Meeting Point

 

in Ultrasuoni/Alias (Cage/Cunnigham; Glass/Wilson; Eno/Byrne)
n. 13 del 29 marzo 2003

Un incontro ‘eccellente’ tra due personalità della cultura dovrebbe essere riportato soprattutto per quello che ha prodotto, e non solo in termini di opera ‘reificata’, per dirla con un parolone. Talora dallo scontro delle immaginazioni vien fuori una sorta di inseminazione che produce vortici creativi e, qualche volta, opere o spettacoli che lasciano un segno. Quella che segue è una piccola lista, molto personale, di eventi di questo tipo. Ciascun incontro mostra un tema, un nome, un contesto, che implicitamente rimanda all’altro, in un gioco di relazioni ancora in grado di fecondare ulteriori opere o riflessione. 

Aaron Copland - Leo Smit
Leo Smit a quattordici anni aveva lavorato con Dimitri Kabalevski, Isabella Vagerova, Nicolas Nabokov. A quindici faceva il pianista per l’American Ballet Caravan al fianco di George Balanchine e Igor Stravinskij, in opere come “Apollon Musagète”, “Baiser de la fée” e “Jeu de cartes”. Incrociava il suo percorso con Bernstein, Stokowski, Hindemith, e con numerosissimi altri artisti di rilievo, risultando dedicatario di brani, primo esecutore, direttore, trascrittore. Scriveva e pubblicava, come compositore, “Copernicus”, “At the Corner of the Sky”  ed i “Canti di meraviglia” per coro maschile.
Una simile parentesi di vita non poteva che produrre esiti inusuali nell’incrociarsi col grande compositore Aaron Copland, di cui Leo Smit inciderà una integrale per pianoforte con incredibile, inesauribile energia (Sony classical, 1994).
Per screditare Copland certi critici riferivano di una sua ‘stranezza’ ed, smentita invece da una lucidità inesausta in Come ascoltare la musica (Milano 2001, Garzanti), un libro scritto per chiunque voglia comprendere ed amare la musica tutta intera, senza preclusioni di genere o scuola. Copland confidava a Phillip Ramey: “le idee mi vengono in mente, ma ho bisogno di un pianoforte per lavorarci, così come a un letterato serve la macchina per scrivere”. In Leo Smit trovò un pianoforte ‘supplementare’ che trasformasse le sue idee in musica sfavillante.
Smit scriveva ad Aaron, in modo scherzoso: “Il mondo antico comprende 142 specie di cucù. In America del Nord non ce ne sono che due: il coccyzus erythropthalmus Ives ed il coccyzus americanus Copland”.
Il “cucù Copland” non eviterà d’esplorare il nido ancestrale d’Europa, formandosi con la celebre didatta Nadia Boulanger; ma tornerà alla terra natale per elevarsi  alto nell’aria, e cogliere il vero ed originario (ora smarrito?) spirito americano.
 

John Cage - Merce Cunningham
In una lettera a Pierre Boulez del 17 gennaio 1950, Cage, il grande musicista aleatorio, riferisce del panorama musicale americano degli anni Cinquanta. I nomi sono quelli di Copland (rieccolo, unico allora a conoscere la musica di Boulez!), Messiaen (“mi piace per le sue idee ritmiche”), Babbitt (“ha più l’aria di un musicologo”), e, solo apparentemente fuori contesto, Cunningham. Merce ha proposto un “concerto di danza”: un grande successo. Cage spedisce il programma dell’evento a Boulez. La loro musica prenderà direzioni opposte, per distanze siderali.
Cambio di scena: Napoli, 30 aprile 1985, Teatro San Ferdinando. Merce Cunningham e John Cage, con David Tudor e Takeisha Kosugi presentano “Events”, un altro ‘concerto di danza’. Il musicista siede ad un tavolino, produce suoni con microfoni ed oggetti vari. I danzatori ignorano l’esatta successione dei suoni, anche se ne intuiscono la tipologia. “Presentati senza intervallo, questi ‘Events’ consistono in danze complete, estratti di danze di repertorio e, spesso, nuove sequenze organizzate per spettacoli e spazi specifici, con la possibilità che le diverse azioni separate accadano contemporaneamente. Questo per creare non tanto una serata di danza quanto, piuttosto, l’esperienza stessa della danza”. Dalla collaborazione vengon fuori opere come “Variation V” di Cage, su commissione della Philarmonica di New York, realizzata insieme a Merce nel 1965 al Lincoln Center. O come i “Sixty Mesotics Re Merce Cunningham” per voce non accompagnata e microfono, del 1971, la cui incisione più famosa viene realizzata da Demetrio Stratos (Cramps Records, 1974).
Anni dopo, nel ricordare Demetrio, Cage avrebbe composto un mesostico, che qui riporto nella traduzione di Gabriele Bonomo (vi si legge, incolonnando le maiuscole, il nome di Stratos): “accettanDo / l’idEa / che la sua Musica / non si fossE mai / dovuTa / feRmare / l’estensIone della sua / vOce non avrebbe / conoSciuto / limiTi / lui pRossimo / Ad apprendere / in Tibet / pOi altrove / nello Spazio vocale”. (Aa. Vv., John Cage, Milano 1998, Marcos Y Marcos) 

Philip Glass - Bob Wilson
Giunti agli anni Settanta, Robert Wilson era già famoso. Il suo talento teatrale cominciava ad estendersi oltre Soho e New York. Nel 1973  rappresentava “The life and Times of Josef Stalin” alla Brooklyn Academy of Music, uno spettacolo lungo una intera nottata. All’ultima replica, con pochi eroici masochisti, si presentava in sala Philip Glass armato di torta e caffé, deciso a godersi le dodici ore dell’allestimento. “Di fronte al lavoro di Bob Wilson la mia reazione fu immediata: lo amai. Ho capito allora, e da allora per sempre, il suo senso del tempo, dello spazio e del movimento teatrale”. In quel periodo anche Glass stava terminando una lunga composizione, “Music in Twelve Parts”, della durata di circa sei ore, ed è naturale che tra i due talenti  scattasse una molla. Infatti, a partire dalla primavera del 1974 Philip e Bob  cominciano a frequentarsi sistematicamente, cercando una forma inedita di collaborazione. Occorre però un soggetto, e passano da Hitler a Gandhi, fino a trovare un amore comune in Alfred Einstein. Così nasce “Einstein on the beach” uno dei più famosi ed importanti lavori di teatro musicale. In Glass si consolida un antico amore: “Dal mio punto di vista, cominciavo a trovare interessante l’argomento ‘opera’. Non le dissertazioni su che cosa sia una ‘vera’ opera - delle quali proprio non mi curavo. Quello che mi interessava era la realtà fisica dei teatri”. Glass si dedicherà da allora con impegno costante al teatro musicale, cercando una via d’uscita dal minimalismo meramente ripetitivo amato dai puristi del genere, ed approdando ad una effusiva, suadente, evocativa commistione tra ripetizione strumentale ed impiego melodico della voce. 

Brian Eno - David Byrne
Sempre nei Settanta Eno scriveva: “Ho avuto la visione di un’Africa psichedelica”. Lo racconta Adrian Sherwood, fautore di una mistica soluzione tra sonorità reggae ed effetti-eco. Incontri segreti si tennero a New York tra Brian Eno, David Byrne e Jon Hassell: obiettivo comune, la realizzazione di una “musica classica del futuro dal ‘colore del caffé’, sia in termini di nuova organizzazione strutturale (uso del computer, accoppiata suono-video) sia per un’espansione del vocabolario musicale nel quale si potesse esprimere la nuova struttura” (D. Toop). Secondo Hassell occorreva insomma lasciarsi alle spalle la tradizione eurocenrica. Gli ascolti vanno verso la celebre etichetta etnica “Ocora”, cui perfino i Talking Heads, prodotti in quel tempo da Eno, vengono rinviati per ascolti istruttivi. Alla fine Eno e Byrne pubblicano l’album “My Life In the Bush of Ghosts” (Virgin/Sire, 1981), definito da Douglas Rushkoff come “fonte d’ispirazione per gli artisti da lì a venire, che registreranno industrial, house, e persino rap e hip-hop”. La strada verso i nuovi mondi sembrava aperta ed armoniosa. Sempre a partire da New York il sistema avrebbe invece collassato.

Autore: Girolamo De Simone

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