Un incontro ‘eccellente’ tra due
personalità della cultura dovrebbe essere riportato soprattutto per
quello che ha prodotto, e non solo in termini di opera ‘reificata’,
per dirla con un parolone. Talora dallo scontro delle immaginazioni vien
fuori una sorta di inseminazione che produce vortici creativi e, qualche
volta, opere o spettacoli che lasciano un segno. Quella che segue è una
piccola lista, molto personale, di eventi di questo tipo. Ciascun
incontro mostra un tema, un nome, un contesto, che implicitamente
rimanda all’altro, in un gioco di relazioni ancora in grado di
fecondare ulteriori opere o riflessione.
Aaron
Copland - Leo Smit
Leo Smit a quattordici anni aveva lavorato con Dimitri Kabalevski,
Isabella Vagerova, Nicolas Nabokov. A quindici faceva il pianista per
l’American Ballet Caravan al fianco di George Balanchine e Igor
Stravinskij, in opere come “Apollon Musagète”, “Baiser de la fée”
e “Jeu de cartes”. Incrociava il suo percorso con Bernstein,
Stokowski, Hindemith, e con numerosissimi altri artisti di rilievo,
risultando dedicatario di brani, primo esecutore, direttore,
trascrittore. Scriveva e pubblicava, come compositore, “Copernicus”,
“At the Corner of the Sky” ed
i “Canti di meraviglia” per coro maschile.
Una simile parentesi di vita non poteva che produrre esiti inusuali
nell’incrociarsi col grande compositore Aaron Copland, di cui Leo Smit
inciderà una integrale per pianoforte con incredibile, inesauribile
energia (Sony classical, 1994).
Per screditare Copland certi critici riferivano di una sua
‘stranezza’ ed, smentita invece da una lucidità inesausta in Come ascoltare la musica (Milano 2001, Garzanti), un libro scritto
per chiunque voglia comprendere ed amare la musica tutta intera, senza
preclusioni di genere o scuola. Copland confidava a Phillip Ramey: “le
idee mi vengono in mente, ma ho bisogno di un pianoforte per lavorarci,
così come a un letterato serve la macchina per scrivere”. In Leo Smit
trovò un pianoforte ‘supplementare’ che trasformasse le sue idee in
musica sfavillante.
Smit scriveva ad Aaron, in modo scherzoso: “Il mondo antico comprende
142 specie di cucù. In America del Nord non ce ne sono che due: il coccyzus
erythropthalmus Ives ed il
coccyzus americanus Copland”.
Il “cucù Copland” non eviterà d’esplorare il nido ancestrale
d’Europa, formandosi con la celebre didatta Nadia Boulanger; ma
tornerà alla terra natale per elevarsi
alto nell’aria, e cogliere il vero ed originario (ora
smarrito?) spirito americano.
John
Cage - Merce Cunningham
In una lettera a Pierre Boulez del 17 gennaio 1950, Cage, il grande
musicista aleatorio, riferisce del panorama musicale americano degli
anni Cinquanta. I nomi sono quelli di Copland (rieccolo, unico allora a
conoscere la musica di Boulez!), Messiaen (“mi piace per le sue idee
ritmiche”), Babbitt (“ha più l’aria di un musicologo”), e, solo
apparentemente fuori contesto, Cunningham. Merce ha proposto un
“concerto di danza”: un grande successo. Cage spedisce il programma
dell’evento a Boulez. La loro musica prenderà direzioni opposte, per
distanze siderali.
Cambio di scena: Napoli, 30 aprile 1985, Teatro San Ferdinando. Merce
Cunningham e John Cage, con David Tudor e Takeisha Kosugi presentano “Events”,
un altro ‘concerto di danza’. Il musicista siede ad un tavolino,
produce suoni con microfoni ed oggetti vari. I danzatori ignorano
l’esatta successione dei suoni, anche se ne intuiscono la tipologia.
“Presentati senza intervallo, questi ‘Events’ consistono in danze
complete, estratti di danze di repertorio e, spesso, nuove sequenze
organizzate per spettacoli e spazi specifici, con la possibilità che le
diverse azioni separate accadano contemporaneamente. Questo per creare
non tanto una serata di danza quanto, piuttosto, l’esperienza stessa
della danza”. Dalla collaborazione vengon fuori opere come
“Variation V” di Cage, su commissione della Philarmonica di New
York, realizzata insieme a Merce nel 1965 al Lincoln Center. O come i
“Sixty Mesotics Re Merce Cunningham” per voce non accompagnata e
microfono, del 1971, la cui incisione più famosa viene realizzata da
Demetrio Stratos (Cramps Records, 1974).
Anni dopo, nel ricordare Demetrio, Cage avrebbe composto un mesostico,
che qui riporto nella traduzione di Gabriele Bonomo (vi si legge,
incolonnando le maiuscole, il nome di Stratos): “accettanDo / l’idEa
/ che la sua Musica / non si fossE mai / dovuTa / feRmare /
l’estensIone della sua / vOce non avrebbe / conoSciuto / limiTi / lui
pRossimo / Ad apprendere / in Tibet / pOi altrove / nello Spazio
vocale”. (Aa. Vv., John Cage, Milano 1998, Marcos Y Marcos)
Philip
Glass - Bob Wilson
Giunti agli anni Settanta, Robert Wilson era già famoso. Il suo talento
teatrale cominciava ad estendersi oltre Soho e New York. Nel 1973
rappresentava “The life and Times of Josef Stalin” alla
Brooklyn Academy of Music, uno spettacolo lungo una intera nottata.
All’ultima replica, con pochi eroici masochisti, si presentava in sala
Philip Glass armato di torta e caffé, deciso a godersi le dodici ore
dell’allestimento. “Di fronte al lavoro di Bob Wilson la mia
reazione fu immediata: lo amai. Ho capito allora, e da allora per
sempre, il suo senso del tempo, dello spazio e del movimento
teatrale”. In quel periodo anche Glass stava terminando una lunga
composizione, “Music in Twelve Parts”, della durata di circa sei
ore, ed è naturale che tra i due talenti scattasse una molla. Infatti, a partire dalla primavera del
1974 Philip e Bob cominciano
a frequentarsi sistematicamente, cercando una forma inedita di
collaborazione. Occorre però un soggetto, e passano da Hitler a Gandhi,
fino a trovare un amore comune in Alfred Einstein. Così nasce
“Einstein on the beach” uno dei più famosi ed importanti lavori di
teatro musicale. In Glass si consolida un antico amore: “Dal mio punto
di vista, cominciavo a trovare interessante l’argomento ‘opera’.
Non le dissertazioni su che cosa sia una ‘vera’ opera - delle quali
proprio non mi curavo. Quello che mi interessava era la realtà fisica
dei teatri”. Glass si dedicherà da allora con impegno costante al
teatro musicale, cercando una via d’uscita dal minimalismo meramente
ripetitivo amato dai puristi del genere, ed approdando ad una effusiva,
suadente, evocativa commistione tra ripetizione strumentale ed impiego
melodico della voce.
Brian
Eno - David Byrne
Sempre nei Settanta Eno scriveva: “Ho avuto la visione di un’Africa
psichedelica”. Lo racconta Adrian Sherwood, fautore di una mistica
soluzione tra sonorità reggae ed effetti-eco. Incontri segreti si
tennero a New York tra Brian Eno, David Byrne e Jon Hassell: obiettivo
comune, la realizzazione di una “musica classica del futuro dal
‘colore del caffé’, sia in termini di nuova organizzazione
strutturale (uso del computer, accoppiata suono-video) sia per
un’espansione del vocabolario musicale nel quale si potesse esprimere
la nuova struttura” (D. Toop). Secondo Hassell occorreva insomma
lasciarsi alle spalle la tradizione eurocenrica. Gli ascolti vanno verso
la celebre etichetta etnica “Ocora”, cui perfino i Talking Heads,
prodotti in quel tempo da Eno, vengono rinviati per ascolti istruttivi.
Alla fine Eno e Byrne pubblicano l’album “My Life In the Bush of
Ghosts” (Virgin/Sire, 1981), definito da Douglas Rushkoff come
“fonte d’ispirazione per gli artisti da lì a venire, che
registreranno industrial, house, e persino rap e hip-hop”. La strada
verso i nuovi mondi sembrava aperta ed armoniosa. Sempre a partire da
New York il sistema avrebbe invece collassato.