Ho incontrato Cilio in diverse occasioni:
Era una persona radicale.
Siamo alla fine degli anni Settanta: Un grande interesse per la musica popolare: folk music revival La musica contemporanea era spesso presente a Napoli alla Rai nella Rassegna “Musica contemporanea e oltre”. Pochi gli spazi fisici e culturali per la sperimentazione: ad eccezione di alcuni luoghi quali gallerie e teatri off: Il teatro S.
Il teatro sicuramente era uno di quei luoghi dove la sperimentazione era accolta e spesso incorporata in alcuni spettacoli.
Poi un’altra tendenza alla quale ho contribuito personalmente (e della quale mi ritengo tra gli iniziatori): Rapporto tra progettualità e scrittura musicale in relazione alle strutture architettoniche. Non una musica qualsiasi eseguita in spazi storici ma una creazione progettata per lo spazio: Suite per un Castello, Veglia, Lamento di una monaca, Quodlibet, Piedigrotta Lunaire.
Queste componenti: musica-arte visiva, musica-teatro, e musica-architettura rappresentano delle peculiarità della sperimentazione musicale a Napoli. Un filone che io denominerei della Musica relazionante: una esperienza che crea dialogo tra le arti consentendo anche scambi tra matrici musicali diverse.
In questo spazio culturale si inscrive l’interesse per la produzione musicale di Cilio. Un’esperienza nella quale sia in fase progettuale che di realizzazione concorrono numerose intersezioni tra campi espressivi, secondo una metodologia non tradizionale: - nuova semiografia -ricerca sul timbro ed esplorazione degli strumenti quali oggetti sonori.
L’apprendistato “eretico” di Cilio lo porta ad una concezione della composizione musicale non codificata e dunque sottratta a quelle regole rigide del serialismo e delle scuole di composizione europee. In tal senso la sua produzione costituisce ancora oggi una anomalia, un ponte tra sperimentazione urbana e musica extra-europea secondo un metodo di scrittura musicale non prescrittivo, nel quale risulta centrale l’apporto creativo dell’interprete nella realizzazione di una “performance integrale”, unica e irripetibile.
Questo metodo, adottato in gran parte della ricerca anche della popular music, costituisce in quegli anni negli ambienti colti una provocazione, un involontario atto trasgressivo non accettabile. Da qui la conseguente ironia verso la produzione di Cilio se non la pura denigrazione: coma fa a comporre musica se non l’ha mai studiata? Un orecchiante che vuole fare sperimentazione musicale?
A distanza di vent’anni da quel periodo voglio dedicare un ricordo ad un artigiano dei suoni che, piaccia o meno, ha pagato di persona il suo essere radicale in una città a torto ritenuta quasi esclusivamente serbatoio melodico o, al massimo, luogo di una nostalgica armonia perduta. Questa città è invece eminentemente polifonica: una scatola sonora, una cassa di risonanza, che accanto ad un bene culturale come la canzone e il canto, ha prodotto anche altre interessanti voci, ora inascoltate, ora rese afone per l’eccessivo sforzo, ora infine soffocate. Perché non impariamo ad ascoltarle, a rispettarle e, perché no, anche a sostenerle? Sono proprio queste voci a determinare quella polifonia, quell’impronta del paesaggio sonoro di Napoli che mescola il suono al rumore, l’antico al contemporaneo, la memoria alla trasformazione. Sono proprio queste esperienze, ora “dissonanti”, ora in cerca di una propria localizzazione, a determinare quell’identità relazionante della città.
Pasquale
Scialò
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