sfoggiati per stanare Noriega a Panama? Sarebbe stata una guerra troppo raffinata. Ora non è chiaro se tra gli obiettivi degli americani ci sia anche quello di spianare la strada ad armi strategiche tipo Kenny Rogers o Springsteen. È chiaro che anche in questo caso troverebbero solo macerie, un velo impietoso che ha fermato il tempo alla fine degli anni settanta, proprio nel momento di massimo fermento. L’ora esatta potrebbe coincidere simbolicamente con quella del decesso di Ahmad Zahir, il cantante numero uno, arrestato e scomparso poco dopo il rilascio, in uno strano incidente stradale.

Ma la storia di questo ennesimo liberticidio di massa purtroppo è molto più lunga e non ha ancora smesso di confluire in quella vicenda più vasta, che riafferma in tutto il mondo e tutte le epoche l’istinto a censurare, controllare o semplicemente annientare una fonte certa di fastidiosi effetti collaterali: è noto che con la musica la gente si svaga e si consola, balla, ci pensa su, ci canta sopra, ne trae coraggio, ci massaggia il cuore. Più il prodotto è buono, più le allergie si curano con metodi brutali. Dalla Grecia antica a Orano, la ex “città radiosa” dell’Algeria, è tutto un proliferare di fondamentalismi filosofici, voci silenziate e orecchie chiuse. Si pensi all’ex Urss e all’ex Rhodesia, a quello che hanno dovuto e devono subire i lautari zigani di Romania, i cantautori cileni e quelli curdi, le star del raï, i griot dissidenti della Guinea. Si guardi agli editti, agli innumerevoli bandi coloniali che hanno colpito il carnevale, i tamburi, le canzoni della strada nelle ex colonie europee. La Germania nazista ringhia contro lo swing. L’America puritana si accanisce contro il rap (altro paio di maniche la censura operata dai media e dalle leggi del mercato nelle cosiddette società democratiche). Se poi qualcuno acquisisce visibilità e capacità di influenzare i giovani, di galvanizzare i poveracci o di eccitare la moglie del capo, apriti cielo.

 

VECCHIA KABUL

Per gli afghani, ma anche per gli occidentali che da adolescenti si sono appassionati alla magia delle onde corte, sarebbe fin troppo facile rievocare i fasti del passato in contrapposizione alla tragedia presente, lamentare la progressiva perdita di un patrimonio musicale importante, difeso a stento dai campionatori ma custodito come i gioielli della corona all’interno delle comunità residenti all’estero. C’è persino un uso terapeutico della musica, sperimentato dagli esuli di Fremont, California, per curare le vittime dei traumi di guerra. La lontananza, come insegna la saudade lusitana, lascia decantare ed esalta l’identità. I video e le registrazioni degli artisti che andavano forte negli anni settanta viaggiano di mano in mano o attraverso la rete (decine di siti, radio on  line, archivi con centinaia di nomi e migliaia di canzoni ecc., basta digitare afghan+music su un qualsiasi motore di ricerca per farsi un’idea), tenendo vivo il ricordo di una promessa spezzata. Il ground zero della musica afghana. Poi bisogna considerare quello che nel frattempo i musicisti migranti hanno aggiunto a una pentola che bolle ormai da cinquemila anni. Piace molto fantasticare sul legame esistente tra Mirwais, produttore di elettronica residente in Francia che ha collaborato a Music di Madonna, con i suoni che debordavano dalle finestre del palazzo di Yama, il primo re di Aryana. Imparentare Showkkat, che a Toronto ha adattato la lingua dari (il persiano parlato in Afghanistan) alla canzone country, con le sonorità dell’antica civiltà zoroastriana. Ali Amar. che si definisce “cantante internazionale”, o la miscela techno di Jawed Kazimi, con la forza centripeta di almeno tre aree culturali, India, Persia e Asia Centrale, capace di modellare la società e quindi la musica afghana ben prima che l’Islam potesse interferire. Figurarsi che a inaugurare la mania dei canti devozionali furono le composizioni Regvida, secoli prima di Cristo, in sottofondo alle orde ariane che “civilizzavano” l’area intorno a Balkh. Molto più tardi furono i sufi e gli eremiti a stabilire un intimo legame tra musica e dio.

Una lunga strada di esodi e mescolanze, che attraversa i tempi (XVI secolo) in cui Babur, fondatore della dinastia Moghul, fa di Kabul una capitale prospera e delle tribù di origine iranica, arrivate che è poco, per restare, un popolo. Trecento anni dopo il re Amir Sher Ali spenderà fortune pur di assicurarsi a corte i migliori musicisti classici indiani e un certo Amir Khusran Balkhi forse inventò il sitar: nello stilare il sistema dei raga e dei tala ebbe sicuramente un pensiero per la musica pashtun, rappresentata da un tipico ritmo in sette. Se parliamo di strumenti, nell’ambito di una liuteria molto creativa spicca il rubab, attestato nell’antica iconografia greco-buddista di Gandharan e oggetto di speciali menzioni nella poesia di Rumi, il Dante dei sufi. Una sonorità leggera come l’aria in cui si muove, lieve eco metallica che prende subito la via delle montagne lasciandosi dietro una scia di suoni simpatetici.

Altre strade e altre nostalgie portano alla Kabul vecchia dei vicoli fitti, le case accartocciate una contro l’altra, la poesia che cresceva naturale sui muri colorati, ai bordi delle strade assordanti, nel distretto di Shor Bazaar. Dall’inizio del ‘900, tra le mitologie sviluppate dalla guerra d’indipendenza si distingue la vicenda di Kharabat e dei kharabatis, i musicisti, cantanti, performer vari che abitano questa casa dell’arte e della poesia, non lontano dal palazzo del re Amanullah Khan (1919-1929). Una zona franca nella quale è possibile annegare i peggiori pensieri nella migliore delle musiche. Negli anni venti questa musica, vicina all’India sia nel rigore sia nella libertà, diventa forse il primo oggetto di creazione sonora individuale. Un canone musicale come il kharabat, nato negli strati poveri della società, ma capace di offrire una sponda sicura alle più nobili tradizioni letterarie e poetiche del paese, assurge a modello classico nazionale. Dalle finestre di Kharabat si diffondono come appetitosi profumi di mezzogiorno le voci luminescenti di Ustad Qasim, “il saggio del kharabat” e Ghulam Hussain, maestro (ustad) della porta accanto (celebre anche il figlio Mohammad Ussain Sarahang). Dietro la spinta di questi ustad e di musicisti come Ali Rabbani e Chacha Mahmood si crea un formidabile vivaio artistico.

Il figlio più amato della musica afghana però nasce solo nel ’46 a Laghman e muore solo 33enne in circostanze sospette: Ahmad Zahir farà in tempo a diventare il fenomeno più celebrato della sua era e il più rimpianto ancora oggi. Il punto di svolta della musica afghana moderna comincia a New Delhi, negli anni ’60, dove il padre, figlio di contadini, è ambasciatore. Non esisteva forse al mondo luogo migliore per la formazione di un musicista asiatico moderno e completo, in grado di combinare gli strumenti tradizionali con la tromba, il sax, chitarra, batteria, di valorizzare la poesia contemporanea di lingua dari e pashtun, creando un ponte con la letteratura nazionale (che a differenza della musica non è esclusivamente orale), di raccogliere il folklore delle varie regioni e metterlo in rapporto con la musica internazionale, di imporre parole e interpretazioni proprie a celebri canzoni straniere. Di conquistare tutti con il suo sorriso avvolgente e la voce magnetica. Negli anni ’70 quella voce fa di Ahmad Zahir un simbolo nazionale che imperversa in tutta la regione. Lui se ne assume tutta la responsabilità e nel ’73 canta le speranze per l’avvento della repubblica, ma la disillusione tornerà presto a regnare nelle canzoni. Dopo il colpo di stato di Taraki nel ’78 passa quasi in clandestinità, ma non risparmia frontali attacchi canori al nuovo rgime. Nel giugno 1979, dopo un breve arresto, trova la morte in un uno scontro automobilistico, forse organizzato dagli agenti del regime filo-sovietico. È il giorno del suo 33mo compleanno e la notte prima ha avuto il secondo figlio. Lascia  una ventina di cassette e innumerevoli video per ricordarci il mito che era. Sempre in un incidente trovava la morte, vent’anni prima, il poeta “folk” Malang Jan, altro simbolo amato della cultura nazionale. A lui è intitolata una scuola d’arte fondata a Ningarhar, nell’est del paese, un’altra fucina di talenti, poeti, cantanti, attori, un altro potenziale inespresso. E allora sono rimpianti sparsi: per la varietà spavalda di Herat, vissuta magari separatamente, ma con uguale intensità, da uomini e donne; per i tempi in cui da Kabul sud veniva su il suono “progressivo” logari (modernizzatore di turno è Ustad Durai) e la musica circolava libera nei teatri, in strada, nei ristoranti, nei mercati. Con il simultaneo sviluppo dell’industria dell’audiocassetta, c’era di che scegliere: classica, canzone romantica ghazal, folk vario, pop occidentale, musica regionale pashtun, musica persiana, tagika, uzbeka, con più concessioni ai gusti kirghizi, hazara, beluci e turkmeni e senza dimenticare il bhangra pakistano. L’influenza indiana ancora una volta è generosa e passa attraverso il fantastico mondo di Bollywood, della gioiosa macchina cinematografica che porta con sé canzoncine  appiccicose e penetranti. Come avvenuto in passato con la musica classica e il folklore, il contributo afghano di ritorno è bene accolto, i gusti locali soddisfatti.

La tv arriva solo nel ’77, quindi il più potente e competente mezzo di propagazione resta a lungo la radio, una radio multilingue in grado di raggiungere il nord e il sud del paese, di incoraggiare lo scambio di musiche regionali. Il mestiere di musicista, poco raccomandabile fino a poco tempo prima, grazie alla radio che produceva registrazioni e le metteva in onda, torna a svilupparsi su linee ereditarie. Radio Afghanistan dedica molto spazio agli eroi della musica nazionale, ma passa spesso anche rock e country. Non ai livelli di Voice of Youth Fm, la radio controllata in Iraq da Uday Hussein, il figlio di Saddam, ma quasi. L’influenza occidentale che si poteva ravvisare soprattutto nella musica prodotta a Kabul provoca già le prime irritazioni. Religiose ma anche musicologiche. Naim Majrooh è uno degli intellettuali più allarmisti della diaspora, visto che tanti musicisti per vivere in America e Australia non esitano a perdere  aderenza con la terra dei padri: così lancia un piccolo ma significativo progetto, una task force che a Peshawar assiste e usa i musicisti afghani: supporto economico in cambio di nuove registrazioni acustiche, per continuare l’opera del padre (fondatore dell’Afghan Information Center), ucciso sul campo nel 1989.

 

LA FINE DELLA MUSICA

Oggi, prima di giudicare, bisognerebbe riprendere il discorso dal kiliwali, un mix pan-afghano realizzato sulla base naturale offerta dal diffusissimo folklore pashto. Poco più che un embrione congelato, una utopia pop di riconciliazione, un fenomeno inter-etnico stroncato sul nascere dall’invasione sovietica. Da quel momento in poi, cosa dovevano farsene gli afghani della musica d’intrattenimento, dei modi frigi, delle melodie per quarte parallele, dei vecchi suonatori e dei baby-usignoli? Il minculpop in carica durante i successivi 14 anni instaura il controllo integrale dei media e impone diktat precisi agli artisti: chi ci sta canta le lodi del nuovo regime, chi non vuole se ne va o peggio. Il celebre compositore Nainawas, padrino di tanti cantanti famosi dell’epoca, viene passato per le armi. Intanto le serate di gala governative scandiscono la vita nel quartiere delle ambasciate, Kabul si riempie di vodka, discodancing, paccottiglia turbo-folk, prostituzione, canzoncine da truppe in libera uscita che sfottono i “controrivoluzionari”. I Mullah ci restano male, soprattutto per le ragazze rapite e costrette ai festini hardcore.

La spirale anti-musica voluta dagli ulema comincia così molti anni prima della presa di Kabul, nei campi profughi e nei nuovi quartieri afghani di Peshawar, dove i talebani impongono il lutto, quindi il silenzio, in omaggio ai mujaheddin caduti nella guerra di liberazione. La misura in sé poteva anche non destare sospetti: nella tradizione la musica, obbligatoria nelle feste nuziali, nelle circoncisioni e in tutte le occasioni di festa, di fronte alla morte deve fermarsi (questo rende ancora più spettrale il silenzio degli ultimi tempi). Peccato solo per i tanti musicisti che già si erano bene inseriti in Pakistan, nelle comunità di lingua pashtun, aggiungendo una varietà stilistica molto apprezzata al già affollato mosaico delle musiche popolari locali, motore indiscusso di una discreta industria musicale e cinematografica. Peccato per le prime vittime dei ribelli islamisti. Negli anni ottanta le cantanti Bakht Zamina e Khan Qarra Baghi finiscono nella lista sbagliata insieme a varie star televisive, agli scrittori e ai poeti sgraditi. A Kabul tra non molto suonerà la campana a morto anche per il regime filo-sovietico: tradotto in afghano vuol dire che presto la radio trasmetterà Rag Malhar di Ravi Shankar, un sitar che di solito annuncia la pioggia e i cambi di governo. Musica che stavolta annuncia la fine della musica.

Durante i primi anni del regime Rabbani la censura è già pesante, ma lascia piccoli spiragli praticabili. Chiusi i teatri, le sale da tè e da concerto, un privato teoricamente può ancora affittare un’orchestrina e portarsela a casa. La radio e la tv trasmettino ancora musica un paio d’ore al giorno: nel primo caso non vengono annunciati i nomi dei cantanti, nel secondo al posto dei performer viene inquadrato un vaso di fiori. Ai musicisti professionisti si rilasciano licenze temporanee, a patto che evitino le canzoni d’amore (90% di tutti i repertori possibili) e la musica da ballo. Poi la situazione peggiora: viene bandita ogni forma di amplificazione, la polizia religiosa irrompe sempre più spesso nei luoghi in cui si fa musica e sequestra gli strumenti. Alla fine del 1996 la musica viene proibita nei negozi, negli alberghi, nei taxi, spazzata via dai media. Finisce in carcere chiunque venga trovato in possesso di audio e videocassette non autorizzate. L’”Ufficio per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio” multa, arresta, devasta, diffonde la paranoia. Gli strumenti musicali – si tratti di liuti tradizionali o sataniche chitarre elettriche - bruciano insieme all’hashish, alle “barbie” e ai televisori. I roghi di piazza rievocano la missione disinfettante a cui sono storicamente chiamati i wahabiti. Solo che neanche i sauditi, nel santuario ufficiale di tutte le contraddizioni di cui si nutre questa idea di società islamica, neanche gli ayatollah iraniani nel loro periodo di massimo splendore, neanche le mamme anti-rock californiane e i quaccheri di Salt Lake City erano arrivati a tanto.

Accade ciò che nessuno avrebbe mai immaginato né tantomeno augurato a un popolo di melomani accaniti e raffinati praticanti, che come avviene in tante altre società normali, islamiche e non, mai avrebbe rinunciato alla compagna più fedele nei classici riti di passaggio che costellano la vita di un individuo, alla regina del tempo libero. Mortificato il fervore creativo (anche femminile), screditate le scuole d’arte, congelata qualsiasi aperture alla modernità, ecco che il repertorio praticabile si restringe drammaticamente. I pochi musicisti rimasti nel paese possono prendere qualcosa in prestito da espressioni devozionali della locale tradizione sufi, ma soprattutto devono tener conto della moda imposta dal regime (in questo evidentemente simile a tanti altri, solo più rozzo nei modi): nella nuova hit parade entrano solo i “canti” di propaganda dei mujaheddin che esaltano la vittoria sul male ed elogiano il sacrificio degli shahids (martiri). I nuovi testi vengono adattati a celebri motivi regionali pashtun che tutti conoscono. Senza troppi sforzi ma con discreto gusto musicale, buona intonazione e forte senso del ritmo. Una, massimo due voci all’unisono, senza accompagnamento strumentale. Viene solo aggiunto un grottesco effetto di riverbero che dovrebbe evocare le risonanze magiche, l’acustica di certi luoghi sacri (sì, lo stesso eco chiesastico che fa spataccare dal ridere nel gregoriano-pop dei Benzedrine Monks of Santa Monica). Di questo sono fatte le audiocassette col bollino, quelle con i missili e l’ardore bellico-religioso in copertina, le uniche ammesse in circolazione. Come sempre il pribizionismo aumenta la voglia e aguzza l’ingegno, ma qui è dura. I musicisti nascondono gli strumenti in luoghi segreti e si ritrovano nelle cantine per non perdere la mano. Gli automobilisti trafficano con le custodie dei nastri in prossimità dei check point, le voci dei cantanti più amati finiscono nelle cassette che teoricamente dovrebbero contenere letture di versetti coranici.

Come già nella perversa associazione del silenzio al lutto, i talebani forzano un altro aspetto latente nella tradizione, separando il concetto di canto da quello di musica strumentale. Il divieto che riguarderà tutti gli strumenti verrà esercitato con particolare severità nei confronti del tamburo, sulla scorta potremmo dire dell’esperienza etrusca, nonché di papi e governatori europei d’altri tempi. Per contro, salmodiare versetti del Corano non è considerata un’arte musicale come nel mondo arabo, dove è più forte la cultura del maqam. Ma il conflitto con ben altre concezioni della religione si consuma, inevitabile. Come la mettiamo con le cantilene circolari, la gestualità vigorosa, il respiro profondo che porta all’estasi e alla trance nel rituale sufi dello zikr? Inoltre a Kabul e in altre città afghane l’ordine sufi Chishti ha affermato da un pezzo la pratica del sama’ (vedi alias n°…, p….), un vero e proprio concerto rituale offerto al pubblico dei devoti. La scala che avvicina a dio è fatta di tanti pioli: l’accompagnamento strumentale fornito da harmonium, tablas, rebab ecc. è considerato essenziale nel dissolvimento dei sensi che propone il qawwali, la forma poetico-vocale con cui il mondo ha potuto familiarizzare attraverso le performance di Nusrat Fateh Ali Khan (anche alla personale stirpe del divo pakistano scomparso pochi anni fa vengono attribuite origini afghane). A Kabul il clima del qawwali non sarà mai ebbro e surriscaldato come a Lahore, ma il tipo di trasmissione e lo scopo sono analoghi. La musica per gli Chishti è qaza-ye ruh, prelibato nutrimento spirituale. Del resto siamo ai bordi di una cultura millenaria, quella persiana, dove è impresa ardua ravvisare distinzioni nette tra musica sacra e musica profana.

 

STRUMENTI DI CONOSCENZA

Il rubab (rebab, rabab, robab), considerato strumento nazionale, è un piccolo liuto a 6 corde da cui discende probabilmente anche il celebre sarod indiano, grazie a una modifica operata alla fine del ‘700, guarda caso, dal diretto antenato di uno degli attuali fuoriclasse, Amjad Ali Khan. Ma non sono gli strumenti che mancano nelle diverse tessiture sonore, “tipiche” di quello che è stato nei secoli uno dei proverbiali crocevia asiatici. Al nord il dambura è quasi sembre combinato con un violino (ghitchak) che all’occorrenza è ricavato da una lattina d’olio: due corde ciascuno, per accompagnare il tè e le chiacchiere in lingua uzbeka. Aveva due corde anche il colto dutar che si pizzicava seicento anni fa nelle case gentilizie di Samarcanda e Bukhara, ma la furia innovatrice di certi musicisti si è spinta ultimamente fino a 14. L’elenco dei cordofoni potrebbe continuare con lo shashtar e l’antico tar, oppure scomodare celebrità come sitar, tanbur e  santur, riferimenti a culture di un’area ben più ampia rispetto a quella chiusa tra queste montagne. E poi “violini” (richak, simile alla kemencha  persiana, il metafisico sarang, che i beluci del sud amano e chiamano sarinda, o sarud); tamburi vari, a coppie (dholak, tabla), a doppia membrana (dhol), a cornice (daira), a calice (zerbaghali); un flauto verticale a sei fori (tula) e la surnai, una sorta di oboe che rimanda alla zurna balcanica o alla ghaita araba, un soffio rauco utilizzato per rendere più frenetico il ballo; e ancora il tintinnare gentile dei cembali (tal), la voce morbida ed espressiva dell’harmonium. Se non suonasse paradossale, oggi, si potrebbe qui lanciare un appello per salvare dall’estinzione un’arpa curva del nord-est (waji), utilizzata nel Nuristan per accompagnare l’epica orale e i canti polifonici, sottofondo ideale per eventuali riflessioni sul rebus etno-antropologico del Kafiristan. Ricordare i tempi in cui si ballava in circolo l’atan, danza popolare accompagnata dal suono sinuoso del sarinda e dal pietroso rubab, in rappresentanza rispettivamente della donna e dell’uomo. Aproposito: le donne al massimo possono toccare il tamburello e lo scacciapensieri, cantare in privato, chiudere nello scrigno di un landai (una tra le forme poetiche più brevi e fulminanti del mondo, emanazione del folklore pashto) il loro grido di rivolta. La donna smette di essere musa, ma troppo spesso il suicidio resta il gesto più politico che il codice d’onore della sharia le consente. Due versi due, spesso apparentemente slegati tra loro: le rapide linee parallele di un landai bastano a scandire ogni aspetto della vita sociale afghana, di emettere sentenze inappellabili su qualsiasi argomento (il mito di Malalai e di quell’unico, fulmineo landai capace di capovolgere le sorti della guerra contro gli inglesi). Sayd Bahoudine Majrouh ha raccolto alcuni dei landai più lancinanti composti dalla metà degli anni settanta in Le suicide et le chant – Poésie populaire des femmes pashtounes (Galliamard, Parigi 1994).

 

FUORI I DISCHI E IL RESTO

Guisto nel caso in cui Dj Pathaan, i Fun-da-mental e i Motmen di Afghani Dub non dovessero bastare, si consideri:

1)     Afghanistan / Traditional Musicians – A Journey to an Unknown Musical World (Network) offre una splendida panoramica, pur riassumendo in estrema sintesi il lavoro svolto nella primavera del 1974 da una squadra della Westdeutsche Rundfunk, 200 registrazioni raccolte sul campo un po’ in tutto il paese. La qualità è eccellente e non è solo questione di incisione. Gli interpreti, di età compresa tra i 9 e gli 80 anni, e il florilegio di stili e strumenti, compresi a fatica nei confini di quello che chiamiamo Afghanistan, valgono il viaggio: punto di partenza e di arrivo Herat, nel cuore dell’antico Khorasan: specialità ghazal, la musica e la poesia più dolci del mondo. Viene da qui Abdul Mahad Wadadi, che è stato un celebre cantante negli anni ’60  e qui fa un po’ da guida spirituale allo staff tedesco. Da qualche tempo si è trasferito in Germania, dove ha registrato anche un paio di album.

Piccoli saggi di ghazal mescolato al folklore locale, tra sacro e profano, si trovano anche in Music from the Crossroads of Asia (Nonesuch Explorer), attraverso le produzioni di Radio Afghanistan. Discrete registrazioni sono apparse anche in Francia (Afghanistan, Playasound; Chants de Peshaï, Chant du Monde) e Giappone (Songs of the Pashai, King), Usa (Folk Music of Afghanistan voll. 1 & 2 - Music from Kabul,  Lyrichord). In Germania è uscito invece un ben documentato Music of Afghanistan (Bärenreiter Musicaphone), terzo volume  dell’”Unesco Anthology of the Orient”. Ancora in Francia, uno dei due volumi di Muslim music from Europe and Asia (Fremeaux & Associeaux) è dedicato alla “afghan music before the war”. Altri titoli: Inside Afghanistan (Asv Records) e Afghanistan – On the Marco Poloìs Road (Music of the Earth).

2)     I giovani “fuori”. Hamid Bahang è nato a Kabul ma fa il dj a Chicago fin dalla metà degli anni ‘80, colorando a modo suo la centralissima scena house locale. Fa il remixer con i Rhythm Boyz (Babylon Groove, 1995) e fonda la sua label. Poi diventa il complice prediletto di Jawed Kazimi, l’altro nome chiave dell’afghan underground. Figlio di musicisti emigrati in Germania, Kazimi non ci pensa due volte ad unire la dimestichezza su vari strumenti tradizionali con il lavoro di studio, la passione per la tecno, il reggae e quant’altro. Bewafa (Laser Dance Prod.), il suo accattivante album di debutto come solista, va come un treno nel circuito dance europeo. Roba da far invidia al Buddha Bar. Altro esordio, a  Melbourne, con Gole-Zeba, da parte del tastierista e percussionista Bareq Naseer, che con i suoi fratelli ha messo su un’idea di post rock afghano. 

3)     Ehsan Aman era tra i cantanti più popolari e meno tollerati degli anni settanta. Sbattuto fuori una prima volta da Radio Afghanistan, è praticamente rientrato dalla finestra. Al suo più grande successo, Allah, segue l’esilio. Dall’81 è ancora lì, cioè negli Stati uniti, e non ha perso il vizio dei dischi: l’ultimo è Blue Moods (Fifth String Entertainment), suono carezzevole in sofisticata grana digitale per aggiornare lo scenario intorno alla voce più amata della diaspora. Molto coccolato anche Rishad Zahir, il figlio della leggenda, Ahmad Zahir. Era nato a Seattle, durante un tour di quel divo che era suo padre, per tornare precipitosamente negli States all’età di 11 anni. Discreto scrittore in lingua farsi, ha assecondato con buoni risultati anche il versante musicale della sua aspirazione. Esordio all’età di 17 anni. Ultimo titolo prodotto Ishq-e-Mann.

4)     John Baily è un etnomusicologo britannico che da trent’anni frequenta da vicino la musica afghana, sia nei luoghi d’origine che in quelli della diaspora. Il suo reportage sulla censura musicale in Afghanistan, Can you stop the birds singing? (Si può fermare il canto degli uccelli?) è il primo testo organico messo in rete  dall’organizzazione Freemuse, finanziata dal governo danese, che ha lanciato una campagna contro la censura musicale nel mondo (www.freemuse.org).

5)     Larry Porter è un musicista jazz con formazione classica, disilluso dalla mercificazione di cui è oggetto la musica in Germania, dove lavora. Siamo nei primi anni ’70: un lungo viaggio in Oriente lo porteranno a curiosare qua e là, ma è a Herat che le sue orecchie decidono di fermarsi, calamitate dalle grandi voci che abitano le sue strade e le sue tea house. Il posto giusto per appassionarsi alla tecnica e al suono del rebab. Il tirocinio con il maestro Omar lo porta nel mondo del pashtun tal (tipico tempo in sette), gli insegna il modo migliore per usare una terza aumentata (shuddh ga) e un repertorio classico, forme che risentono dello stile vocale dhrupad. Naturale  ritrovare l’interplay di una jazz-band nella musica logari, a Kabul. Porter da 25 anni circa non parla più il dari ma padroneggia ancora splendidamente la lingua del rubab, portando il folk afghano nei ristoranti del Greenwich a New York o in cd come The magical rebab of Larry Porter.

6)     Jimmy Anderson è un appassionato e collezionista di musica afghana fin da quando, poco più che ragazzino, esplorava le onde corte in cerca di Radio Afghanistan. Non riceve aggiornamenti, né notizie dai suoi amici fornitori di Kabul dal ’94. Il poco che ottiene negli States da Haywad Productions serve giusto per placare le frequenti crisi d’astinenza. In questi giorni starà riguardandosi la videocassetta in cui Farhad Darya canta le lusinghe di Kabul, seduta su una collina che domina la città.

 

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