Repubblica — 09 settembre 2009
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sezione: NAPOLI
I"formidabili" anni Settanta. Gli anni dell' unione studentioperai, delle conquiste laiche e femministe, del rinnovamento nella scuola, anni di estroe di utopie, di viaggi spaziali e attese vitali, di musica, entusiasmi e voglia di vivere. Ma, in Italia, anni terribili, nei quali imperversavano il terrorismo, le stragi "di Stato", un tentativo di golpe. E a Napoli, nel 1973, un' epidemia di colera che riportava paure medioevali. ANNI di contraddizioni, anni di piombo. Ma che continuano ad apparirci "formidabili" perché furono anni di un' intensa - e mai più ritrovata - creatività diffusa, di un interscambio tra discipline e generi, tra musica e letteratura, arte e cinema, teatro e impegno civile. Napoli era una fucina di idee e di iniziative, dal Parco Margherita dove c' erano il teatro di Vittorio Lucariello e la galleria di Lucio Amelio (prima di spostarsi a piazza dei Martiri), a via Martucci, dove avevano trovato posto il Teatro Esse di Gennaro Vitiello, il Tin di Michele Del Grosso e il primo Playstudio di Arturo Morfino, fino ai Gradoni di Chiaia dove si trovava il Cinema No e a Port' Alba, dove c' era la Cineteca Altro. Luoghi che, con le sue macchine fotografiche a tracolla (una reflex d' ordinanza, ma anche una silenziosa Leica per le foto a teatro), Fabio Donato frequentava assiduamente, documentando avvenimenti che erano speranze, trasgressioni, discussioni ideali. Fabio fotografava tutto: sembrava che la fotografia dovesse non solo fermare il ricordo, ma moltiplicare i punti di vista, le digressioni, gli approfondimenti. Fu quello il periodo in cui la fotografia si impose definitivamente come autentica forma di comunicazione, strumento di lotta, di provocazione, ma anche di riflessione e di analisi, alternativa alla scrittura, troppo lenta, troppo metaforica e allusiva per descrivere la rivoluzione in atto nello spettacolo e nell' arte. Oggi Fabio Donato ha finalmente cominciato a stampare alcune foto degli anni Settanta. Abbiamo visto di recente, al Pan, le foto di Peppe Manigrasso e di Arturo Morfino negli improvvisati environment, happening, performances, che erano i mezzi d' espressione tipici del periodo: eventi, "macchine linguistiche" dove arte, teatro e musica giocavano i loro dispositivi di intertestualità. Ora, dal suo sterminato archivio, Fabio tira fuori alcune foto di Luciano Cilio (ce le ha mostrate presso il Porticato dell' Esculapio) per il quale già creò la copertina del suo unico disco, "Dialoghi del presente" (Emi, 1977), un album di struggente bellezza, di un musicista rigoroso e delicato, ucciso negli anni Ottanta, a soli 33 anni, da quella dissipatrice capacità d' incomprensione che Napoli riserva ai suoi figli migliori (per poi cancellarli nell' indifferenza dell' oblio). Grazie alla Die Schachtel, "Dialoghi del presente", integrato con altro materiale dell' autore, può ancora essere ascoltato in "Dell' universo assente", un cd amorosamente curato da Girolamo De Simone, stimato musicista sperimentale e amico di Cilio. Le foto in copertina fermano quattro diversi momenti di una barca di pescatori che attraversa lo spazio dal bordo sinistro del primo fotogramma al bordo destro del terzo per poi sparire nel quarto. Il puntuale ed effimero trascorrere del tempo è intimamente legato al punto di vista della macchina fotografica che lo rende visibile. I livelli di interscambio simbolico tra la realtà e la sua riproduzione oscillano su un territorio borderline. Così come la musica di Luciano, per la quale è difficile trovare una collocazione di genere (classica, minimale, ambient, progressive ), parte importante della fertile Napoli underground degli anni Settanta. Buon chitarrista, tra i pochi a maneggiare uno strumento difficile come il sitar (imparato dall' amico Shawn Philips), Luciano aveva suonato nel primo album di Alan Sorrenti, "Aria", quando Sorrenti era un autentico pioniere del pop italiano. Carattere scorbutico e volto d' angelo, Luciano Cilio credeva in un' avanguardia psichedelica, che dalla tradizione approdasse a un suono nuovo, ancora inascoltato. «In queste registrazioni - scriveva sulla copertina di "Dialoghi del presente" il musicista postrock americano Jim O' Rourke - si può chiaramente percepire una necessità che raramente si trova nella musica: un momento nel quale si può veramente sentire un artista in reale contatto con se stesso. Luciano Cilio coglie quell' attimo sospeso nel tempo, come un autentico testamento emotivo, qualcosa da tenere a cuore». Troppo avanti sul proprio tempo, Luciano alternava momenti di impegno (come gli "Incontri nazionali della Nuova Musica" per "Estate a Napoli", nel 1980) a momenti di depressione, che combatteva con micidiali cocktail di whisky e Tavor. Il 22 ottobre del 1979, dopo un concerto alla Modern Art Agency di Lucio Amelio, Cilio rilasciò un' intervistaa Lucio Seneca per "Paese Sera" nella quale dichiarava che l' esperienza di John Cage era terminata e che i vari Berio e Nono avevano dato origine a una schiera di imitatori orecchianti, un' avanguardia di maniera afflitta dalla «retorica delle fabbriche occupate». Le accademie musicali lo consideravano «un geniale autodidatta dilettante», ma niente di più. Mentre «era diventato uno straordinario architetto del suono - ricorda Girolamo De Simone, suo allievo, testimone ed esegeta - capace di fondere in uno stile inconfondibile le diverse anime della città di Napoli». De Simone definisce la musica di Luciano Cilio come «disgregazione, vaporizzazione delle armonie». Luciano era consapevole del punto di non ritorno raggiunto dall' inespressività dello sperimentalismo. Con la scelta radicale di togliersi la vita, portò l' afonia creativa alle estreme conseguenze, rendendosi «simbolicamente definitivo». Le foto di Fabio Donato ci restituiscono il volto e il corpo di questo artista troppo presto scomparso e dimenticato. Luciano che suona il sitar, che dirige l' orchestra del San Carlo, che dialoga con Shawn Philips, che passeggia con Alan Sorrenti, che siede alla consolle di Radio Napoli Prima. In un momento in cui la voglia di memoria si fa più ostinata (ma altrettanto ostinata è la voglia orwelliana di riplasmarla, gettandone buona parte nei vortici del silenzio), queste immagini rigorose e delicate sono capaci di commuoverci e, contemporaneamente, di fustigare istituzioni ancora sorde alle realizzazioni dell' arte non omogeneizzata, indifferenti al percorso di artisti solitari. Nel citato articolo di "Paese Sera", Luciano Cilio era definito «una testimonianza di caparbietà» e Gianni Cesarini sul "Mattino" parlò di una «musica dell' ostinazione». Caparbietà e ostinazione che sono, di nuovo, in queste preziose documentazioni fotografiche, a ribadire il valore di memorie scomode, "non riconciliate", dissipate, ma importanti proprio perché non assimilabili ai balbettii presuntuosi del presente.
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MARIO FRANCO