La musica dei ghiacci
Il 20 marzo si terrà
al Teatro Studio dell’Auditorium, per la Fondazione “Musica per Roma” ed il Festival della matematica, la prima
europea di “The Mathematics of resonant bodies” di John Luther Adams, un lavoro
per solista ed elettronica commissionato nel 2002 dal Los Angeles County Museum
of Art
“Iceberg, Icebergs, cathédrales sans religion de l’hiver éternel”, cantava Henry Michaux ne La Nuit remue. Ascoltata ad occhi appena socchiusi, non si può non associare la musica di John Luther Adams ai ghiacciai dell’Alaska. Quasi omonimo del celebre minimalista, meno noto in Italia, eppur considerato come uno dei più importanti compositori americani (David Rothenberg), di lui si scrive: è l’Alaska che ispira Adams o Adams che inventa l’Alaska?
Erik Satie scherzava coi ghiacci: “il naso sotto la pelliccia, madame; la slitta se ne va, il paesaggio ha un gran freddo, e non sa più dove nascondersi”. E di navi spaccaghiaccio, icebreakers, componeva Luc Ferrari nell’ottantasette, vincendo il Prix Italia col suo Brise-Glace, ovvero Le paysage blanc (Et si toute entiere maintenant, racconto sinfonico ristampato l’anno scorso dalla Mode di New York). Altri hanno dedicato passioni e incisioni a tracciati essenziali disegnati dagli acuti del pianoforte, se colpiti col taglio della mano destra: immagini glaciali, sculture di suono... Ice-tract.
E, tuttavia, solo John Luther Adams ha dedicato un’intera vita alla winter music, fino a rinvenire una speciale “convergenza di geografia sonora e di geometria acustica”. Col suo linguaggio musicale non si interessa “delle idee o della retorica della composizione, ma piuttosto di una singolarità sonora, del suono che rappresenta sè stesso, che occupa il tempo e lo spazio con una veritiera presenza molto fisica in un luogo”. Ciò gli consente di rinvenire, negli elementi primi della natura, una vera e propria violenza purificatrice del suono: suoni-icebergs che “affondano nel mare - queste forze elementari che risuonano così profondamente in seno al corpo e allo spirito umano” e ancora, quasi simmetricamente, suoni di acque che prevalgono sui ghiacci: “... ascoltare il suono di questo immenso fiume che si libera dall’immobilità ghiacciata dell’inverno”. Il panorama si compone nell’infinitesima prospettiva elementale, ovvero dei più semplici, ma inspiegati e misteriosi, processi di trasformazione degli elementi.
Questa potenza, che appare oggi come celata ai nostri occhi occidentali, distratti dalla schermatura del tecnologico, dall’invadenza dell’urbanizzazione, mantiene intatta in Adams una sua forza cerimoniale: il sacro della ripetizione, dell’esplosione percussiva, il sacro della sfasatura (diversa dal dephasing di Steve Reich, perché ciò che conta non è la ripetizione, ma la vibrazione che attraversa il corpo). Il riferimento va ai rituali eschimesi che “visibilmente modificano lo stato di coscienza dei partecipanti e degli ascoltatori per la ripetizione rapida ed insistente di suoni forti e complessi” (attenzione: non la ripetizione di sequenze di suoni, ma proprio di suoni singoli).
Ciò avviene attraverso l’uso di una scrittura tradizionale,
per strumenti acustici occidentali! “Ho composto partiture che seguono la
notazione classica, che devono essere suonate da interpreti umani su veri strumenti
... prendere la misura della risonanza e dei principi inerenti a questi
semplici frattali”. Da un lato, dunque, emerge l’elemento della simmetria,
l’uso di lunghe sequenze prevedibili, perchè “se il suono seguente è
prevedibile, allora il suono è libero di rappresentare sè stesso”, dove una
stringa di senso ci riconduce a John Cage. Dall’altro lato, questa ordinata e
apparente semplicità non esclude l’emergenza caotica della scienza della
complessità, spesso con l’ausilio dell’elettronica: “together, the orchestra
and the electronics evoke a vast rolling sea. Waves of perfect fifths rise and fall, in tempo
relationships of 3, 5 and 7. At the central moment, these waves crest together
in a tsunami of sound encompassing all twelve chromatic tones and the full
range of the orchestra”. Questa
presenza numerica di tempi, talora di intervalli, ‘dispari’, attraversa il
progetto di Adams come un reticolo matematico di semplicità reiterata, e non è esente
da una componente di sviluppo o costruzione frattale. In questa prospettiva va
letta “The Mathematics of resonant
bodies”, ovvero, come trasformare i numeri della natura in musica: “all noise contains pure tone. And the complex
sonorities of percussion instruments conceal choirs of inner voices”, dove
assieme all’elettronica si erge solitario, totemico, un singolo percussionista.
Una chiave di lettura per collocare i solisti di John Luther è forse Dark Waves, probabilmente il lavoro più strabiliante di Adams, nella versione per due pianoforti ed elettronica (2007). A differenza dei clusters reiterati (ancora troppo vicini agli sperimentalismi retorici del secondo Novecento) del precedente Among Red Mountains (2001), fra tremoli e rapidi arpeggiati in sequenze di crescendo e descrescendo, mostra la sua vicinanza con quella professione di ‘indifferenziato’, di musica che intende privarsi della volontà dell’interprete per dar luogo a quella ‘intenzionalità’ che la colloca a metà strada tra autoreferenzialità e validità ‘oggettiva’. A meno che la nozione stessa di cluster, ovvero di ‘grappolo’ di note bianche e nere, eseguite al pianoforte, non sia essa stessa ridondante per l’(ab)uso invadente perpetrato nel periodo deteriore degli “ismi”, e quindi trascini il solista in una zona in cui la retorica esecutiva prende il posto di quella che a questo punto potremmo definire come mera intenzionalità dell’interprete, quella appunto che fa un passo indietro rispetto alla determinazione volitiva di sottrarre ‘intenzione’ a ciò che l’opera, da sola, può dirci. Non a caso John Luther Adams, riferendosi al ruolo dell’esecutore ne considera essenziale la ‘partecipazione’ emotiva (rotoli di fax con le parti che arrivano dall’alto capo del mondo, telefonate di spiegazioni, incontri radi, poi più frequenti, e finalmente messa a punto di un lavoro sempre differente dai desiderata esecutivi!), salvo poi far emergere ancora la componente rituale dell’esecuzione, del tutto spoglia dai retaggi romantici e veterosperimentali (che curiosamente, e spesso, sembrano riprendere quell’unicità che pur era stata una caratteristica dei grandi compositori romantici, come se essa si fosse dapprima cristallizzata assieme al chiudersi dei ‘repertori’, per poi trasferirsi sui grandi ‘interpreti’ solisti). Dark Waves, nella versione per orchestra ed elettronica, lavoro di successo, richiamerebbe l’atmosfera o l’ambiente (e di proposito non dico ‘ambient’, per non generare assimilazioni con Brian Eno, che appare sì evocato, ma anche decisamente sopravanzato) se non fosse per la presenza/assenza di interpreti ‘eseguiti’, piuttosto che ‘esecutori’...
L’Alaska, i ghiacci, le cerimonie degli eschimesi, il work in progress con gli interpreti-esecutori; e, sullo sfondo, una costellazione, per abusare ancora di una immagine adorniana, tracciata dalle figure di Morton Feldman, John Cage, Iannis Xenakis, Barnett Newman (e come avrebbe potuto essere diversamente?). Riferendosi ad un altro brano, Strange and Sacred Noise, Adams ci consegna infine una frase che probabilmente rappresenta la vera destinazione d’uso del suo lavoro, la più autentica prospettiva della sua ricerca: “non ho cercato di mandare dei messaggi, ma piuttosto di riceverli. Non discuto di musica come modo di comunicazione, ma di comunione.”